Mese: novembre 2018

Lucie de Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucie de Lammermoor

direzione di Evelino Pidò

regia di Patrice Caurier e Moshe Leiser

gennaio 2002, Opéra Nouvel, Lione

È disponibile in rete il video tramesso a suo tempo dalla televisione satellitare francese della produzione di Lione del dramma di Donizetti. Si tratta di una ghiotta occasione per conoscere la versione francese data a Parigi nel 1839 al Théâtre de la Renaissance, due anni dopo la presentazione dell’edizione italiana al Théâtre-Italien in cui si erano esibiti la Fanny Tacchinardi Persiani (del debutto italiano) e Giovanni Battista Rubini. Nel 1846 Lucie de Lammermoor ritornerà, ma questa volta all’Opéra con Maria Dolores Nau e Gilbert-Louis Duprez, colui che aveva creato il ruolo di Edgardo a Napoli il 26 settembre 1835.

Nelle parole dell’Ashbrook ecco le differenze nella bella e concisa versione francese di Alphonse Rouer e Gustave Vaëz: «La partitura venne considerevolmente modificata, principalmente per adeguarla alle limitate risorse finanziarie, nonché artistiche, della compagnia del Renaissance. La prima scena spiega gli antefatti della vicenda in modo piú chiaro rispetto alla versione italiana; i recitativi che inquadrano il Larghetto di Henri sono riscritti e Arthur entra finita la cabaletta di Henri mentre viene ripetuto il coro iniziale, dopo di che tutti partono per la caccia. Non vi è cambiamento di scena prima della comparsa di Lucia, manca l'”a solo” di arpa e la protagonista fa la sua entrata con le arie di Rosmonda d’Inghilterra ora diventate “Que n’avons nous des ailes” e “Toi par qui mon coeur rayonne”. Il personaggio di Alisa è soppresso e la sua parte nel sestetto è assunta da un nuovo personaggio, Gilbert, il quale si presenta come un miscuglio di Normanno e Alisa. Egli esce di scena prima delle arie di Lucia, le quali non hanno tempo di mezzo, dopo che essa gli ha consegnato un borsellino in cambio della promessa di vigilare su di lei. Non vi sono altri cambiamenti importanti nel primo atto. Il recitativo che precede il duetto Lucie-Henri è nuovo e rivela la falsità di Gilbert. La scena fra Lucia e Raimondo è soppressa. Subito prima del sestetto, alcune delle esclamazioni generali sono adattate a voci singole e la stretta conclusiva è molto scorciata. Il terzo atto è alquanto rielaborato al fine di ridurre il numero delle scene richieste. Comincia con il coro nuziale, seguito dall’arrivo di Edgard in casa di Ashton al quale lancia la sfida. Il duetto tenore-baritono è seguito da una ripetizione del coro nuziale, ma quando sopraggiunge Raimond con la terribile notizia, questa è annunziata non piú in un’aria ma in un recitativo di otto battute. Il raccordo fra la reazione del coro alle notizie di Raimond e il recitativo prima della scena della follia (qui nella tonalità originale di Fa) è modificato: due frasi di Raimond, senza commento, del coro. Il recitativo iniziale della scena della follia è lievemente abbreviato, ma le arie sono le stesse, il cambiamento principale consiste nell’eliminazione durante il tempo di mezzo (qui in Mi) dei commenti degli altri personaggi mentre canta Lucia e in un cospicuo taglio prima della cabaletta. Dopo quest’ultima viene eliminato il recitativo di Raimond e Normanno. Durante la scena del sepolcro, tutto resta uguale fino al momento in cui Edgard si pugnala; qui figurano tre nuove battute mentre sopraggiunge Henri per battersi in duello. La seconda esposizione della cabaletta corrisponde a quella della partitura italiana. L’ultima diversità riguarda una parte per Henri aggiunta nel corpo del Più allegro conclusivo. Se si eccettuano i brani di recitativo, Donizetti non compose pressoché nulla di nuovo per Lucie de Lammermoor, falcidiando invece l’originale italiano in modo da rendere l’opera eseguibile da parte di una piccola compagnia. Salvo per quanto riguarda la più chiara esposizione della vicenda, Lucie non può essere considerata come una soddisfacente alternativa alla versione originale in italiano». (1)

Io non sono del tutto d’accordo con lo studioso americano e non lo è neppure Elvio Giudici per il quale nel lavoro dei due librettisti c’è una «migliore modellatura della vicenda, che acquista parecchio sia in comprensione sia in logica di sviluppo pur sfumando parecchie fisionomie la cui sgradevolezza sarebbe invece importante snodo drammaturgico. L’abbastanza repellente figura di Raimondo, classico leccapiedi del potente pronto a ogni riscatto morale pur di favorirne i disegni, perde rilievo circoscrivendo la sua presenza». Diverso il discorso per la parte titolare: l’eliminazione dell’aria “Regnava nel silenzio” sostituita dalla traduzione di “Perché non ho nel vento” della Rosmonda, porta alla perdita del “fantasma” (di cui si è fatto eccessivo uso nelle regie più recenti) e a una minore definizione del personaggio di Lucie – se in scena non ci fosse però Natalie Dessay… Geniale è invece aver eliminato il personaggio di Alisa: Lucie rimane l’unico personaggio femminile in questo universo dominato dal testosterone maschile. Nell’allestimento di Patrice Caurier e Moshe Leiser anche il coro della festa è rappresentato tutto al maschile, le scenografie sono essenziali e tutto è lasciato in ombra affinché risalti la psicologia dei personaggi evidenziati da intensi primi piani dalla regia video. Costumi d’epoca di grande eleganza e luci radenti formano uno spettacolo intrigante.

Non è solo per ragioni di marketing che Sebastian Na è sostituito da Roberto Alagna nell’edizione discografica. Al tenore coreano, di cui si è persa traccia, non è che manchi lo squillo richiesto dalla parte di Edgard Ravenswood, ma a parte la dizione, il tono è generalmente lamentoso. La scintilla fra i due cantanti non scatta mai, nonostante la trascinante direzione di Pidò. Natalie Dessay è una sublime Lucie che fa star male dall’emozione che suscita, purtroppo furono solo due le recite in cui fu presente prima di essere sostituita da Patrizia Ciofi. Un po’ ingessato come il suo solito Ludovic Tézier, l’inesorabile fratello Henri Ashton, ma così risalta meglio il personaggio. Marc Laho è un giustamente fatuo Arthur, Nicolas Cavallier è Raymond (ruolo molto ridimensionato come s’è detto rispetto all’originale Raimondo) e Yves Saelens un incisivo Gilbert, il perfido personaggio nuovo.

Per riassumere, tre sono le edizioni disponibili di questo spettacolo di Lione: il CD Erato con Natalie Dessay e Roberto Alagna; il DVD Bel Air con Patrizia Ciofi e Alagna; la trasmissione video di Mezzo con Dessay e Sebastian Na.

(1) Ecco la struttura dell’opera nella versione di Parigi:
Atto I
1. Introduction et Choeur
2. Scène et air avec Choeur (Gilbert, Henri, Choeur)
3. Scène et Choeur (Arthur, Henri, choeur, Gilbert)
4. Scène et cavatine (Gilbert, Lucie)
5. Scène et Duo (Edgard, Lucie)
Atto II
6. Scène et Duo (Henri, Gilbert, Lucie)
7. Finale (Choeur, Arthur, Henri)
8. Scène et Sextuor (Edgard, Henri, Lucie, Arthur, Raimond, Choeur)
9. Suite et Strette du Finale (Henri, Arthur, Edgard, Raimond, Lucie)
Atto III
10. Entracte
11. Récitatif et Duo (Henri, Gilbert, Edgard)
12. Choeur sur le théâtre
13. Scène et Choeur (Raimond, Choeur)
14. Scène et Air (Lucie, Choeur)
15. Scène et Air (Edgard, Raimond, Choeur)

Il Galempio

Piero Rattalino, Il Galempio

203 pagine, Zecchini Editore, 2018

Come L’amore è un dardo di Baricco, anche Il Galempio è la fantasiosa lettura di un verso di un libretto d’opera, in questo caso il «colga l’empio» del concertato finale atto primo del Macbeth di Verdi.

