Salvadore Cammarano

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

Milano, Teatro alla Scala, 13 marzo 2023

★★★☆☆

(diretta televisiva)

Lisette Oropesa infiamma il pubblico della Scala

Con le trasmissioni video l’opera ha aggiunto la dimensione visiva a quella solo acustica dei dischi, in vinile o CD, a cui è stato confinato per parecchi decenni chi non poteva frequentare i teatri d’opera. Esserci di persona è un’altra cosa, è lapalissiano, ma è comunque già molto poter vedere lo spettacolo sullo schermo. Se poi si dispone di un impianto di riproduzione audio di alto livello la fruizione si avvicina abbastanza alla realtà.

Ahimè, non è il mio caso: il mio apparecchio televisivo denuncia i suoi anni e finché non passo a qualcosa di più sofisticato mi devo accontentare e adattare il mio udito al segnale sonoro che ricevo. Ecco quindi che per quanto riguarda l’ultima trasmissione televisiva offerta dal Teatro alla Scala, la Lucia di Lammermoor che doveva inaugurare la stagione lirica 2020-21 annullata per Covid, le impressioni devono fare i conti con le limitatezze del mezzo: equilibri e volumi sonori non sono quelli che avrei potuto ascoltare dal vivo e i miei altoparlanti evidenziano difetti che probabilmente in realtà non ci sono o al contrario smussano asperità che il pubblico in sala ha invece percepito. Tutto questo per mettere le mani avanti rispetto alla mia impressione sull’esecuzione musicale che mi è entrata in casa.

Meglio va per l’elemento visivo, anche se la regia televisiva talora migliora quello che si è visto dal vero, talora lo peggiora oppure ne fornisce una prospettiva diversa. Tre aspetti sono risultati comunque ben chiari in questa ultima Lucia alla Scala: l’apprezzamento del pubblico per la direzione musicale, il trionfo di almeno due degli interpreti vocali, i dissensi per la messa in scena.

Riccardo Chailly restituisce Lucia «alla purezza e all’identità donizettiana» con il ripristino di 33 battute e delle parti che troppo spesso vengono tagliate, soprattutto per quella di Raimondo che riacquista qui il suo giusto peso drammaturgico. Il Maestro si basa sulla edizione critica di Gabriele Dotto e Roger Parker della partitura utilizzata il 26 settembre 1835 al Teatro di San Carlo di Napoli e pone molta «attenzione alla continuità, cioè al filo armonico e drammatico» che lega le azioni dei personaggi, eseguendo senza interruzione le prime due parti, “La partenza” e “Il contratto nuziale I” prima dell’intervallo cui segue “Il contratto nuziale II”. Oltre all’utilizzo della glasharmonika per la scena della pazzia viene anche eliminata la cadenza del soprano col flauto, composta nel 1889 per Nellie Melba dalla sua maestra di canto, che quindi di Donizetti non ha nulla. 

Fin qui le intenzioni. Per quanto riguarda i risultati della sua lettura della partitura e la sua concertazione, la direzione di Chailly si è fatta ammirare per la incalzante continuità narrativa della fosca vicenda, la varietà delle dinamiche e dei colori, ma nello stesso tempo la cura per i dettagli strumentali. L’orchestra accompagna con partecipazione il duetto d’amore prima, l’inquietudine di Lucia poi, la convulsa scena del contratto di nozze, la tensione del grande concertato del secondo atto. L’atmosfera diventa violenta nella scena della torre dove la furia degli elementi sottolinea quella dei due uomini che si fronteggiano. Non è solo la glasharmonika a dare il tono spettrale alla pazzia di Lucia: i pizzicati degli archi, le volatine del flauto, le lunghe note di oboe e clarinetto, tutto converge a dipingere efficacemente la desolazione della donna e la sua conseguente follia omicida.

Autentiche ovazioni accolgono la performance di Lisette Oropesa. Un risultato sorprendente in un teatro che ha visto nel passato le ingombranti presenze di Maria Callas (1954), Joan Sutherland (1961), Renata Scotto (1967), Beverly Sills (1970), Luciana Serra (1983), Mariella Devia (1992) o June Anderson (1997). Elvio Giudici nel programma di sala analizza il ruolo che a Napoli e a Parigi fu della Fanny Tacchinardi Persiani per poi arrivare alle incisioni con la Pagliughi e Lily Pons, fino alle recenti Rancatore e Netrebko. Ora si inserisce a sorpresa quello appunto del soprano americano di cui si ammirano soprattutto la duttilità vocale e la presenza scenica. Vera interprete belcantista, non gioca solo magistralmente con piani e pianissimi, agilità fluide e leggere, acuti luminosissimi, ma riesce a delineare un personaggio drammaticamente consistente che da subito fa presagire l’instabilità mentale che la porterà alle estreme conseguenze dell’uxoricidio. Sentimenti quali il languore amoroso nei duetti con Edgardo o l’angoscia poi disperata, sono vissuti con grande sensibilità e forse un eccesso di vibrato dalla cantante che però ha dalla sua una bella freschezza vocale.

Secondo per intensità di applausi è il Raimondo di Michele Pertusi, personaggio che come già detto ha riacquistato la sua dimensione drammaturgica dando la possibilità al basso parmense di esibire le sue intatte doti vocali e interpretative sostenute da un’emissione potente ma morbida, da un fraseggio impeccabile, da un’espressione chiara e solenne tale da suscitare empatia verso un personaggio che ha invece i suoi lati ambigui. 

Sempre sul programma di sala Alberto Mattioli discetta del ruolo maschile dell’opera, l’Edgardo creato a Napoli da quel Gilbert-Louis Duprez che quattro anni prima aveva partecipato con scalpore alla inaugurazione a Lucca della prima italiana del Guillaume Tell rossiniano ma che diventerà il tenore preferito da Donizetti, il quale scriverà per lui ben sei opere – oltre alla Lucia, Parisina, Rosmonda d’Inghilterra, Les Martyrs, La favorite e Dom Sébastien. Qui alla Scala Chailly ha voluto Juan Diego Flórez che sconfina un poco in un repertorio non del tutto suo apportandovi però la sua classe. Nella ripresa televisiva non si nota la relativa mancanza di volume che qualcuno ha lamentato dal vivo, anzi. Unica pecca nella sua interpretazione è una presenza scenica poco efficace con una certa gesticolazione di maniera e un’espressività facciale poco fotogenica. Neanche Boris Pinkhasovič è un esempio di grande attorialità, vocalmente però è potente, elegante e il suo Enrico non ricorre a emissioni sforzate per sottolineare la crudeltà del personaggio. Efficace il coro e convincenti gli interpreti dei ruoli minori: Giorgio Misseri (Normanno), Leonardo Cortellazzi (Arturo) e Valentina Plužnikova (Alisa).

