Fin de partie

György Kurtág, Fin de partie

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 15 novembre 2018

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L’impotente passività dell’esistenza: Beckett in musica

Kurtág György (così infatti si dovrebbe dire in ungherese) è nato nel 1926 in Romania.  L’Ungheria divenne presto la sua patria, ma la dovette abbandonare nel 1957 in seguito al clima di censura creatosi dopo l’invasione da parte delle forze sovietiche che repressero l’insurrezione dell’anno prima. Kurtág allora si rifugiò in Francia e qui, fra le altre cose, potè assistere alla rappresentazione parigina di Fin de partie, il lavoro che Samuel Beckett aveva fatto seguire a En attendant Godot.

In questi stessi giorni al Piccolo Teatro di Milano sono da poco terminate le repliche della pièce di Beckett e la città dedica al compositore una serie di concerti delle sue musiche, una mostra, e la rappresentazione del suo primo lavoro per le scene: Samuel Beckett: Fin de partie, scènes et monologues, opéra en un acte, come recita il titolo completo.

Un inutile accanimento nel gioco della vita, specchio crudele di una partita a scacchi di cui si sa già il finale: questo è il nichilistico messaggio del lavoro di Beckett. Le chiacchiere dei quattro personaggi sono inconcludenti; siamo al limite della comunicazione, le loro parole sono solo futili rimpianti, desideri impotenti. I silenzi sono più dei dialoghi e in scena non accade nulla, non ci sono movimenti, se non il rabbioso andare e venire del servo. Un personaggio è cieco e paralizzato su una sedia a rotelle, gli altri due sono senza gambe e vivono in bidoni dell’immondizia. Mai a teatro era stata così crudelmente raffigurata l’impotenza dell’uomo. Impresa ardua quella di mettere in musica una non-vicenda del genere, ma solo la “follia saggia” della tarda età spiega la volontà di coronare un’intera esperienza creativa con questo “addio alla vita”, come lo definisce il compositore stesso.

La musica di Kurtág, pur innovativa, non si è mai lasciata ingabbiare nelle regole della dodecafonia, della serialità o di una qualunque delle tante correnti della modernità. Il suo segno sonoro ha una sua classicità, è un’evoluzione della musica del passato vissuta in una poetica del frammento, dell’aforisma in cui si concentra la massima espressività. Così è anche in Fin de partie, dove si parte dalla parola, oggetto di un’analisi fonetica e semantica, restituita enfatizzata e prolungata nel tempo dal suono. Il colore della partitura è scuro, dominano gli strumenti gravi, gli archi hanno una funzione quasi secondaria. A tratti l’orchestra è percorsa da bagliori nervosi e metallici, sempre timbricamente varia ma scarna, quasi cameristica nonostante il numero di strumentisti, circa 70. In buca il cimbalon e le bajany (fisarmoniche russe) danno il tocco folklorico ad una partitura che mescola autocitazioni, “allusioni stilistiche” e textures orchestrali ricorrenti associate a ciascuno dei personaggi. L’opera è formata da 12 episodi (scene e monologhi, come recita il sottotitolo) preceduti da un prologo che utilizza una poesia di Beckett, Roundelay, il cui testo è cantato dal mezzosoprano, e da un epilogo.