Ne è autore il pianista, musicologo e direttore musicale Piero Rattalino, che si cimenta nel raccontare «fauna e flora del teatro lirico». Un genere, quello dell’aneddotica teatrale, che dai tempi de Il teatro alla moda di Benedetto Marcello ama mettere in risalto in modo satirico o semplicemente divertito il mondo dell’opera lirica. Ma questa volta non sono i/le cantanti con le loro bizze e bizzarrie a farne le spese, bensì direttori, sovrintendenti e presidenti, cui sono dedicati in parti uguali dodici capitoli del testo. In un altro capitolo si ritorna alle stramberie dei libretti d’opera e un altro ancora al “dodipetto”. Il libro è anche una riflessione su come la musica colta, lirica e concertistica, in Italia è stata gestita negli ultimi cinquant’anni, quando si è cercato inutilmente di dare alle attività musicali una disciplina gestionale, una saldezza economica, una finalità sociale ancora ben lontane.

Scritto con modo garbato il testo fa sorridere con intelligenza e illumina anche su alcuni aspetti autobiografici dell’autore.

Enrico di Borgogna

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fotografie © Skill&Music

Gaetano Donizetti, Enrico di Borgogna

★★★★☆

Bergamo, Teatro Sociale, 25 novembre 2018

Donizetti #1

Dopo la “scena lirica” Il Pigmalione, l’Enrico di Borgogna è dunque la prima vera opera del copioso catalogo donizettiano, una settantina di opere complete più una ventina in una seconda revisione. Al ritmo di due produzioni l’anno il Festival Donizetti di Bergamo ha ancora la possibilità di offrire per molti decenni qualche interessante scoperta dei lavori del suo illustre concittadino. Quest’anno è la volta dell’Enrico di Borgogna che va in scena al Sociale esattamente duecento anni dopo il suo debutto al Teatro Vendramin San Luca di Venezia nel  novembre 1818.

Tratto da Der Graf von Burgund di August von Kotzebue, singolare drammaturgo e impresario teatrale di fine Settecento, il testo di Bartolomeo Merelli mantiene ben poco dell’originale e bene ha fatto la Fondazione Donizetti a stampare sul suo 53° quaderno, nella traduzione di Lorenzo Schabel, anche il testo del dramma del Kotzebue per un utile confronto col libretto.

Atto I. Nei boschi della Borgogna, mentre i pastori inneggiano all’alba, il solitario Pietro piange sulla tomba della moglie Agnese, invano rallegrato dai suoi vicini di casa. I pastori sanno che egli nasconde un segreto, che però si rifiuta di svelare: il vecchio Pietro infatti teme sempre per la sicurezza del figlio Enrico, che, nel frattempo si aggira per i boschi alla ricerca dell’amata Elisa, di cui non ha più notizie da tempo. La calma boschereccia viene interrotta bruscamente da una vecchia conoscenza di Pietro, Brunone, proveniente dalla corte di Arles con importanti notizie: Ulrico, l’usurpatore del trono di Borgogna, è morto, e regna il figlio Guido; il momento è quindi propizio per rovesciare la tirannide e far tornare il legittimo erede, nientemeno che Enrico, figlio del defunto re Alberto. Brunone e Pietro svelano la verità a Enrico, che riceve la spada del padre: i tre giurano vendetta contro i nemici e muovono alla volta di Arles. Qui nel frattempo, mentre Guido interroga il buffone Gilberto sui pareri del popolo sul suo governo, Elisa si strugge nella malinconia: promessa sposa dal padre morente a Guido, ha dovuto abbandonare e fuggire l’amato Enrico. Nonostante il giuramento fatto al padre, Elisa non può nascondere il disprezzo che nutre verso Guido e non esita a rinfacciarglielo ad ogni occasione, incurante delle minacce dello spasimante. Guido affretta la cerimonia. Elisa viene quasi condotta a forza all’altare, ma il suo svenimento improvviso blocca la marcia nuziale: nella folla riunita fuori dalla chiesa riconosce Enrico, giunto con Pietro. Guido si accorge del turbamento della promessa sposa, e ordina ai due stranieri di lasciare la città al più presto.
Atto II. Mentre Brunone e Pietro convincono i nobili borgognoni a vendetta contro Guido, Enrico si strugge di gelosia e tramite il buffone Gilberto riesce ad entrare nella reggia. Elisa continua a rinfacciare a Guido il suo rifiuto a sposarlo, anche di fronte alle minacce di morte. Enrico riesce a incontrare Elisa sola nelle sue stanze e l’accusa di infedeltà. La donna riesce comunque a spiegare all’amato della promessa fatta al padre e i due si riconciliano. Proprio in quel momento arriva Guido, che fa arrestare Enrico e minaccia di punire anche Gilberto, per cui Brunone chiede invano pietà. Nemmeno la rivelazione di Pietro circa la vera identità di Enrico ferma il tiranno: Guido fa arrestare gli intrusi e separa a forza i due amanti. La prigionia di Enrico dura comunque poco: i nobili si ribellano, liberano i prigionieri. Guido, tradito e abbandonato, si prepara ad affrontare la sorte. Enrico, acclamato e portato in trionfo, può finalmente sedere sul trono paterno.

Così scrive l’Ashbrook: «L’opera può essere chiamata semiseria soltanto perché contiene un ruolo buffo (Gilberto), ma in realtà è un’opera eroica, prevedendo un ruolo di musico per il protagonista [il mezzosoprano Fanny Eckerlin] ed essendo il ruolo buffo del tutto marginale. Ciò che più colpisce in Enrico è la sostanziale identità del tema della cabaletta del primo atto con la famosa melodia di Anna Bolena “Al dolce guidami”. L’opera è svantaggiata da un libretto che oscilla fra l’enfatico e il ridicolo. Più ampie rispetto al Pigmalione, le forme musicali sono tuttavia convenzionali nel disegno. Le melodie vocali sono generalmente fluide, ma mancano di spicco, con frequenti passaggi di coloratura (per tutti i registri) di carattere più virtuosistico che introspettivo. L’influsso di formule rossiniane si nota in molti punti, come per esempio nel rondò di Enrico “Mentre mi brilli intorno” con i suoi simmetrici gruppetti di semicrome contigue». Non c’è solo Rossini però dietro l’Enrico, anche al maestro Mayr il giovane Donizetti deve qualcosa. Continua l’Ashbrook: «Questa partitura contiene i primi esempi di ensemble donizettiani, il migliore dei quali è il vigoroso terzetto alla fine della prima scena». Lo studioso americano così conclude il suo giudizio: «Enrico è un misto di talento e di inesperienza, senza però essere un dramma interessante».

Come “dramma” in effetti interessante non è e geniale è stata l’idea della regista Silvia Paoli di mettere da parte l’improbabile vicenda e concepire invece lo spettacolo come una rappresentazione, giocata tra ironia e nostalgia, della prima veneziana in cui la prima donna, la debuttante Adelina Catalani, ebbe un mancamento per davvero nel punto in cui con «scenica scienza» doveva svenire alla vista del suo Enrico alla fine del primo atto. Così molti dei pezzi del secondo atto furono tagliati e dopo le poche repliche l’opera non fu mai più ripresa fino al 2012.