Sonori buu hanno salutato l’ingresso del regista Yannis Kokkos ai saluti finali: non è chiaro se perché la sua regia è stata considerata troppo tradizionalista o, all’opposto, perché ha scelto costumi moderni. In effetti gli abiti anni ’20 dei personaggi erano l’unico elemento imprevedibile di una messa in scena che poteva tranquillamente risalire a  cinquant’anni fa. La scenografia è scura e si avvale di pochi elementi didascalici come le statue di levrieri e cervi per la scena della caccia, di una donna velata come il Cristo della cappella Sansevero di Napoli per quella della fontana della Sirena, della Morte con la falce per il cimitero. Elementi scenici obliqui ricordano sia la produzione di Pier’ Alli del 1992 sia la recente Aida di Livermore mentre sulla scalinata ingombra degli invitati alla festa appare la figura di Lucia nella solita veste bianca macchiata, qui con moderazione, di sangue. Quasi totale la mancanza di regia attoriale e se ne esce comunque vincente la Oropesa, Flórez e Pinkhasovič ne risentono. Precisi ma prevedibili i movimenti del coro.

Nulla di particolarmente originale nella lettura di Kokkos dunque, ma neanche di fastidioso o fuorviante. Dalla Scala ci si aspetterebbe però qualcosa di più. Semplicemente quello che si può vedere appena al di là dei confini, come ad esempio la Lucia del Teatro Real di Madrid.

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Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★☆☆

New York, Metropolitan Opera House, 21 maggio 2022

(live streaming)

Al Met una Lucia splatter che piacerebbe a Quentin Tarantino

Il prezioso manoscritto della partitura della Lucia di Lammermoor andata in scena a Napoli nel 1835 e  custodito nella biblioteca Angelo Mai di Bergamo varca l’oceano la prima volta per essere esposto all’Istituto Italiano di Cultura di New York dove il 21 aprile è stata tenuta una tavola rotonda con la partecipazione di Riccardo Frizza che ha diretto al Metropolitan Opera House l’opera nella nuova produzione di Simon Stone, per la prima volta nel teatro americano, l’ultima delle centinaia rappresentazioni di questo titolo particolarmente frequente al Met. L’ultima delle repliche è stata trasmessa live nei cinema aderenti al progetto “The Met Live in HD”, ed è quella a cui si riferisce questa recensione.

Che la vicenda di Walter Scott abbia ultimamente abbandonato le originali brume della Scozia non fa notizia nei teatri che la mettono in scena in Europa, ma il Metropolitan di New York non si è sempre dimostrato molto aperto a una rivisitazione dei classici della lirica, preferendo regie tradizionali. Già i costumi Ottocento del precedente allestimento di Mary Zimmermann avevano fatto arricciare il naso ad alcuni spettatori, ma ora Simon Stone trasporta «Lucia, closeups of a cursed life» (Lucia, primi piani di una vita infelice) come si legge all’inizio, nella attualità di un desolato paese della Rust Belt. Ed ecco le dichiarazioni del regista: «La Lucia originale si svolge nella Scozia del XVIII secolo con la caduta dell’aristocrazia: è molto importante l’idea che la fine di quest’epoca gloriosa dell’aristocrazia scozzese abbia portato con sé ogni tipo di povertà e decadenza, utilizzando le donne per riconquistare un certo tipo di potere. Cerco sempre di ambientare ogni opera che faccio nel Paese in cui la metto in scena perché voglio parlare in qualche modo al pubblico che la guarda e in questo caso ho cercato di trovare un luogo in America che riflettesse un’epoca gloriosa passata e il posto più suggestivo che ci è venuto in mente è stata la Rust Belt», quell’area degli Stati Uniti dove il declino delle industrie ha lasciato spazio a declino economico e decadenza urbana.

La vicenda è dunque giustamente adattata: non è da un «impetuoso toro» che Lucia viene salvata, ma da un tentativo di rapina sventato da Edgardo, come vediamo durante il preludio; il racconto del fantasma della fontana, che è un impianto idroelettrico abbandonato, è l’omicidio di una giovane ragazza di colore; Edgardo, lavorante in un fast food, deve partire soldato; Enrico è un trafficante di droga e prostituzione i cui affari però vanno male; la lotta fra le casate è la lotta fra gruppi mafiosi; le lettere fra i due giovani sono i messaggi sui social; il «simulato foglio» è una fake news sul cellulare; la torre di Wolferang è un pick up parcheggiato davanti al supermercato e al banco dei pegni. E la scena dell’uccisione è in pieno stile splatter con Arturo ammazzato con un estintore. Ma non è niente in confronto a Lucia che sembra uscita da una doccia di sangue: nella gara a chi ne fa più uso, al momento questa la vince su tutte e l’horror confina col grottesco quando un esercito di zombie con le fattezze di Arturo salta fuori prima della cabaletta «Spargi d’amaro pianto». Prima ancora la festa di nozze era finita in una rissa tra gli invitati e a torte in faccia. Tutto ha una sua logica ma qui, più che altre volte, il contrasto fra le parole che ascoltiamo – il registro letterario dei versi di Cammarano – e le immagini di prosaica contemporaneità è insanabile. Ma c’è da dire che questo problema non riguarda gli spettatori americani che non conoscono l’italiano e hanno a disposizione dei sovratitoli con una traduzione molto libera del libretto.

La piattaforma rotante, di cui Stone è sempre stato un fedele utilizzatore e vero marchio di fabbrica degli allestimenti di oggi, è presente anche in questa scenografia di Lizzie Clachan: si passa quindi con continuità nei paesaggi degradati di motel, parcheggi, diner, cinema drive-in, squallidi cortili con le volgari decorazioni delle nozze. Su uno schermo in alto si vedono i primi piani degli interpreti ripresi da una onnipresente steady-cam, un’idea non originale e che funziona male nella trasmissione video in cui il regista insiste sui primi piani dei protagonisti e si perde l’incessante roteare della piattaforma.

Magnifica la concertazione di Riccardo Frizza, sempre rispettosa delle voci, con tempi giusti, con tutti i tagli di tradizione riaperti e l’uso della glasharmonika nella scena della pazzia. Nadine Sierra è una Lucia notevole per potenza vocale, agilità dipanate con maestria, variazioni nelle riprese e puntature fulminanti. Sempre in primo piano nella ripresa televisiva, si dimostra grande attrice ed è bravissima a non uscire dal personaggio durante gli interminabili applausi a scena aperta. Javier Camarena ha voce leggera e timbro chiaro che lo  connotano come l’innocente capitato in un mondo crudele. Inizialmente più Nemorino che Edgardo, prende quota nel corso della rappresentazione e negli acuti la voce esce fuori in tutta la sua potenza e drammaticità. Artur Ruciński è un Enrico trucido e vocalmente brutale, senza sfumature. Pieno di tatuaggi come un criminale o un affiliato della Yakuza, sniffa coca, si attacca alla bottiglia e ha sempre la sigaretta sulle labbra e il coltello in mano. Christian van Horn sostituisce Matthew Rose con grande autorevolezza nella parte di Raimondo. Ottimo come sempre l’apporto del coro.

