Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★★★

Madrid, Teatro Real, 7 luglio 2018

(video streaming)

Se fosse un film, la fotografia sarebbe da premio Oscar

Nel teatro a forma di cassa da morto di fronte al Palazzo Reale di Madrid, va in scena l’opera di Donizetti. Annunciata come la Lucia integrale – in quanto i tagli sono stati eliminati, ripristinate riprese, cadenze e le pagine spesso omesse – la sua durata arriva quasi alle tre ore, compresi i lunghi applausi a scena aperta, il bis del concertato del matrimonio richiesto insistentemente da un pubblico in delirio e i dieci minuti di ovazioni finali.

«La promessa sposa di Lammermoor, istorico romanzo dell’Ariosto scozzese, mi parve subbietto più che altro acconcio per le scene: però non deggio tacere, che nel dargli la forma drammatica, sotto di cui oso presentarlo, mi si opposero non pochi ostacoli, per superare i quali fu mestieri allontanarmi più che non pensava dalle tracce di Walter Scott. Spero quindi, che l’aver tolto dal novero de’ miei personaggi taluno di quelli che pur sono fra i principali del romanzo, e la morte del Sere di Ravenswood diversamente da me condotta (per tacere di altre men rilevanti modificazioni) spero che tutto questo non mi venga imputato come a stolta temerità; avendomi soltanto a ciò indotto i limiti troppo angusti delle severe leggi drammatiche». Così avverte il librettista Salvadore Cammarano a prefazione del suo dramma tragico in due parti. David Alden non pecca di “stolta temerità” e per una volta la sua lettura del lavoro donizettiano non si scosta molto dal dettato tradizionale, se non per l’ambientazione più tarda: dalla Scozia del secolo XVI siamo passati a quella vittoriana, epoca in cui il destino delle donne non è poi cambiato di molto.

Le lugubri note iniziali ci introducono nella severa ma malmessa dimora dei Ravenswood nella magnifica scenografia disegnata da Charles Edwards. Il coro iniziale rimane fuori della grande stanza col lettino di ferro su cui si agita Lucia mentre il fratello riguarda i ritratti fotografici della sua “prosapia”. È ancora con uno di questi in mano che Enrico rimane davanti al sipario che si è abbassato alla fine della scena terza. Il preludiare dell’arpa è qui riferito non alle zampillanti gocce della “fontana della Sirena”, «altra volta coperta da un bell’edifizio, ornato di tutti i fregi della gotica architettura, al presente dai rottami di quest’edifizio sol cinta», ma ai pensieri foschi di Enrico. Non ci sono esterni in questa visione claustrofobica: Lucia è una reclusa, siede sul davanzale interno di quello che sembra un boccascena chiuso da un pesante cortinaggio da cui uscirà Edgardo. Alisa striscia lungo il muro, terrorizzata dall’«orribile periglio» e il racconto della ragazza aumenta ancora di più il suo sgomento: l’atmosfera e l’ambientazione potrebbero essere quelle di un racconto di fantasmi di Henry James. Efficacissimo a questo scopo il gioco di luci – e ombre – di Adam Silverman. Il coro gioioso «Per te d’immenso giubilo» non potrebbe essere più lugubre con quei vestiti e quei visi che gareggiano in tetraggine con i vecchi dagherrotipi appesi alle pareti. L’ormai imprenscindibile glasharmonica qui risulta ancora più spettrale e solo quando Lucia mostra l’altra metà del corpo vediamo il sangue di cui è macchiata. Durante il suo delirio la tenda si apre per rivelare il corpo insanguinato di Arturo con la mano chiusa nel rigor mortis alla sottoveste di Lucia. Un film dell’orrore. Il tutto è visto come una recita («Ditemi: vera è l’atroce scena?» chiede Enrico), una sanguinosa messinscena applaudita al rallentatore dagli invitati, qui morbosi spettatori. Negli interminabili applausi che salutano il termine della scena della pazzia, Lucia rimane in una posa da crocefissa vittima dei maschi: un fratello che usa il suo corpo per ripianare i debiti, un confessore che la raggira, un amante impetuoso che l’abbandona, uno sposo detestato.

La messa in scena di Alden, nata nel 2008 per la English National Opera, punta a una forte definizione dei personaggi: l’Enrico e gli scagnozzi ubriachi nella scena della torre (qui tutt’altro che discussione tra gentlemen), l’Edgardo un po’ truzzo in kilt, la fragilità infantile di Lucia, con le sue bambole e i suoi orsacchiotti, il che rende ancora più sconvolgente il suo atto di sangue.

Peccato per gli applausi che spezzano la tensione drammatica di questa tesa e coinvolgente lettura, ma il pubblico madrileno non riesce a contenere il suo entusiasmo per un cast difficilmente uguagliabile. Lucia è Lisette Oropesa dal timbro affascinante e dal gradevole vibrato. Perfettamente in sintonia con la lettura del regista, il soprano lirico americano emoziona con la sua intensa presenza scenica, l’espressività delle frasi e una performance vocale sorprendente fatta di filati e legati impeccabili, acuti luminosi, lunghi fiati e mezze voci purissime. Debuttante nel ruolo, ma sicuro e con puntature prodigiose, è l’Edgardo di Javier Camarena, timbro chiaro e ben proiettato, mezzi vocali ben padroneggiati, declamati scolpiti nella parola, incantevoli mezze voci, slanci lirici appassionati e una dizione perfetta. Per una volta gli interpreti stranieri non sono da meno, riguardo alla corretta pronuncia, nei confronti dell’unico italiano del cast, l’autorevole Roberto Tagliavini, elegante e signorile Raimondo. Artur Ruciński è un Enrico che ha un rapporto autoritario ma anche morboso con la sorella. Il baritono polacco dimostra anche qui il suo grande temperamento e la sicura vocalità. Pur nella sua perfetta tecnica vocale Yijie Shi non fa molto per rendere più consistente la figura di Lord Arturo da vivo.

Assieme al magnifico coro, la direzione di Daniel Oren svela particolari quasi inediti di una partitura restituita con colori e dinamiche sempre cangianti. Il direttore non frena i cantanti che con le loro puntature galvanizzano il pubblico. Difficile restare insensibili dopo il sopracuto lanciato nel finale di una cabaletta: è fisiologico, un riflesso condizionato a cui non si sfugge. Ma l’opera, soprattutto quella dell’Ottocento, è anche questo.

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