Sul palcoscenico del Sociale di Bergamo ecco quindi costruito un teatrino di legno il cui frontone riporta a chiare lettere il nome del San Luca. Montato su una pedana rotante permette, a noi spettatori, di vedere la scena da dietro, dai lati e dal davanti. Come nelle Convenienze e inconvenienze teatrali assistiamo al backstage e alla rappresentazione stessa, con l’affanno dell’impresario, le bizze dei cantanti, i loro dispetti e i goffi cambiamenti di scenari, qui ironicamente ricostruiti nel gusto dell’epoca, con alcuni particolari buffi quali le tacche dei giorni che passano segnate da Elisa sulla tappezzeria della parete della sua camera. Durante l’ouverture assistiamo alla distribuzione delle parti: quella di Enrico rimane vacante ed ecco che ne viene incaricata, nolente, una cantante donna. Ecco spiegato il ruolo en travesti del personaggio titolare!

Molti sono i momenti di puro divertimento dovuti al contrasto tra la musica saltellante e i versi trucibaldi del librettista, come nella scena della congiura: «Cupo orror qui sol risiede… | deh! tu copri co’ tuoi vanni | notte amica il gran dissegno… | il sospetto de’ tiranni | nel tuo sen non volga il piè». Non manca il tipo in costume da orso che, vanitoso, si intromette ad aumentare lo scompiglio in scena nei momenti più convulsi. Si pensa a Mozart nella prima aria di Enrico che «scendendo dalla montagna con una rete di pescatore» sospira l’amata lontana: «Care aurette che spiegate | lievemente i vanni d’oro, | deh! Volate al mio tesoro, | poi mi dite ove s’aggira… | se sospira ancor per me». Per poi trovarci invece nel Tancredi rossiniano con «Ma tornerà!… Lo rivedrò!… | M’abbraccierà!… L’abbraccierò!…». Gilberto è una specie di Leporello, completo di tirata misogina: «È la donna un gran volume, | che stracciato ha il frontispizio; | è ben stolto chi presume | dar dell’opera giudizio | se pria all’indice non va».

La partitura di questa prima gemma donizettiana è messa in luce da Alessandro De Marchi e dalla sua Academia Montis Regalis schierata nella buca rialzata quasi a livello della platea, mentre giù sotto il palcoscenico rimangono timpani e ottoni per il rumoroso finale. Messe in conto le eventuali imperfezioni di intonazione dovute agli strumenti antichi, De Marchi dipana le accattivanti melodie con mano leggera ma ritmo adeguato e concerta magistralmente i divertiti interpreti.

Pienamente a suo agio Sonia Ganassi, Elisa sospirosa in scena quanto aggressiva tra le quinte; Francesco Castoro è Pietro, il vecchio padre, qui però un tenore dal timbro un po’ leggero; Luca Tittoto presta la sua nobile voce di basso e la sicura presenza scenica al personaggio di Gilberto; basso-baritono è Lorenzo Barbieri, signorile Brunone; un po’ isterico il Guido di Levy Sekgapane, ma vocalmente agile. Infine nel personaggio in breeches di Enrico, Anna Bonitatibus è vocalmente efficace come sempre. Con l’apporto scenico di Andrea Belli, gli ironici costumi settecenteschi di Valeria Donatella Bettella, le luci di Fiammetta Baldisseri e il vivace coro Donizetti Opera, istruito da Fabio Tartari, in veste carbonara in lotta contro l’oppressore del momento (gli Asburgo), la serata si è conclusa festosamente con grandi applausi dal pubblico divertito.

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Il castello di Kenilworth

fotografie © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Il castello di Kenilworth

★★★★☆

Bergamo, Teatro Sociale, 24 novembre 2018

Donizetti & Liz. Part I.

Donizetti affronta per la prima volta il personaggio di Elisabetta I nel 1829Al San Carlo di Napoli va infatti in scena il 6 luglio Elisabetta al castello di Kenilworth, così recita il titolo originale, melodramma «composto dal Sig. Andrea Leone Tottola, poeta drammatico de’ Reali Teatri di Napoli». Un altro castello, quello di Windsor, sarà teatro delle vicende di Enrico VIII e Anna Bolena; quello di Fotheringhay vedrà la regina d’Inghilterra confrontarsi con la rivale Maria Stuarda; quello di Westminster il suo ultimo amore per un altro conte, Roberto Devereux.

La storia, tratta dal Kenilworth di Walter Scott, era già stata oggetto di una commedia di Gaetano Barbieri rappresentata nel 1823, anno in cui a Parigi aveva debuttato invece l’opéra-comique di Auber Leicester ou Le château de Kenilworth su libretto di Scribe e Mélesville. A Napoli la vicenda si dimostrava adeguata all’occasione celebrativa del genetliaco di Maria-Isabella di Borbone, aggiustata com’era con quel lieto fine in cui la regina Elisabetta magnanimamente perdona il tradimento del conte di Leicester e il suo gesto di clemenza ne sottolinea la grandezza di sovrana: «Brittannia avventurata, | se il cielo a te destina | il don di una eroina, | che ogni alma sa bear!» canta il coro a chiusura dell’opera.

Atto I. Elisabetta I è in visita al Castello di Kenilworth, dimora del conte di Leicester, segretamente sposato con Amelia, diviso tra l’amore per la moglie e le attenzioni che la regina gli riserva. Essere il favorito della regina gli aprirebbe la via per salire al trono, idea che stimola in lui una grande ambizione. Amelia deve quindi essere nascosta alla vista di Elisabetta, compito di cui si dovrebbe occupare Lambourne, servitore dello scudiero Warney, che in segreto la desidera e cerca di conquistarla con l’inganno. Giunta la regina, Leicester chiede a Warney se ha portato a termine il suo compito, quindi accompagna la regina e tutta la corte all’interno del castello.
Atto II. Leicester non tarda a provare rimorsi né Amelia a provare gelosia per Elisabetta, e le rassicurazioni e le dichiarazioni d’amore di lui non placano l’agitazione di lei. Warney, rifiutato dalla donna, congiura per ucciderla e consegna a Lambourne un pugnale per compiere il delitto. Amelia intanto, fuggita dalla prigione e finita nei giardini del castello, incontra la regina, le palesa il suo matrimonio con Leicester e la manda su tutte le furie. Leicester e Warney rientrano da una battuta di caccia, ma a quel punto l’unica preda è Amelia, catturata dalle guardie della regina.
Atto III. Warney avanza nuovamente pretese sulla donna, mentre la regina finge di credere che Amelia sia moglie di Warney e che la fedeltà di Leicester sia intatta, spiando le reazioni del conte. Leicester ribadisce di non voler rinunciare ad Amelia, per la quale sarebbe disposto ad accettare anche la morte pur di non abbandonarla. Elisabetta sfoga nel furore la sua sete di vendetta. Visto il suo stato di depressione, Warney e Lambourne giungono con una coppa in mano. È veleno, e Fanny grida ad Amelia di non bere. Sopraggiungono Leicester ed Elisabetta, che ha riacquisito il controllo che si conviene alla sua dignità reale. Amelia viene liberata dalla prigione, Leicester viene perdonato, Warney viene allontanato ed Elisabetta viene acclamata per la sua clemenza..