Numerosi applausi a scena aperta, ovazioni e standing ovation finale ai quattro protagonisti principali. Qui al Met è importante dare al pubblico quello che si aspetta: immagini forti e acuti.

Luisa Miller

 

foto © Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

Giuseppe Verdi, Luisa Miller

★★★★★

Rome, Teatro dell’Opera, 6 février 2022

 Qui la versione italiana

Quand une œuvre sous-estimée se révèle être un chef-d’œuvre !

Verdi n’a jamais connu les joies de la famille, ses enfants étant morts à l’âge de deux ans, et sa femme peu après. Le thème de la relation père/fils-fille ressurgira sans cesse dans ses opéras, comme pour sublimer cette tragédie lointaine. On trouve dans Luisa Miller (Naples, 1849) une illustration de ces relations familiales douloureuses et conflictuelles.

Le livret de Salvadore Cammarano est basé sur un auteur qui a toujours été proche du cœur de Verdi, Friedrich Schiller, dont Giovanna d’Arco fut mise en musique en 1845 et I masnadieri en 1847. Schiller est l’auteur de Kabale und Liebe (Intrigue et amour, 1784), une « tragédie bourgeoise » et un exemple classique du Sturm und Drang, le mouvement culturel qui a anticipé le romantisme allemand…

la suite sur premiereloge-opera.com

Luisa Miller

 

foto © Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

Giuseppe Verdi, Luisa Miller

★★★★★

Roma, Teatro dell’Opera, 6 febbraio 2022

bandiera francese.jpg Ici la version française

Quando un’opera sottovalutata si riscopre un capolavoro

Verdi non conobbe mai le gioie della famiglia, essendo morti a due anni i figli, e la moglie poco tempo dopo. Il tema del rapporto padre/figli riaffiorerà continuamente nelle sue opere quasi a voler sublimare quella lontana tragedia. Anche in Luisa Miller (Napoli, 1849) c’è un conflitto di sofferte relazioni famigliari.

Il libretto di Salvadore Cammarano si rifà a un autore che è sempre stato nelle corde di Verdi, Friedrich Schiller, del quale aveva messo in musica Giovanna d’Arco nel 1845 e I masnadieri nel 1847. Qui Schiller è l’autore di Kabale und Liebe (Intrigo e amore, 1784), una “tragedia borghese” e classico esempio di Sturm und Drang, il movimento culturale che anticipava il Romanticismo tedesco. Gli elementi di esasperazione romantica ci sono tutti: l’amore di due giovani ostacolato dal Conte padre di lui che lo vorrebbe sposo a una duchessa; il padre di lei che finisce agli arresti per essersi ribellato alle prepotenze del Conte; il subdolo castellano che promette alla ragazza, della quale è invaghito, di liberare il padre a condizione che la giovane scriva una lettera in cui dichiari di aver raggirato il giovane e di amare il castellano; la lettera che finisce nelle mani del giovane il quale allora si rassegna alle nozze combinate dal padre per poi avvelenare la ragazza e sé stesso e scoprire troppo tardi gli inganni di cui i due giovani sono stati vittime. Se non altro andranno assieme nella tomba.

Luisa Miller è un’opera cerniera nella produzione verdiana: si lascia dietro i drammi “risorgimentali” per affrontare il dramma borghese, prelude a Stiffelio e passando per Rigoletto (di cui anticipa il rapporto padre/figlia) arriva dritto dritto alla Traviata, tutti esempi di un “teatro parlato” nettamente contrapposto al grand-opéra allora dominante. Ma non è solo nei contenuti narrativi che quest’opera di Verdi si stacca dalle precedenti: la vera novità sta nella musica, a iniziare dall’ampia la sinfonia – 356 battute, quasi cento in più di altre sinfonie più famose come quella de La forza del destino – sviluppata in forma sonata monotematica. Un pezzo strumentale che acquista una sua autonomia rispetto all’opera, ma nel contempo ne traccia il percorso drammatico che sarà svelato allo spettatore con quel tema che riapparirà in vari momenti trasformato nel tono e nel ritmo, ma chiaramente percepibile. La musica della Miller è sfumata e cangiante nella tinta e i personaggi definiti con efficacia anche a livello strumentale: il cattivo della situazione, quel Wurm di nome e di fatto (in tedesco il suo nome significa verme), è accompagnato da figurazioni cromatiche negli strumenti bassi che sembrano sottolineare la strisciante malvagità del personaggio, mentre Luisa è spesso accompagnata dal suono struggente del clarinetto.

Tutto questo è ben chiaro a Michele Mariotti, il nuovo direttore principale del Teatro dell’Opera, che debutta nella buca d’orchestra del Costanzi dando della Luisa Miller una lettura che conferma il ruolo di capolavoro di quest’opera un tempo sottovalutata. La trasparenza della strumentazione – che meraviglia i legni sotto il coro iniziale! – e la tensione drammatica sono i punti forti di una concertazione che esalta le qualità della scrittura verdiana. La continuità drammatica diventa ancora più evidente nel terzo atto, costruito in modo unitario e con il successivo ingresso dei personaggi in un crescendo implacabile realizzato da Mariotti con grande sensibilità e senso del teatro.

Senza punti di debolezza sono gli interpreti che formano un cast quasi ideale, a iniziare dalla protagonista, una sensibile e intensa Roberta Mantegna per la quale la parabola esistenziale di Luisa tocca i vertici vocali sia nei momenti solistici – e quanta trepidazione in quel «Lo vidi e ‘l primo palpito» della cavatina dell’atto primo – sia negli ensemble. La sua linea vocale è di grande nitidezza e si fonde a meraviglia con il timbro chiaro e luminoso di Antonio Poli, un Rodolfo in stato di grazia che incanta in quella che è una delle più belle melodie verdiane, «Quando le sere al placido», con quel sottofondo cullante del clarinetto (ancora questo strumento…), in cui sfoggia mezze voci, colori e scoppi di disperazione. Poli affronta con efficacia anche l’aspetto eroico nella travolgente cabaletta durante il confronto col padre che conclude il secondo atto e si dimostra a suo agio nell’impervia tessitura delle sue frasi che si inerpicano ogni volta più in alto nel pentagramma.

Di padri nella Luisa Miller ce ne sono due, accomunati entrambi dal desiderio di volere il bene dei figli, un desiderio che in maniera diversa li conduce invece alla distruzione. Michele Pertusi è l’inflessibile Conte di Walter, che arriva a usare l’inganno (la Kabale del titolo) esattamente come il fratello di Lucia di Lammermoor, per arrivare a un matrimonio di interesse. Il basso parmense non cerca di rendere meno odioso il suo personaggio, impresa impossibile, ma la sua ultima lapidaria battuta alla vista del cadavere di Luisa («Spenta!») condensa l’alterigia del conte con un po’ di rimorso, come succede per i vecchi Capuleti e Montecchi alla fine di Giulietta e Romeo. Come sempre Pertusi stupisce per l’attenzione al fraseggio e alla espressione, qui particolarmente asciutta e con voce sicura. Amartuvshin Enkhbat è l’altro padre, Miller, dove pietà paterna e onore del vecchio militare si uniscono in un commovente personaggio cui dà voce – una voce che riempie letteralmente il teatro col suo volume – il baritono che sta ridisegnando i ruoli verdiani con grandi risultati. Se ancora manca qualcosa in termini di espressività e presenza scenca, non si può non essere meravigliati dal bellissimo timbro e dalla impeccabile dizione. Daniela Barcellona è un’interprete di grande eleganza e autorevolezza vocale e delinea una Duchessa Federica difficile da dimenticare. Marco Spotti risolve con efficacia il truce personaggio di Wurm, uno Jago ancora più efferato, se possibile. I due giovani cantanti usciti dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma non sfigurano a fianco di tali stelle del canto, soprattutto Irene Savigliano che si è fatta notare come Laura per la qualità del mezzo vocale e dell’espressione. L’altro è Rodrigo Ortiz nella più breve parte del contadino che porta la lettera di Luisa a Rodolfo. Ottima prova, sotto la competente guida di Roberto Gabbiani, quella del coro.

A causa della pandemia nel maggio scorso Luisa Miller era stata eseguita in forma di concerto con buona parte degli attuali interpreti a porte chiuse e trasmessa in streaming. Ora riceve finalmente una veste scenica con la produzione che Damiano Michieletto aveva approntato per l’Opernhaus di Zurigo dodici anni fa. Il Costanzi diventa così il teatro italiano più frequentato dal regista veneziano dopo, ovviamente, La Fenice. La ripresa della regia è affidata ad Andrea Bernard e poche ma significative sono le modifiche rispetto all’originale: mancano le proiezioni sulle pareti, c’è un plafond con lucernario dove prima c’era il vuoto e, soprattutto, i costumi ora non sono più settecenteschi bensì novecenteschi per adattarsi meglio alla psicologia del personaggi: così è per gli eleganti tailleur della Duchessa, i vestitini di cotone stampato di Luisa, il cappottone nero di Wurm, tutti disegnati come sempre magistralmente da Carla Teti. L’importante gioco luci è firmato da Alessandro Carletti, un altro dei componenti del magic team di Michieletto. I personaggi si muovono in maniera simmetrica sulla scena, l’unico è Wurm, che si sposta obliquamente e più liberamente, come la Regina degli scacchi, per tessere le sue trame.

Motivi settecenteschi si trovano nella scenografia, come al solito sorprendente, di Paolo Fantin. Luisa Miller non tratta solo di conflitti generazionali, qui si scontrano anche due classi sociali – di qua una famiglia borghese, di là una nobile – e due concezioni inconciliabili – di qua pia religiosità, di là ambizione e frode – e l’ambiente che vediamo ad apertura di sipario riflette proprio questo contrasto. È un vasto interno, specularmente raddoppiato: in basso i muri scrostati e le rustiche sedie dei Miller, in alto le boiserie e le poltroncine di damasco del Conte. Al centro del palcoscenico una pedana ruotante con due letti e due tavoli accentua la simmetria dei rapporti. Col tempo i pavimenti di questi piccoli ambienti si sollevano e si richiudono a formare un cubo impenetrabile. Non ci sono esterni, anche quando le porte si spalancano danno sul buio, tutto avviene in un interno opprimente che di volta in volta è visto come l’abitazione borghese dei Miller o come il castello del Conte.

Anche per Michieletto il rapporto dei padri con i figli è un tema di grande rivelanza che ha spesso affrontato nelle sue messe in scene (Il flauto magico, Guillaume Tell, Macbeth…). Qui introduce due bambini in scena che rappresentano il passato di Rodolfo e Luisa, due bambini ignari delle differenze di classe, con i loro giocattoli, mentre si nascondono sotto i tavoli dei grandi, l’unico elemento sereno in una vicenda per lo più cupa. E con l’immagine dei due bambini che si prendono a cuscinate sul letto del cubo che ora si è aperto mentre i loro doppi adulti muoiono, si chiude uno spettacolo molto intenso, magnificamente realizzato e che è stato seguito con grande attenzione dai giovani che hanno affollato il teatro nella anteprima a loro riservata.

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★☆☆☆

Zurigo, Opernhaus, 20 giugno 2021

(video streaming)

La noia del teatro di regia

«L’avvenimento ha luogo in Iscozia, parte nel Castello di Ravenswood, parte nella rovinata torre di Wolferag. L’epoca rimonta al declinare del secolo XVI». Così indica il libretto del dramma tragico in tre atti di Salvatore Cammarano, ma nella messa in scena alla Opernhaus di Zurigo la Scozia è solo nel kilt di alcuni maschi e l’epoca è spostata nei soliti anni ’40 del secolo scorso – non una grande novità inverità.

Zeppo dei soliti clichet del teatro di regia è quello di Tatjana Gürbaca: ralenti, personaggi immobilizzati nei momenti di tensione, figuranti ingombranti, alter-ego infantili dei protagonisti, rapporti sessuali mimati, quantità industriale di sangue e coltellate nella scena dell’omicidio del novello sposo, scena che nel libretto è solo raccontata mentre qui è rappresentata esplicitamente, graphically direbbero gli americani. Nella drammaturgia di Beate Breidenbach vediamo Lucia e il fratello bambini giocare innocentemente, forse a evidenziare i tesi e talora ambigui rapporti da adulti. Fatto sta che qui Enrico alla fine si impicca. Il racconto di quando Lucia viene salvata da «impetuoso toro» dalla freccia di Edgardo, anche lui bambino, qui è visivamente rappresentato come un incubo della ragazza, incubo che ritorna la prima notte delle nozze con lo sfortunato Arturo.

La scenografia di Klaus Grünberg, che cura anche le luci, consiste in una struttura rotante che mostra praticamente sempre la stessa stanza, con tristi pannellature. Un letto perde nel corso della serata il materasso e nel finale diventa la tomba della protagonista. Le pareti col tempo si coprono di vegetazione per poi ridursi alla sola struttura. L’andirivieni dei personaggi da una all’altra si rivela incoerente e privo di necessità drammaturgica, così come la presenza del fantasma della madre (?) che suona un’arpa o il personaggio maschile a torso nudo e il minaccioso bucranio. Il tutto pare uno svogliato inserimento di psicologismo a buon mercato in una produzione di livello piuttosto mediocre.