Il giovane Donizetti si muove nell’ambito del modello allora in voga, quello rossiniano. Il castello di Kenilworth è un susseguirsi esaltante di cabalette trascinanti sulle note puntate degli archi e dei legni, ma ancora più evidente il marchio del pesarese è nei concertati, come quello che conclude il secondo atto con ognuno dei quattro personaggi principali che reagisce a suo modo con largo uso di punti esclamativi: Leicester, che vede  fallire il piano di nascondere la moglie alla vista della regina («Dessa! Amelia! E alla regina | chi l’addusse? Oimè ! Qual gelo»); Elisabetta, che ha scoperto una rivale nella moglie del suo amante («Freme! Ondeggia irresoluto! | La sua fronte è sbalordita!»); Amelia, che scopre invece il tradimento del marito («Ah! Che seppi! Qual cimento! | Mi tradì quel cor crudele»); Warney, agitato tra l’amore per Amelia e la voglia di vendetta («Come! Amelia a me rapita! | Oh funesto avvenimento!»). È la miglior pagina della partitura secondo l’Ashbrook, che definisce l’opera «lavoro tutt’altro che trascurabile […] benché si debba ammettere che è svantaggiato da un intreccio melodrammatico senza chiare motivazioni e che gli abbellimenti vocali delle melodie di Elisabetta […] sono, specialmente nell’aria finale, più estroversi e formali che pervasi di reale emozione».

Nel Kenilworth Donizetti utilizza, sei anni prima della Lucia di Lammermoor (un’altra vicenda ambientata in castelli immersi nelle brume dell’Inghilterra), la glasharmonika: Amelia desolata pensa al passato («Par, che mi dica ancora… | “Io ti amerò costante!” | quanto quest’alma amante | era felice allor!») nella grande scena e aria che precede il finale terzo, e i suoni sognanti dell’arpa e dei bicchieri di cristallo (sfiorati dalle dita di Sascha Reckert) accompagnano il dolente monologo della sventurata donna. La partitura offre molti altri momenti felici esaltati dalla bacchetta di Riccardo Frizza che restituisce magistralmente i colori e gli accenti di questo Donizetti ormai maturo.

Elisabetta è una regale Jessica Pratt, perfettamente a suo agio nel ruolo, con un registro centrale ricco e sonoro e acuti abbaglianti. Sulla vocalità dell’immancabile Carmela Remiglio, intensa Amelia, continuo ad avere le mie riserve e non ne ripeto qui le ragioni. Xabier Anduaga affronta la parte di Leicester con piglio sostenuto, il timbro è luminosissimo, gli acuti precisi e la dizione esemplare. Parimenti eccellente Stefan Pop, il cattivo, suo malgrado, della situazione. Qui Warney è ancora un tenore: nella revisione del 1836 diventerà un baritono. Efficaci si sono dimostrati gli interpreti secondari e il coro.

L’allestimento scenico è stato affidato a María Pilar Pérez Aspa, attrice spagnola alla sua prima esperienza di regia lirica, senza particolari intendimenti e con qualche ingenuità, soprattutto per il personaggio di Elisabetta di cui viene sottolineata l’innocenza giovanile (all’inizio viene presentata bendata ed eccitata come una ragazzina per gli abiti nuovi che scendono dall’alto), la regista si riscatta però con un efficace coup de théâtre nel finale: il reticolo della pedana inclinata, unico elemento previsto nell’impianto scenografico di Angelo Sala oltre alla gabbia semovente in cui viene rinchiusa Amelia, si solleva e diventa una grata che separa Elisabetta dagli altri. La regina abdica agli affetti e si rinchiude in una prigione dorata cui è destinata dal suo ruolo di sovrana. Disegnati con eleganza i costumi d’epoca di Ursula Patzak, soprattutto quello di Warney, un nero abito vescovile con croce dorata appesa al collo che cela un pugnale.

Entusiasmo alle stelle del pubblico del Sociale nei confronti del maestro Frizza, degli interpreti e dei creatori della messa in scena.


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Macbeth

Giuseppe Verdi, Macbeth

★★★★☆

Venezia, Teatro La Fenice, 23 novembre 2018

Papà Macbeth e l’elaborazione del lutto

I due più interessanti registi italiani aprono con Giuseppe Verdi le stagioni liriche dei due più importanti teatri italiani: il 7 dicembre sarà Davide Livermore a inaugurare la stagione della Scala con Attila, oggi è la volta di Damiano Michieletto con Macbeth al Teatro La Fenice.

Il regista gioca in casa a Venezia, ma ciò non gli ha evitato una breve ma rumorosa contestazione alla fine della serata, prima che gli applausi coprissero i bu. Alle vestali della tradizione (?) non sono piaciute la lettura di Michieletto e la scena astratta del sempre originale Paolo Fantin, anche se tutti i particolari della vicenda sono stati rispettati e messi in scena con grande fedeltà.

L’idea di fondo che spiega la psicologia di Macbeth, secondo il regista, è la mancata elaborazione del lutto della figlia morta, caduta in un pozzo per recuperare la palla, come vedremo nella scena quinta del quarto atto. Nonostante sia Shakespeare sia il librettista Piave siano piuttosto ambigui e vaghi sulla paternità di Macbeth e della Lady, Michieletto ha ben chiara la sua idea. D’altronde la vicenda è piena di bambini e Michieletto non fa che sottolinearne la presenza: i bambini che accolgono allegri il vecchio e bonario Duncano, il figlio di Banco che sfugge ai sicari del padre, i figli di Macduff trucidati assieme alla madre e i bambini delle apparizioni divinatorie, che qui hanno le fattezze di bambine come quella di Macbeth, mentre ancora il figlio di Banco perseguita sul suo triciclo innocente l’usurpatore sanguinario. Michieletto sa che per Verdi i rapporto famigliari più problematici, e quindi preferiti, sono quelli padre-figlia e non fa che prenderne atto.

Estranea a tutto ciò è la Lady, fredda manipolatrice che dissuade il marito dal suo paterno delirio e lo spinge a concentrarsi sulla scalata al potere. Molto di quello che è raccontato avviene nella mente di Macbeth e non è rappresentato in scena, come la sfilata dei re futuri, mentre le streghe hanno una loro presenza come mediatrici della morte e sono invocate da Macbeth soprattutto per riconnettersi alla figlia persa.

Oltre ai neon che illuminano impietosamente la scena, c’è un materiale dominante nella scenografia di Paolo Fantin: il nylon dei velari e dei sacchi in cui vengono avviluppati i cadaveri. Immagini suggestive caratterizzano lo spettacolo fin dall’inizio: le streghe appaiono come uscenti dalle nebbie dietro il velario traslucido che poi strappano anticipando l’intenzione di Macbeth («il velame del futuro alle streghe squarcerò»). Altri velari di nylon imporranno la loro lattiginosa presenza accentuando i colori dominanti della scarna scenografia e dei moderni costumi di Carla Teti declinati nei bianchi e nei neri. Anche il sangue è un liquido bianco che rende i personaggi spettrali e i soli punti di colore sono il rosso dei vestitini delle bambine e le altalene che calano dall’alto durante il delirio della Lady per poi diventare la foresta di Birnam.

Efficace è la scena dell’agguato a Banco e al figlio, con i sicari che si liberano dei guanti neri utilizzati per l’assassinio e diventano seduta stante i mondani invitati della festa. Meno riuscita, o meglio neppure affrontata, la parata accompagnata dalla banda dell’entrata di Duncano – finora l’unica che sia riuscita a rendere significativo il momento è stata Emma Dante con la sua dinoccolata processione di pupi siciliani. Abbastanza espliciti sono i rimandi cinematografici presenti nell’allestimento: il rosso nel monocromo bianco e nero della scena di Schindler List, l’ingresso del patriarca/Duncano di Festa di famiglia, ma soprattutto dei film horror Shining (il triciclo e le gemelline) e The Ring (le bambine con la faccia coperta dai capelli).