Per di più le misure adattate dal teatro per la pandemia, ossia orchestra e coro a distanza (misure che hanno mirabilmente caratterizzato il Boris Godunov di Kosky), qui non funzionano: la direzione di Speranza Scappucci alla guida della Philharmonia Zürich è spesso frettolosa, con i tagli di cattiva tradizione e variazioni rispetto alla partitura – la scena della pazzia è trasposta in mi bemolle invece dell’originale Fa maggiore, il duetto maschile del secondo atto è abbassato di un tono rispetto all’originale La, altri aggiustamenti sono disseminati qua e là. L’intesa coi cantanti talora è precaria, così come gli interventi del coro, che rimane sonoramente distante, qui supplito da una folla di figuranti.

Nella parte del titolo Irina Lungu sostituisce la prevista Lisette Oropesa, che ha cancellato il suo impegno e la cui presenza sembra rimandata per la ripresa della produzione l’anno prossimo. Il soprano russo arriva stanco alla fine della scena della pazzia e l’acuto finale è un grido un po’ scomposto. Le agilità non sono sempre fluide e il vibrato piuttosto largo, ma il temperamento compensa una performance sostanzialmente accettabile – il che è però un po’ poco per un ruolo monstre come questo e per una produzione tanto attesa. Al suo fianco c’è Piotr Beczała, il più festeggiato dai pochi spettatori ammessi (sono pochi, ma non risparmiano i buu alla regia). Il tenore polacco, che ha cantato la parte innumerevoli volte, spiega un canto vocalmente generoso, ma sarà interessante sentire invece Benjamin Bernheim che prenderà il suo posto come Edgardo nella ripresa di primavera. Piuttosto rozzo e dal vibrato traballante è l’Enrico Ashton di Massimo Cavalletti, mentre quasi imbarazzante il Raimondo Bidebent di Oleg Tsibulko, un basso senza le note basse – e neanche le alte. Meglio i personaggi secondari di Alisa (Roswitha Christina Müller), Normanno (Iain Milne) e Andrew Owens (Arturo Bucklaw).

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★☆☆

Amburgo, Staatsoper, 20 marzo 2021

(video streaming)

L’incubo maschilista di Lucia

Non è la prima regia femminile per Lucia di Lammermoor: la tragica vicenda della disgraziata giovane, vittima dell’universo maschile che la circonda, ha già destato l’interesse, tra le altre, di Katie Mitchell. Ora Amélie Niermeyer, che a Vienna aveva urtato il pubblico con la sua Leonore, a Berlino non rinuncia a una lettura femminista del lavoro donizettiano.

La Lucia della Niermeyer non è una romantica eroina ottocentesca, è una ragazza di oggi, ben decisa, che non sviene – «Ella sta fra morte e vita!…» dice il libretto, ma qui invece sfida apertamente il fratello che le impone il matrimonio gettando per terra il manichino con l’abito da sposa – e non muore per amore: nella drammaturgia di Rainer Karlitschek scopriamo (spoiler alert!) che alla fine è viva ma è tenuta prigioniera nella sua camera e che il suo funerale è una messa in scena per far crollare il detestato Edgardo di Ravenswood. Prima e durante lo spettacolo (talora poco opportunamente) vengono proiettate le immagini di un gruppo di femministe che danzano per strada, o meglio eseguono dei gesti che anche Lucia ripete cantando

La scenografia di Christian Schmidt mostra un interno diviso in quattro ambienti su due piani distinti da colori e luci differenti montati su un piano scorrevole che può aumentare o diminuire l’ampiezza degli ambienti fino a nascondere alla nostra vista gli ambienti di destra, tra cui la camera di Lucia al primo piano. E infatti nel finale, mentre vediamo il finto funerale e il suicidio di Edgardo a sinistra, piano piano ci viene mostrata Lucia imbavagliata e legata al letto con un suggestivo effetto cinematografico. Molte belle ed efficaci sono le luci di Bernd Purkrabek, ma la regia è anche attenta alla musica, come durante le battute introduttive alla stretta «La pietade in suo favore», momento spesso imbarazzante in cui il baritono non sa che fare in attesa della sua battuta, e qui Enrico è alla ricerca di un accendino per la sua sigaretta. Subito dopo l’introduzione con arpa, che permetterebbe il cambiamento di scena, qui accompagna solo la transizione luminosa che suggerisce l’imbrunire nel parco e la “fonte” è un pianoforte verticale su cui suona la confidente/carceriera Alisa. Più psicologicamente intenzionali sono alcuni momenti come quello di «Verranno a te sull’aure», con i due giovani già irrimediabilmente separati. La puntatura finale del duetto sembra suggellare l’incolmabile distanza invece che esaltare il loro sentimento.

Alla guida dell’orchestra del teatro, talora manchevole soprattutto nei fiati, Giampaolo Bisanti dà una lettura drammatica e chiaroscurale e per la scena della pazzia di Lucia reintroduce il suono sidereo della glasharmonica, qui dei veri e proprio bicchieri di vetro suonati da un virtuoso, credo Sascha Reckert, ma il suo nome non viene citato nei credits.

Purtroppo i recitativi sono spesso accorciati ed è tagliata, secondo una infausta consuetudine dura a morire, la scena Edgardo-Enrico (seconda e terza de “Il contratto nuziale II”). È ripristinata invece la scena Lucia-Raimondo (terza de “Il contratto nuziale I”) che ridà importanza drammaturgica al personaggio del confidente con il quale si completa il ritratto degli uomini che opprimono la ragazza – lui con la scusa della religione, «Al ben de’ tuoi qual vittima | offri Lucia, te stessa; | e tanto sacrifizio | scritto nel ciel sarà». Il problema del distanziamento per i coristi è risolto anche qui con il coro fuori scena e con figuranti e mimi mascherati sul palcoscenico, soluzione riuscita dal punto di vista teatrale, un po’ meno da quello dell’equilibrio sonoro.

Ritorna nella parte che aveva portato a Monaco tre anni fa il soprano russo Venera Gimadieva, cantante non esaltante dal punto di vista espressivo, da un buon registro acuto facilitato però da un abbassamento di tono in questa versione. Ma non c’è alcun feeling con il suo Edgardo, qui un Francesco Demuro che non fa molto per corrisponderle: stentoreo e testosteronico il tenore italiano neanche cerca di interpretare, ma si accontenta di porgere le note, e non sempre in modo ineccepibile. Altra classe è quella di Christoph Pohl, un Enrico Ashton combattuto tra l’amore per la sorella e quello che significa un suo matrimonio per la salvezza del casato. La scelta però è quella implacabile del sacrifico della ragazza e il finale a sorpresa lo rende ancora più crudele. Alexander Roslavets è efficace nella ipocrisia di Raimondo che la regista fa incongruamente esultare quando lui riesce a ottenere dalla ragazza un primo assenso alle nozze. Ancora più viscido del solito è il personaggio di Normanno affidato qui a Daniel Kluge. Beomjin Kim è lo sventurato Arturo Bucklaw.