La regia di Michieletto è come sempre coinvolgente, forse qui più cerebrale del solito, ma non inficia il godimento della musica qui portata al massimo splendore dalla bacchetta di Myung-Whun Chung, uno dei tre coreani di questa produzione. La magnifica acustica del teatro veneziano esalta i colori della sua lettura: senza eccedere nei tempi, Chung mette in evidenza i caratteri di questo giovane ma già maturo Verdi con suoni pieni e talora drammaticamente fragorosi.  Chung ha scelto l’edizione del 1865 omettendone i ballabili ma recuperando dalla versione del 1847 l’aria finale di Macbeth «Mal per me che m’affidai». È la prima volta  che affronta la partitura, ma già dimostra di averne compreso pienamente il significato ed è a lui che sono andati gli applausi più calorosi del pubblico.

Luca Salsi ritorna al ruolo di Macbeth. Approfondisce ancora di più la conoscenza del personaggio nella via interpretativa da lui scelta con una voce che si piega alle minime inflessioni e scolpisce le parole con pienezza, tuttavia gli manca sempre una certa componente di eleganza e nobiltà di accento che si vorrebbe trovare anche in questo eroe efferato. Vittoria Yeo è stata allieva di Rajna Kabaivanska, e si sente. Sono note le parole di Verdi a proposito della vocalità della sua Lady: «Io vorrei una voce aspra, scura, soffocata […] la voce della Lady dovrebbe aver del diabolico» e il soprano coreano riflette in parte queste esigenze: ha la presenza scenica e il temperamento richiesto dalla parte, ma rifugge dal belcanto per approdare a esiti quasi veristi con acuti spinti, un registro aspro, un timbro tagliente e quasi nulle agilità – infatti omette la ripresa della cabaletta.

Modesti gli altri interpreti. Stefano Secco è efficace nella sua unica aria ma tutt’altro che memorabile, un po’ grezzo il Banco di Simon Lim (il terzo coreano) e vocalmente ancora peggio Marcello Nardis, aitante Malcom. Buona invece la resa del coro e degli strumentisti dell’orchestra che hanno dato ottima prova nei molti passaggi quasi solistici inclusi nella gloriosa partitura.

 

 

 

L’elisir d’amore

Bozzetto della scenografia di Saverio Santoliquido

Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 21 novembre 2018

L’infallibile ricetta dell’elisire

Mentre Milano si mobilita per una prima rappresentazione mondiale – un’opera commissionata dal Teatro alla Scala a un insigne compositore vivente – a Torino il cartellone del Teatro Regio propone i soliti titoli, per di più in allestimenti datati.

È il caso de L’elisir d’amore, ora in scena nella produzione che aveva concluso la stagione di questo stesso teatro cinque anni fa. Il regista Fabio Sparvoli allora aveva scritto: «Amo quest’opera perché riesco a coglierne, aldilà [sic] dell’aspetto esteriore, l’assoluta attualità. Viviamo in un mondo in cui le persone non hanno più voglia di parlarsi e faticano a comprendersi. Ed è proprio il problema dell’incomunicabilità che mi sembra centrale nella storia dei protagonisti de L’elisir d’amore». Cinque anni dopo la situazione non sembra cambiata, ma tranquilli, Adina e Nemorino non comunicano via WhatsApp nel suo allestimento che si ferma agli anni ’50 del secolo scorso.

Le scene di Saverio Santoliquido, pensate e realizzate un po’ in economia, e i costumi di Alessandra Torella ripropongono l’Italia del cinema post-neorealista a colori: Dulcamara arriva in Topolino, Belcore veste la divisa da carabiniere come il Vittorio De Sica di Pane, amore e fantasia e Adina sembra la Lorella De Luca di Poveri ma belli in versione contadina.

Fortunatamente L’elisir d’amore regge benissimo lo stesso: vicenda, libretto e musica formano un miracolo di perfezione che fa di questo lavoro uno dei massimi risultati del teatro in musica. Difficilmente un allestimento di quest’opera delude o risulta sconclusionato: basta non tradire l’ingenuità maliziosa della storia e si è sulla buona strada. Magari si possono evitare i bamboleggiamenti o le gag di cui è inutilmente farcito l’allestimento di Sparvoli, ma sono peccati veniali che non inficiano il godimento della serata.

Gran merito del risultato va alla concertazione e alla direzione orchestrale di Michele Gamba, il giovane assistente di Barenboim e Pappano che si è trovato a sostituire ne I due Foscari alla Scala, con preavviso di meno di un’ora, il titolare infortunato. «Dal primo ho imparato la speciale attenzione verso i cantanti, dal secondo un’analisi musicale tesa come un arco continuo» racconta. C’è da credergli: la sua lettura ha una linea omogenea pur nella diversità dei tempi, sempre sostenuti ma mai incalzanti, nel magnifico colore degli strumenti – i legni soprattutto, e non solo il fagotto della “furtiva lagrima” –  e nell’attenzione alle esigenze dei cantanti, come quando deve rallentare perché il Belcore di Julian Kim non arranchi troppo.

In scena ci sono due voci non imponenti ma gradevoli. Lavinia Bini è una Adina fresca, un po’ esile il registro basso, più pieno e lirico quello centrale, precisi anche se non sfavillanti gli acuti. Neanche Giorgio Berrugi si impone per lo squillo e se gli manca sempre quel qualcosina in più per superare il suono dell’orchestra, delinea comunque un Nemorino sensibile ed espressivo. Il migliore di tutti è però Simón Orfila, del secondo cast, un Dulcamara dal profilo vocale possente e nello stesso tempo elegante. Ashley Milanese è la vivace Giannetta, che dopo averci provato con Belcore e poi Nemorino alla fine scappa con il simpatico ciarlatano.

Sala tutt’altra che piena: se non bastano Donizetti e i biglietti a 10€ a riempire il Teatro Regio, vuol dire che siamo proprio messi male.

OPERA HOUSE

Opera House 

Detroit (1922)

2700 posti

Nel corso degli anni, l’opera è stata presentata in una varietà di luoghi a Detroit: il vecchio Teatro dell’Opera di Detroit (1869-1963) al Campo Marzio, al Whitney Grand Opera House (Garrick Theatre) a Griswold Street e a Michigan Avenue e al Nuovo New Teatro dell’Opera di Detroit (1886-1928) a Randolph e a Monroe Street. L’attuale Teatro dell’Opera di Detroit ha aperto nel 1922 ed era conosciuto come Teatro Capitol. È stato tra i primi di diversi luoghi di rappresentazione costruiti attorno al Grand Circus Park di Detroit. Quando aprì, il Capitol era ritenuto il quinto più grande cinema del mondo, con una capienza di circa 3.500 persone. Nel 1929 il Teatro Capitol diventò la Paramount Theater e nel 1934, il Teatro Capitol di Broadway.

Durante i primi decenni della sua storia il teatro presentava film insieme a spettacoli dal vivo, tra cui artisti come le leggende del jazz Louis Armstrong e Duke Ellington. Più tardi la Broadway Capitol lo trasformò in cinema soltanto. A seguito di un restauro minore nel 1960, l’edificio divenne il Grand Circus Theatre con 3.367 posti. Il teatro chiuse nel 1978 dopo essere sopravvissuto a diversi anni di proiezioni di film di seconda visione e film porno soft-core. Riaprì di nuovo per breve tempo nel 1981, ma chiuse dopo aver subito danni a causa di un lieve incendio nel 1985.

Nel 1988, il Teatro dell’Opera del Michigan acquistò l’edificio e lo battezzò Teatro dell’Opera di Detroit, dopo un vasto restauro ed un ampliamento del palcoscenico. La riapertura nel 1996 fu celebrata con una serata di gala con Luciano Pavarotti e altri artisti noti. Dal 1996, il teatro dell’opera ha ospitato ogni anno cinque produzioni liriche, cinque produzioni di danza provenienti da compagnie di giro, e una varietà di altri eventi musicali e comici.