Belisario

Jacques-Louis David, Belisario chiede l’elemosina, 1781

Gaetano Donizetti, Belisario

Bergame, Teatro Donizetti, 21 novembre 2020

(live streaming)

Qui la versione italiana

Un titre digne des plus grands chefs-d’œuvre du compositeur

À l’époque de Donizetti, c’étaient les épidémies de choléra qui sévissaient (l’une d’entre elles emporta sa femme de 28 ans en 1837); aujourd’hui, nous subissons le Covid-19… Ce n’est pas le seul point qui nous rend rapproche du compositeur de Bergame et fait de nous ses contemporains (faut-il rappeler que c’est sa ville qui a le plus souffert en Italie des effets de la pandémie ?) : l’ensemble de son œuvre a, toujours, quelque chose à enseigner aux hommes du XXIe siècle.

Même Belisario, un titre oublié de son immense catalogue, que le Théâtre Donizetti de Bergame propose en cette année très particulière…

la suite sur premiereloge-opera.com

Belisario

Jacques-Louis David, Belisario chiede l’elemosina, 1781

Gaetano Donizetti, Belisario

Bergamo, Teatro Donizetti, 21 novembre 2020

(live streaming)

bandiera francese.jpg Ici la version française

Un titolo degno di stare alla pari con i maggiori capolavori di Donizetti

Ai suoi tempi c’erano le epidemie di colera (Donizetti perse la moglie ventottenne in quella del 1837), ora abbiamo il Covid-19. Non è l’unico elemento che ci rende più vicino e contemporaneo il compositore di Bergamo, la città che più di tutte in Italia ha sofferto gli effetti della pandemia: tutto il suo teatro ha sempre qualcosa da dire a noi uomini di oggi. Anche il Belisario, un titolo desueto del suo sterminato catalogo, che il Donizetti Opera propone in quest’anno così particolare.

L’opera doveva inaugurare il festival con la prestigiosa presenza di Plácido Domingo, ma la salute del cantante e l’andamento della pandemia hanno cambiato i programmi e ora l’opera va in scena in forma concertistica due giorni dopo il previsto, senza la presenza del celebre cantante e in video streaming, come le altre produzioni rimaste in cartellone, Marino Faliero e Le nozze in villa.

Con Belisario, scritto subito dopo la Lucia di Lammermoor, Donizetti ritornava dopo 18 anni a Venezia come musicista affermato, qui aveva fatto i suoi giovanili debutti con l’Enrico di Borgogna e Pietro il Grande. Il libretto di Salvadore Cammarano era basato su «una tragedia d’Holbein, che il valente artista drammatico Luigi Marchionni ridusse per le scene italiche», come scrive il librettista. Franz Ignaz Holbein, veneziano di nascita e attivo a Napoli, era attore-autore di drammi di successo all’epoca. «Il Belisario di Holbein, pari a quello della storia, colse ovunque allori copiosi e meritati; reputerò il mio non meno avventuroso, se voi, delle cose teatrali integri e scienti giudici, gli accorderete una sola fronda di quegli allori» si augura il Cammarano. L’opera venne presentata il 4 febbraio 1836 con crescente successo per ventotto repliche prima di arrivare a Bergamo e poi alla Scala, dove di repliche ne ebbe 32 .

La storia del condottiero di Giustiniano che aveva difeso eroicamente l’Impero d’Oriente dagli attacchi dei barbari si legava alla rilettura dell’antico passato, quello della gloriosa opera settecentesca, ma con una storia di per sé semplice e linearmente trattata, che faceva a meno delle vicende amorose: qui le donne non sono appassionate amanti, ma una trepida e fedele figlia Irene e una moglie che lo accusa ingiustamente.

Parte prima. A Bisanzio, il coro annuncia il ritorno di Belisario, trionfatore sui Goti. Intanto la moglie del condottiero, Antonina, narra a Eutropio del figlio Alessi, avuto da Belisario e scomparso appena nato. Lo schiavo Proclo le aveva rivelato essere stato Belisario a ordinargli di uccidere Alessi; ma lui, non avendo cuore di farlo, l’aveva abbandonato su una spiaggia deserta. Antonina non conosce quest’ultimo particolare ed è decisa a vendicarsi ordendo un complotto contro il marito. Giustiniano riceve il suo generale, tra i prigionieri c’è il giovane Alamiro, che Belisario libera. Ma Alamiro vuole restare a fianco di Belisario, cui si sente legato da un vincolo misterioso. Belisario annuncia che lo terrà con sé, come se fosse il figlio perduto. Ma intanto si compie la vendetta di Antonina. Mentre la figlia di Belisario, Irene, abbraccia il padre, giunge Eutropio, che lo accusa pubblicamente di complotto, esibendo come prova documenti falsificati. Belisario chiama a testimone Antonina; lei non solo conferma l’accusa, ma lo costringe a una confessione più infamante: l’uccisione del figlio. Belisario narra di un sogno, che gli aveva fatto apparire Alessi come predestinato alla rovina della patria ed è per questo che l’aveva sacrificato.
Parte seconda. All’ingresso delle prigioni, i veterani raccontano ad Alamiro come Belisario sia stato accecato e condannato all’esilio. Giunge Irene, che ha deciso di accompagnare il padre e i due si commuovono all’incontro.
Parte terza. Belisario e Irene vagano nei dintorni di Bisanzio. All’arrivo dei soldati nemici capeggiati da Ottario si nascondono e, riconosciuta la voce di Alamiro, apprendono che egli si è unito ai barbari per muovere guerra a Bisanzio. Il cieco eroe allora non esita a palesarsi e fermare l’orda guidata da Alamiro. Alla replica di questi, Irene comprende che Alamiro è suo fratello Alessi. Avendo assistito all’agnizione, Ottario scioglie dal vincolo di fedeltà Alessi/Alamiro, mentre Belisario organizza con il figlio ritrovato la difesa di Bisanzio. Antonina, in preda ai rimorsi, svela a Giustiniano le sue colpe. Risuonano grida di vittoria: i greci hanno trionfato sui barbari, ma Alessio racconta che il padre è stato ferito a morte. Condotto al cospetto dell’imperatore, Belisario muore mentre Antonina gli chiede inutilmente perdono.

Opera della piena maturità, Belisario è il lavoro che più anticipa il Verdi che verrà nel conflitto tra amor paterno e amor di patria, sfera privata e sfera politica. Inedito è il rapporto tra padre e figlia, così come il ruolo del baritono, qui protagonista, o quello del soprano il cattivo della vicenda, ma al femminile: Antonina è mossa da un desiderio di vendetta che richiama quello terribile di Elettra. La donna sfrutta la complicità di Eutropio promettendoglisi sposa, ma appena l’uomo menziona il patto («premio all’amor mio | la tua destra…») lo interrompe bruscamente: «Or dimmi: ordita | fu la trama?». L’odio è il motore che muove Antonina, sazia solo quando il marito è bandito in esilio e accecato, salvo poi pentirsi amaramente e implorarne il perdono quando si accorge dell’errore che ha commesso.

Liberato il teatro dal labirinto metallico del Marino Faliero, l’orchestra ha una disposizione più regolare: ora Riccardo Frizza ha davanti a sé tutti gli strumenti e deve voltarsi solo per dare l’attacco ai cantanti schierati in platea. In marsina gli uomini, in elegantissimi abiti da sera le donne, la camminata per arrivare ai leggii è il solo effetto scenico consentito. L’attenzione è tutta puntata sulla musica questa volta e si può apprezzare ancor più la tensione drammatica e la straordinaria ricchezza e densità della partitura in cui gli ottoni donano un tono di solenne tragicità classica. Molti sono i pezzi corali, come l’esaltante ingresso di Giustiniano, in cui si fa apprezzare il coro imbavagliato nelle mascherine e istruito con sapienza da Fabio Tartari. Più che nelle arie solistiche la bellezza del Belisario risiede nei tanti pezzi di insieme:  il tenero duetto tra Belisario e Alamiro («Io tuo figlio! A me tu padre!») nella prima parte, quello straziante tra Belisario e Irene che forma il lungo finale secondo, il drammatico terzetto Irene, Belisario, Alamiro/Alessi nella parte terza dopo l’agnizione («Se il figlio/fratel/padre stringere | mi è dato al seno»).

I solisti qui sono messi a nudo senza costumi e recitazione scenica, ma l’impatto espressivo è comunque forte quando si hanno interpreti come quelli schierati nella platea del Teatro Donizetti. Non c’è momento che Roberto Frontali faccia rimpiangere che si tratta in definitiva di un rimpiazzo: l’autorevolezza vocale e il fraseggio scultoreo definiscono un Belisario di grande e umana nobiltà. Tutta la gamma di sfumature possibili è impiegata dal baritono romano per disegnare la figura eroica di chi dopo i massimi trionfi conosce la disgrazia e la crudeltà, ma riesce a mantenere una grande magnanimità d’animo. Stupefacente per pathos e colori è il suo racconto/confessione «Sognai… fra genti… barbare» che introduce il drammatico finale primo.

Singolare, come s’è detto, il ruolo della moglie Antonina, limitato alla prima parte e al finale della terza. Il timbro e l’emissione, entrambi particolari e personalmente poco apprezzati del temperamentoso soprano Carmela Remigio sono funzionali questa volta al suo ruolo di «donna antipatica» e il personaggio ne esce fuori in maniera del tutto convincente. Più lirico è il ruolo di Irene in cui si cala con commossa partecipazione Annalisa Stroppa col suo bel colore mezzosopranile. La cabaletta «Trema Bisanzio!» con i suoi acuti è la pagina più virtuosistica di Alamiro/Alessi e Celso Albelo, che vocalmente sempre più assomiglia ad Alfredo Kraus (sarà la comune origine canaria…), offre una performance gloriosa per bellezza di suoni, pienezza di accenti ed eleganza. Possente ed autorevole si dimostra il Giustiniano di Simon Lim, vocalmente efficace è il perfido Eutropio di Klodjan Kaçani.

La concertazione di Frizza è lucidamente appassionata, se mi si passa l’ossimoro, e ci convince della giustezza della proposta: anche se l’autore lo metteva «al di sotto di Lucia», non c’è dubbio che il Belisario sia un’opera bellissima in cui non c’è pagina che non sia altamente ispirata e questa esecuzione dimostra come abbia diritto a entrare a pieno titolo nei cartelloni lirici alla pari degli altri capolavori di Donizetti.

Alzira

Giuseppe Verdi, Alzira

★★☆☆☆

Lima, Teatro Nacional, 28 novembre 2018

(video streaming)

La «sventurata Alzira» celebra l’indipendenza del Perù

Alzira è stata scelta dal Ministero della Cultura del Perù per celebrare il bicentenario dell’indipendenza del paese visto il soggetto ambientato all’epoca della prima dominazione spagnola. Molto liberamente tratto da Alzire, ou les Américains (1736) di Voltaire, il libretto di Salvadore Cammarano (1) era pronto fin dal 1844, ma fu considerato inadatto da Verdi, che lo mise inizialmente da parte per concentrarsi sulla Giovanna d’Arco. L’opera debuttò quindi al San Carlo di Napoli il 12 agosto 1845 (2) con tiepido giudizio di pubblico e critica. Il compositore stesso considerava questa sua ottava e breve opera «proprio brutta».

Prologo (Il prigioniero). Zamoro è a capo di una tribù di Peruviani che si oppone all’oppressione spagnola, ed è invaghito della bella Alzira. Durante uno degli scontri Zamoro viene creduto morto, e i Peruviani catturano l’anziano governatore Alvaro per vendicarsi, ma Zamoro torna e libera il vecchio. Poi Otumbo dice a Zamoro che Alzira e il padre di lei Ataliba sono stati fatti prigionieri, e Zamoro decide che tenterà di liberarla.
Atto I (Vita per vita). Intanto Gusmano, figlio dell’ormai troppo vecchio Alvaro, prende il comando delle truppe spagnole e stipula una pace con le tribù, chiedendo la mano di Alzira. La ragazza, ancora fedele all’amato e certa che egli non è morto, rifiuta, resistendo alle pressioni del padre Ataliba, a cui Gusmano ha imposto di cercare di convincerla. Zamoro riesce a introdursi presso gli spagnoli e può riabbracciare Alzira, ma viene sorpreso e fatto arrestare da Gusmano. Alvaro intercede per il guerriero che gli aveva salvato la vita, e Zamoro viene così liberato e può riunirsi alle sue truppe.
Atto II (La vendetta d’un selvaggio). Zamoro cade ancora prigioniero in un successivo scontro e viene condannato a morte. Alzira promette a Gusmano di concedersi se libererà l’amato. Zamoro però riesce a fuggire, travestendosi da soldato spagnolo; venuto a conoscenza dei preparativi per le nozze tra Gusmano e Alzira, ritorna al palazzo e riesce a pugnalare mortalmente l’odiato rivale. In punto di morte Gusmano si pente del male che ha fatto, dice a Zamoro che Alzira aveva accettato le nozze solo per salvarlo, benedice la coppia e infine spira ricevendo dal padre un’ultima benedizione.