 

Fin de partie

György Kurtág, Fin de partie

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 15 novembre 2018

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L’impotente passività dell’esistenza: Beckett in musica

Kurtág György (così infatti si dovrebbe dire in ungherese) è nato nel 1926 in Romania.  L’Ungheria divenne presto la sua patria, ma la dovette abbandonare nel 1957 in seguito al clima di censura creatosi dopo l’invasione da parte delle forze sovietiche che repressero l’insurrezione dell’anno prima. Kurtág allora si rifugiò in Francia e qui, fra le altre cose, potè assistere alla rappresentazione parigina di Fin de partie, il lavoro che Samuel Beckett aveva fatto seguire a En attendant Godot.

In questi stessi giorni al Piccolo Teatro di Milano sono da poco terminate le repliche della pièce di Beckett e la città dedica al compositore una serie di concerti delle sue musiche, una mostra, e la rappresentazione del suo primo lavoro per le scene: Samuel Beckett: Fin de partie, scènes et monologues, opéra en un acte, come recita il titolo completo.

Un inutile accanimento nel gioco della vita, specchio crudele di una partita a scacchi di cui si sa già il finale: questo è il nichilistico messaggio del lavoro di Beckett. Le chiacchiere dei quattro personaggi sono inconcludenti; siamo al limite della comunicazione, le loro parole sono solo futili rimpianti, desideri impotenti. I silenzi sono più dei dialoghi e in scena non accade nulla, non ci sono movimenti, se non il rabbioso andare e venire del servo. Un personaggio è cieco e paralizzato su una sedia a rotelle, gli altri due sono senza gambe e vivono in bidoni dell’immondizia. Mai a teatro era stata così crudelmente raffigurata l’impotenza dell’uomo. Impresa ardua quella di mettere in musica una non-vicenda del genere, ma solo la “follia saggia” della tarda età spiega la volontà di coronare un’intera esperienza creativa con questo “addio alla vita”, come lo definisce il compositore stesso.

La musica di Kurtág, pur innovativa, non si è mai lasciata ingabbiare nelle regole della dodecafonia, della serialità o di una qualunque delle tante correnti della modernità. Il suo segno sonoro ha una sua classicità, è un’evoluzione della musica del passato vissuta in una poetica del frammento, dell’aforisma in cui si concentra la massima espressività. Così è anche in Fin de partie, dove si parte dalla parola, oggetto di un’analisi fonetica e semantica, restituita enfatizzata e prolungata nel tempo dal suono. Il colore della partitura è scuro, dominano gli strumenti gravi, gli archi hanno una funzione quasi secondaria. A tratti l’orchestra è percorsa da bagliori nervosi e metallici, sempre timbricamente varia ma scarna, quasi cameristica nonostante il numero di strumentisti, circa 70. In buca il cimbalon e le bajany (fisarmoniche russe) danno il tocco folklorico ad una partitura che mescola autocitazioni, “allusioni stilistiche” e textures orchestrali ricorrenti associate a ciascuno dei personaggi. L’opera è formata da 12 episodi (scene e monologhi, come recita il sottotitolo) preceduti da un prologo che utilizza una poesia di Beckett, Roundelay, il cui testo è cantato dal mezzosoprano, e da un epilogo.

1.  Prologo I. È completamente buio.
Prologo II – “Roundelay”. Nell canta la poesia di Beckett “su tutta quella spiaggia a fine giornata”, un ricordo di passi come unico suono su una spiaggia.
2. Pantomima di Clov. Clov e Hamm appaiono. Clov ha problemi con le gambe e fa movimenti goffi e ripetitivi come quelli delle sue solite attività domestiche. Ogni tanto ride nervosamente.
3. Il primo monologo di Clov. Clov afferma o spera che questa situazione insopportabile finisca presto.
4. Il primo monologo di Hamm. Hamm pensa anche alla sua miseria. Si chiede se i suoi genitori stiano soffrendo quanto lui. Nonostante la sua stanchezza, si sente incapace di porre fine a tutto questo.
5. La pattumiera. Nagg bussa sul coperchio dell’altra pattumiera finché Nell non si affaccia. La invita a baciarlo, ma il tentativo fallisce, come ogni giorno. Entrambi soffrono per le loro infermità fisiche. Nell non ha più i denti ed entrambi non vedono e non sentono quasi nulla. Ricordano brevemente il loro incidente in bicicletta nelle Ardenne, in cui hanno perso le gambe, e una gita in barca sul lago di Como. È l’unica cosa di cui possono ancora ridere. Hamm si sente disturbato dalle loro chiacchiere e chiede a Clov di gettare le pattumiere in mare insieme ai suoi genitori. Quando il servo va ai cassonetti, si accorge che Nell non ha più battito. Lei borbotta solo le parole “così bianco”.
Canzone: “Le monde et le pantalon” (‘Il mondo e i pantaloni’). Nagg racconta la storia dell’inglese e del sarto che non riesce a finire i suoi pantaloni in tre mesi: “Poldy Bloom che canta una ballata ebraico-irlandese-scozzese” dopo l’Ulisse di James Joyce.[1] Quando l’inglese gli fa notare indignato che Dio ha creato il mondo in sei giorni, il sarto risponde che dovrebbe dare un’occhiata al mondo (gesto sprezzante) e ai suoi pantaloni (gesto amorevole). Hamm interrompe con rabbia Nagg, e il vecchio si ritira nella sua botte. Clov controlla di nuovo il polso di Nell, ma non trova alcun miglioramento.
6. Ora Hamm vuole raccontare una storia. Dato che Clov non se la sente, Nagg dovrebbe fare l’ascoltatore. Ma prima deve essere svegliato e poi chiede un dolce. Hamm promette di dargliene uno più tardi. Gli racconta che molto tempo fa, a Natale, un padre gli aveva chiesto del pane per suo figlio. Lui (Hamm) aveva poi preso l’uomo al suo servizio. Dopo la narrazione, Nagg chiede la sua ricompensa con sempre più veemenza. Clov interrompe la conversazione perché ha visto un topo in cucina. Hamm sostiene che non ci sono più dolci.
7. Il monologo di Nagg. Nagg ricorda l’infanzia di Hamm. In quel momento, dice, suo figlio aveva ancora bisogno di lui. Si ritira nella sua pattumiera e chiude il coperchio.
8. Il penultimo monologo di Hamm. Hamm riflette sulle sue difficoltà nel trattare con le altre persone.
9. Il dialogo tra Hamm e Clov. Hamm chiede a Clov un tranquillante. Tuttavia, non c’è più nulla.
10. “C’est fini, Clov” e il vaudeville di Clov. Hamm crede che la fine sia vicina. Informa Clov che non ha più bisogno dei suoi servizi. Prima di andarsene, però, Clov dovrebbe dirgli qualche parola che possa ricordare in seguito. Hamm nota che Clov gli ha parlato per la prima volta prima di partire. Clov canta un vaudeville su un uccello che viene lasciato libero di volare verso l’amante del suo proprietario.
11. L’ultimo monologo di Clov. Clov dice ad Hamm che non ha mai capito il significato dell’amicizia. Ora si sente troppo vecchio per sviluppare nuove abitudini. La sua routine non cambierà mai fino alla fine.
12. passaggio al finale. Mentre Clov se ne va, Hamm lo ringrazia. Anche Clov lo ringrazia. Hamm gli chiede di coprirlo con un lenzuolo come atto finale.
13. L’ultimo monologo di Hamm. Clov nel frattempo si è messo il cappotto e il cappello e rimane immobile sulla porta, con gli occhi fissi su Hamm. Hamm si perde nei pensieri e nei ricordi e finalmente si rende conto di essere solo. Hamm deve giocare la partita finale da solo.
14. Epilogo.