«Sino ad alcuni decenni orsono si riservava a quest’opera un giudizio poco lusinghiero, relegandola tra la produzione minore dei cosiddetti ‘anni di galera’. Ma in realtà la sinfonia e il finale del primo atto non sfigurano accanto ad altri lavori coevi; il secondo atto non ha cadute di livello e possiede un finale che va annoverato tra gli esiti più alti conseguiti da Verdi sino ad allora. Il musicista aveva accettato volentieri di collaborare con Cammarano, probabilmente il librettista più abile e ricco d’esperienza del tempo, che era inoltre assai influente nell’ambiente napoletano; e il soggetto gli era congeniale (per di più, Cammarano aveva rappresentato Zamoro come un eroe esule e vittima dell’ingiusta sorte: tra Ernani e Manrico). Tuttavia, a dispetto del suo buon livello, il libretto di Alzira era strutturato in singole scene in sé conchiuse, prive di quell’unità e concisione drammatica così necessaria a Verdi. Questi, abituato a non indugiare più di tanto sui versi di Cammarano, non concesse adeguato spazio alle esigenze imposte dagli estesi pezzi chiusi previsti dal librettista e finì per comporre un’opera di insolita e frettolosa brevità, che lasciò sconcertato il pubblico napoletano, avvezzo alle liriche atmosfere del ‘bel canto’. Ciò contribuì non poco alla sua fredda accoglienza e alla sua scarsa fortuna. Presto lasciata in ombra da altri titoli verdiani, Alzira è stata riproposta al pubblico solo nel 1967 all’Opera di Roma, sotto la direzione di Bruno Bartoletti, con i ruoli dei protagonisti affidati a Gianfranco Cecchele e a Virginia Zeani. Da allora, l’opera ha goduto di ulteriori riprese ed è rientrata abbastanza spesso in repertorio». (Antonio Polignano).

Il difetto maggiore di Alzira è proprio il libretto, non tanto per le sparate intemerate – «L’odio, che atroce il cor ne accende, | de’ lor cadaveri si pascerà!» o «Nell’astro che più fulgido la notte in ciel sfavilla, | ivi è Zamoro e palpita, fatto immortal scintilla» non sono certo versi di immortale bellezza – quanto per l’inverosimiglianza della vicenda che termina con il fulmineo ravvedimento di Gusmano in punto di morte. La tesi con cui Voltaire voleva mostrare la suprema saggezza di uno spirito religioso libero dai fanatismi è del tutto assente nel testo di Cammarano in cui quello che viene rappresentato è il solito triangolo amoroso dove il baritono contrasta l’amore del tenore per il soprano. Qui, ancor meno che in Voltaire, non viene esplicitato il conflitto fra indigeni e conquistatori, entrambi dipinti come sanguinosi e rozzi. Il Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes e il conseguente mito del “bon sauvage” di Rousseau è di vent’anni posteriore all’Alzire.

Dal punto di vista musicale, invece, più passa il tempo e più si apprezza questo primo Verdi, l’irruenza delle sue cabalette, il brio vocale e il timbro orchestrale, con particolari strumentali godibili come il fagotto che scandisce la prima aria di Zamoro del secondo atto e prima con la piacevole sinfonia. La concisione del lavoro fa premio su una scrittura certo non delle più raffinate, ma comunque efficace.

Non fa molto per renderla diversa il maestro Oliver Díaz alla guida dell’Orquesta Sinfónica Nacional con una direzione decisamente pesante. In scena un’Alzira di eccessivo temperamento, una Jaquelina Livieri manierata che grida molto e fa delle agilità una palestra acrobatica. Jorge Tello è un Gusmano rozzo che rende del tutto improbabile la sua conversione, mentre Juan Antonio de Dompablo è il più accettabile come Zamoro.

La regia di Jean Pierre Gamarra non brilla per invenzioni teatrali, il coro è sempre schierato immobile, i cantanti gesticolano a ruota libera. Abbastanza minimali le scene di Lorenzo Albani – una vasca di terra ed erba secca che a un certo punto si solleva – che firma anche i costumi che mescolano Ottocento e Cinquecento facendo distinguere a fatica locali e stranieri.

(1) Per un confronto tra l’originale di Voltaire e il libretto di Cammarano  vedere qui.

(2) Prima ancora, la tragedia di Voltaire aveva ispirato Giuseppe Nicolini (Genova, 1797), Nicola Antonio Manfroce (Roma, 1810) e Nicola Antonio Zingarelli (Napoli. 1815).

 

Roberto Devereux

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foto © Javier del Real

Gaetano Donizetti, Roberto Devereux

★★★★☆

Madrid, Teatro Real, 22 settembre 2015

(registrazione video)

Il “torvo ciglio” della regina-ragno

La stagione del Real inizia col botto: uno spettacolo dirompente e un cast quasi irripetibile. In scena il dramma “scuro” Roberto Devereux, l’ultimo della trilogia Tudor.

Lo spettacolo arriva dalla Welsh National Opera di Cardiff e l’allestimento di Alessandro Talevi immerge immediatamente lo spettatore in un’atmosfera cupa e mortifera: mai si accende la minima scintilla di speranza, soprattutto con la spettrale  illuminazione di Matthew Haskins. Nella scenografia di Madeleine Boyd, che disegna anche i costumi dark-gothic, l’arredamento del palazzo col suo tetto di vetro sporco lascia intuire le inquietanti ombre delle mani dei cortigiani e non meno lugubre è il palazzo di Nottingham con delle strette colonne/alberi che alla fine vedremo diventare i pali su cui infilzare le teste dei giustiziati. Su una terrificante protesi aracnoide salirà nel terzo atto la regina-ragno, da cui scenderà poi senza parrucca e senza voglia di vivere, pronta ad abdicare.

Il tema di God Save the Queen che serpeggia nell’ouverture dà fin da subito un colore particolare a questo lavoro di Donizetti. Campanella ne dipana sapientemente il fugato – sì, c’è anche quello! – prima dell’enunciazione dell’allegro da parte di un’orchestra sfoltita e quindi particolarmente flessibile: la tessitura è leggera come una ragnatela (!) ma perfettamente funzionante, ed è possibile distinguere con chiarezza gli interventi dei vari settori e apprezzarne i finissimi fraseggi. Bellissimi e come rinati a nuova vita gli accompagnamenti del duetto Sara-Roberto del primo atto o della scena e aria di Roberto del terzo.

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Mariella Devia fa anche di questo un suo ruolo fétiche utilizzando la sua somma tecnica belcantistica che le permette di utilizzare il suo registro lirico-leggero in un ruolo di lirico-drammatico ed è tutto un susseguirsi di piani e di forti, di legati e di acuti squillanti. L’anziana regina, combattuta tra amore e dovere, ci trasporta e ci sconvolge, dalla sua aria d’amore “L’amor suo mi fe’ beata” nel primo atto, alla straziante scena finale che diventa il compendio della sua maestria e giustamente il pubblico di Madrid ne rimane soggiogato. Al suo fianco è un Gregory Kunde che denuncia sì qualche stanchezza soprattutto nelle note di passaggio, ma che dà ancora ampiamente lezioni di stile e di fraseggio e mantiene la luminosità degli acuti di un tempo. Intensa Sara, anche se con un insistito vibrato stretto, Silvia Tro Santafé. Il personaggio del duca di Nottingham, originariamente previsto per Mariusz Kwiecień, è sostenuto da Marco Caria con qualche difficoltà. Del tutto riuscito invece il Sir Gualtiero Raleigh di Andrea Mastroni.

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