La preparazione dei 14 numeri musicali ha richiesto prove estenuanti che hanno avuto luogo nella residenza del compositore stesso, e gli interpreti portano quindi con loro i preziosi suggerimenti dell’autore, cosa evidente nell’esecuzione. Tutte le raffinatezze timbriche ed espressive sono state risolte in maniera magistrale dai quattro cantanti e dal direttore d’orchestra Markus Stenz.

Hamm, che vive per angariare il suo badante Clov e rappresenta il re in questa tragica partita a scacchi, ha la voce da basso-baritono. I suoi monologhi sono l’ossatura del dramma, da quando si risveglia (e i suoi sbadigli ricordano ironicamente quelli di Fafner nel Sigfrido) all’ultimo grido finale, quella nota tenuta a lungo sull’ultima parola del suo ultimo verso: «Vieux linge! Toi – je te garde» prima del fortissimo orchestrale, unico lancinante momento della serata, che poi si spegnerà in un doloroso pianissimo. Il cantante norvegese Frode Olsen non può che fare riferimento alla voce per il suo personaggio paralizzato e cieco, ma il cantante norvegese riesce a declinare in tutte le sue espressioni la parola francese e a scolpirne la statura tragica.

Gli fa da spalla Clov (forse da clown per l’aspetto spesso comicamente grottesco), baritono. Qui penosamente claudicante, il servo che non si può mai sedere è l’unico che percorre con i suoi passi nervosi la scena e che parla di sé alla terza persona, come Mime (ancora un’allusione wagneriana). Leigh Melrose ha quindi una dimensione negata agli altri e ne fa un utilizzo sapiente, anche se è sulla vocalità che si gioca la definizione del personaggio. Il timbro sale ancora per Nagg, tenore, e Nell, mezzosoprano, magnificamente impersonati da Leonardo Cortellazzi col suo cinico humour, e Hilary Summers, che restituisce con soavità le uniche note liriche del lavoro.

La messa in scena di Pierre Audi è coerente con lo spirito dell’opera di Beckett, i silenzi dei suoi personaggi si ritrovano nella asciutta costruzione registica. L’aspetto claustrofobico della vicenda («Intérieur sans meubles» scrive Beckett) è evidente nella scenografia di Christof Hetzer (autore anche dei costumi): una struttura di case una dentro l’altra che confonde quindi interno ed esterno, e che vediamo da diverse prospettive nelle varie scene. «La lumière grisâtre» è resa dall’efficace gioco luci di Urs Schönebaum.

Fin de partie ha avuto una lunga gestazione. È dal 2010 infatti che il musicista ungherese lavora a questo testo di Beckett di cui ha utilizzato solo metà dei versi, per un totale di quasi due ore di musica – la più lunga delle sue opere, che raramente superano i 15 minuti. Chissà che non riesca a utilizzare il resto in un altro lavoro. Auguri, Maestro!

Il Demone

Anton Rubinštejn, Il Demone

direzione di Normund Vaicis

regia di Andrejs Žagars

2003, Latvjas Nacionālā Opera, Riga

Michail Jur’evič Lermontov vide pubblicato il suo poema Демон (Il Demone o meglio Il Demonio giacché proprio del principe degli Inferi si parla) nel 1856 a Berlino, ma la sua composizione era terminata nel 1838 dopo una lunga gestazione iniziata quasi dieci anni prima. Era stata la censura zarista a bloccarne l’uscita e a rendere il lavoro di Lermontov la più popolare tra le opere non pubblicate. Il poema ebbe un’enorme influenza sulla letterature russa e Pasternak nel 1917 ancora  gli dedicava la sua raccolta poetica.

Anche se fu criticato come il Satana meno convincente della storia della letteratura, il protagonista del poema aveva però una statura teatrale tale da convincere Anton Rubinštejn a metterne in musica la vicenda. Completata nel 1871 su libretto di Pavel Viskovatov e Apollon Majkov, l’opera dovette però combattere anche lei con la censura che vi vedeva un carattere blasfemo e sacrilegio e la prima avvenne solo nel 1875 al Mariinskij di San Pietroburgo.

Atto I. Scena prima: prologo. Durante una tempesta sulle montagne del Caucaso, un coro di spiriti maligni invita il Demone a distruggere la bellezza della creazione di Dio. Il Demone canta il suo odio per l’universo e respinge l’invito dell’Angelo a riconciliarsi con il cielo. Scena seconda. Tamara è in attesa del suo matrimonio col principe Sinodal, che sta arrivando con i suoi servitori da un territorio oltre il fiume. Il Demone vede Tamara e si innamora di lei: le promette che diventerà regina dell’aria se ricambierà il suo amore. Tamara è affascinata, ma anche terrorizzata dal Demone e ritorna al castello. Scena terza. La carovana del principe Sinodal si sta dirigendo verso il la corte del principe Gudal per celebrare il matrimonio con Tamara, ma è in ritardo a causa di una frana. Appare il Demone il quale giura che il principe Sinodal non vedrà mai più Tamara. La carovana di Sinodal viene attaccata dai Tatari e il principe Sinodal viene ferito a morte. Prima di morire egli ordina al suo servitore di portare il suo corpo a Tamara.
Atto II. Scena quarta. I festeggiamenti per il matrimonio sono iniziati. Un messaggero annuncia che la carovana del principe Sinodal è stata assalita. Tamara avverte la presenza del Demone ed è terrorizzata. Dopo che il cadavere del principe Sinodal è stato portato al castello, Tamara è sopraffatta dal dolore, mentre inorridita continua a sentire la voce del Demone e le sue promesse. Implora perciò il padre di lasciarla entrare in convento.
Atto III. Scena quinta. Il Demone vuole entrare nel convento, dove Tamara è ora rinchiusa, nella convinzione che il suo amore per lei abbia aperto il suo spirito alla bontà. L’Angelo tenta invano di fermarlo. Scena sesta. Tamara prega nella cella del convento, ma è costantemente turbata dal pensiero del Demone, che le appare in sogno. Il Demone appare in modo sensibile, le dichiara il suo amore e la supplica di amarlo a sua volta. Tamara cerca di resistere alle sue lusinghe, ma non ci riesce. Il Demone la bacia; appare all’improvviso l’Angelo e mostra a Tamara il fantasma del principe Sinodal. Orripilata, Tamara cerca di fuggire dalle braccia del Demone e cade morta.
Epilogo ed apoteosi. L’Angelo annuncia che Tamara è stata redenta dal suo dolore, mentre il Demone è stato dannato alla solitudine eterna. Il Demone maledice il suo destino. Nell’apoteosi finale l’anima di Tamara sale in cielo accompagnata dagli angeli.

Accanto al successo di pubblico, non poche furono le riserve della critica così riassunte da Luca Gorla: «La vena copiosa, ma accademica e impersonale di Rubinštejn, apparve lontanissima dal mirabile poema ispiratore, uno dei capolavori assoluti della letteratura russa. Fecero centro invece la lussureggiante scrittura vocale (in particolare quella del protagonista), le danze, l’effettismo dei contrasti drammatici. Come ad apertura di sipario, ad esempio, quando in cielo, tra cori di elementi naturali e di spiriti maligni e benigni, il Demone, maledetto il creato, viene scacciato dall’Angelo». Il Mefistofele di Boito è di pochi anni prima, ma i due mondi musicali sono molto distanti. Il demone ha un colore orientale ottenuto tramite l’utilizzo di canti popolari della Georgia e dell’Armenia mentre alcuni motivi melodici dell’opera si ritroveranno sia nella Chovanščina di Musorgskij sia nell’Eugenio Onegin di Čajkovskij.

Dopo le prime cento rappresentazioni Il demone è stato raramente messo in scena in Russia, ancora meno in Occidente. Il più recente allestimento è quello del Liceu di Barcellona dell’aprile 2018 il cui protagonista doveva essere Dmitrij Hvorostovskij, tragicamente scomparso poco prima, che l’aveva cantato in una versione semi-scenica all’auditorium Čajkovskijdi Mosca nel 2015.

In rete è disponibile questa registrazione di fortuna dell’allestimento dell’opera Lituana del dicembre 2003 con la direzione di Normund Vaicis e la stilizzata messa in scena di Andrejs Žagars. Si tratta di una versione in due atti con molti tagli rispetto a quella orginale. Tra gli interpreti Samsons Izjumovs (Demone) e una non ancora affermata star Kristīne Opolais (Tamara), bambola dalle lunghe trecce nere e dai grandi occhi, dalla magnetica presenza scenica e vocalmente a suo agio nelle agilità della parte.

La campana sommersa

★★★☆☆

«Poffare, è stata una celia diabolica»

La campana sommersa ebbe la prima rappresentazione il 18 novembre 1927 allo Stadttheater di Amburgo in traduzione tedesca: l’editore di Respighi, Ricordi, non era d’accordo con la scelta del soggetto e rifiutò di pubblicare l’opera che così venne stampata dall’editore tedesco Bote & Bock ed ebbe quindi la presentazione in Germania. Dopo un passaggio al Metropolitan di New York, la settima fatica teatrale di Ottorino Respighi fu finalmente data alla Scala nel 1929.

Atto I. In un bosco vivono strani personaggi: le Elfe, il Fauno della forestae Ondino, una specie di lucertolone dalla pelle squamosa e una lunga coda che abita in fondo ad un pozzo dal quale emerge ogni tanto. Sia lui che il Fauno corteggiano la bella Rautendelein, una creatura ultraterrena che abita insieme alla nonna, da tutti chiamata strega, in una casetta in fondo al bosco. Enrico, costruttore di campane, stava trasportandone una destinata ad una chiesetta in cima alla montagna, ma nell’attraversare un laghetto il carro si è ribaltato ad opera del dispettoso Fauno che ha distrutto anche la chiesetta, e la campana è precipitata in fondo al lago. Rautendelein rimane affascinata dal giovane, che dispoerato si aggira smarrito nella foresta, e per trattenerlo gli fa una magia. Il curato, il maestro e il barbiere del paese, alla ricerca del giovane lo trovano svenuto. Cercano di avvicinarsi per soccorrerlo, ma non ci riescono per via della fattura, fino a che la strega pone fine all’incantesimo e possono trasportare Enrico a casa. La luna si alza piena nel cielo e le Elfe cantano e danzano. Rautendelein prende la dccisone di seguire il campanaro nel «mondo maledetto e cieco, il paese degli uomini».Invano Ondino cerca di dissuaderla.
Atto II. La moglie Magda si sta preparando, assieme ai due bambini, per andare a festeggiare la nuova campana, quando arriva la barella su cui è adagiato il marito. Rautendelein che ha seguito l’uomo decisa a conquistarlo lo guarisce e lui, affascinato dalla ragazza, la segue nel bosco abbandonando moglie e figli.
Atto III. Qui come invasato da furia creativa allestisce una fucina per lavorare alla costruzione di un tempio dedicato al dio Sole aiutato dai nanetti del bosco, da Fauno e da Ondino. Il curato, scopertolo, cerca di convincerlo a tornare a casa ma lui gli risponde che è più facile che la campana in fondo al lago suoni. Nel bel mezzo di un duetto d’amore con Rautendelein, si sente l’eco della campana, accompagnato dalla voce dei figli che giungono recando in mano una coppa colma delle lacrime materne: Magda disperata si è gettata nel lago. Enrico inorridito abbandona Rautendelein.
Atto IV. Rautendelein, sconsolata, si rassegna a sposare Ondino e va a vivere con lui in fondo al pozzo. Enrico però non l’ha dimenticata e un giorno, vecchio e stanco, giunge alla casa della strega e la prega di fargli vedere per l’ultima volta la ragazza. La vecchia prima lo deride e cerca di scacciarlo, ma davanti alle suppliche dell’uomo, ormai morente, acconsente. Rautendelein esce dal pozzo tutta vestita di bianco e gli rimprovera di averla costretta a sposare Ondino; lui la prega di dargli un ultimo bacio e lei, commossa, lo abbraccia, lo bacia e poi fugge via tornando dal suo sposo.

Ricordi aveva avuto buon fiuto: il libretto è improponibile e la dimensione fiabesca si sa che non appartiene al gusto italico. La fonte originale, Die versunkene Glocke di Gerhart Hauptmann, è «una fiaba nordica popolata da fate, fauni, streghe, ondine e ondini e per non farci mancare nulla pure da un nano di stampo nibelungico. Al suo nascere questo dramma fece già discutere la critica tedesca schierata, a quanto si legge, in una pressoché unanime condanna, fu adattata ad operistici quattro atti dal librettista “di fiducia” di Respighi, Claudio Guastalla. Sul suo preteso “simbolismo” che alcuni vi leggono, stenderei il confortante pietoso velo. C’è poco da cavar dal buco in un testo che usa, per rendere il personaggio di Ondino il cui reame sta nel fondo di un pozzo, onomatopeici “Brekekekex” e “Quorax! Quorax!”. La musica li prende sul serio, ma la sensibilità odierna li assimila ai fumetti di Topolino, a Paolino Paperino ed ai suoi tre ineffabili nipotastri, Qui, Quo e Qua». (Andrea Merli)

La partitura mescola Wagner, Strauss, tanto Puccini, i russi, gli impressionisti francesi e il verismo in un cocktail eclettico. Nonostante tutto il dispiegamento di mezzi sonori il momento del suono della campana sommersa non ha quasi nulla di magico o di soprannaturale, in definitiva è deludente. La vicenda intreccia i due piani, quello della fantasia e quello della cruda realtà, del paganesimo e della cristianità, del cielo e dell’inferno senza però convincere.

Inaugura la stagione 2016 del teatro cagliaritano questo titolo desueto prontamente registrato e pubblicato dalla Naxos. Pur se ampiamente ridotto rispetto al libretto originale, con taglio di intere scene, il lavoro risulta ancora prolisso, ma il maestro Donato Renzetti dimostra di credere nell’opera e ne restituisce la magnificenza orchestrale.

Il canto declamato mette a dura prova gli interpreti: il tenore (Enrico) in una tessitura impervia e un canto sempre teso, il soprano coloratura (Rautendelein) in un registro acutissimo che deve reggere le ondate di un’orchestra wagneriana, gli accenti drammatici dell’altro soprano (la moglie Magda). Encomiabili gli interpreti che hanno affrontato con grande impegno lo studio di un’opera che non canteranno mai più. Valentina Farcaș snocciola con facilità le agilità di Rautendelein, Angelo Villari è il Sigfrido della situazione, un campanaro tutto acuti. Meno efficaci le altre due interpreti femminili, meglio quelli maschili.

L’atmosfera fantasy voluta dal regista Pier Francesco Maestrini è ottenuta soprattutto con le proiezioni di Juan Guillermo Nova che ricrea i vari ambienti e paesaggi naturali: la casa gotica del campanaro, le rovine tra le brume, la cascata d’acqua, una enorme Luna che ruota curiosamente su sé stessa, il fondo del lago. Nel secondo atto sembra di essere nel Sigfrido: incudine, faville, un nano, un giovane arrogante. La direzione attoriale è latitante, a meno che non si intenda per tale il gesticolare enfatico degli interpreti, mentre il costumista Marco Nateri si è divertito con il Fauno cornuto, tutto verde ma dai capezzoli rosei, i suoi aiutanti palestrati con le chiappe al vento, i personaggi umani in redingote, le Elfe in veli svolazzanti, l’Ondino iguana.