1.  Prologo I. È completamente buio.
Prologo II – “Roundelay”. Nell canta la poesia di Beckett “su tutta quella spiaggia a fine giornata”, un ricordo di passi come unico suono su una spiaggia.
2. Pantomima di Clov. Clov e Hamm appaiono. Clov ha problemi con le gambe e fa movimenti goffi e ripetitivi come quelli delle sue solite attività domestiche. Ogni tanto ride nervosamente.
3. Il primo monologo di Clov. Clov afferma o spera che questa situazione insopportabile finisca presto.
4. Il primo monologo di Hamm. Hamm pensa anche alla sua miseria. Si chiede se i suoi genitori stiano soffrendo quanto lui. Nonostante la sua stanchezza, si sente incapace di porre fine a tutto questo.
5. La pattumiera. Nagg bussa sul coperchio dell’altra pattumiera finché Nell non si affaccia. La invita a baciarlo, ma il tentativo fallisce, come ogni giorno. Entrambi soffrono per le loro infermità fisiche. Nell non ha più i denti ed entrambi non vedono e non sentono quasi nulla. Ricordano brevemente il loro incidente in bicicletta nelle Ardenne, in cui hanno perso le gambe, e una gita in barca sul lago di Como. È l’unica cosa di cui possono ancora ridere. Hamm si sente disturbato dalle loro chiacchiere e chiede a Clov di gettare le pattumiere in mare insieme ai suoi genitori. Quando il servo va ai cassonetti, si accorge che Nell non ha più battito. Lei borbotta solo le parole “così bianco”.
Canzone: “Le monde et le pantalon” (‘Il mondo e i pantaloni’). Nagg racconta la storia dell’inglese e del sarto che non riesce a finire i suoi pantaloni in tre mesi: “Poldy Bloom che canta una ballata ebraico-irlandese-scozzese” dopo l’Ulisse di James Joyce.[1] Quando l’inglese gli fa notare indignato che Dio ha creato il mondo in sei giorni, il sarto risponde che dovrebbe dare un’occhiata al mondo (gesto sprezzante) e ai suoi pantaloni (gesto amorevole). Hamm interrompe con rabbia Nagg, e il vecchio si ritira nella sua botte. Clov controlla di nuovo il polso di Nell, ma non trova alcun miglioramento.
6. Ora Hamm vuole raccontare una storia. Dato che Clov non se la sente, Nagg dovrebbe fare l’ascoltatore. Ma prima deve essere svegliato e poi chiede un dolce. Hamm promette di dargliene uno più tardi. Gli racconta che molto tempo fa, a Natale, un padre gli aveva chiesto del pane per suo figlio. Lui (Hamm) aveva poi preso l’uomo al suo servizio. Dopo la narrazione, Nagg chiede la sua ricompensa con sempre più veemenza. Clov interrompe la conversazione perché ha visto un topo in cucina. Hamm sostiene che non ci sono più dolci.
7. Il monologo di Nagg. Nagg ricorda l’infanzia di Hamm. In quel momento, dice, suo figlio aveva ancora bisogno di lui. Si ritira nella sua pattumiera e chiude il coperchio.
8. Il penultimo monologo di Hamm. Hamm riflette sulle sue difficoltà nel trattare con le altre persone.
9. Il dialogo tra Hamm e Clov. Hamm chiede a Clov un tranquillante. Tuttavia, non c’è più nulla.
10. “C’est fini, Clov” e il vaudeville di Clov. Hamm crede che la fine sia vicina. Informa Clov che non ha più bisogno dei suoi servizi. Prima di andarsene, però, Clov dovrebbe dirgli qualche parola che possa ricordare in seguito. Hamm nota che Clov gli ha parlato per la prima volta prima di partire. Clov canta un vaudeville su un uccello che viene lasciato libero di volare verso l’amante del suo proprietario.
11. L’ultimo monologo di Clov. Clov dice ad Hamm che non ha mai capito il significato dell’amicizia. Ora si sente troppo vecchio per sviluppare nuove abitudini. La sua routine non cambierà mai fino alla fine.
12. passaggio al finale. Mentre Clov se ne va, Hamm lo ringrazia. Anche Clov lo ringrazia. Hamm gli chiede di coprirlo con un lenzuolo come atto finale.
13. L’ultimo monologo di Hamm. Clov nel frattempo si è messo il cappotto e il cappello e rimane immobile sulla porta, con gli occhi fissi su Hamm. Hamm si perde nei pensieri e nei ricordi e finalmente si rende conto di essere solo. Hamm deve giocare la partita finale da solo.
14. Epilogo.

La preparazione dei 14 numeri musicali ha richiesto prove estenuanti che hanno avuto luogo nella residenza del compositore stesso, e gli interpreti portano quindi con loro i preziosi suggerimenti dell’autore, cosa evidente nell’esecuzione. Tutte le raffinatezze timbriche ed espressive sono state risolte in maniera magistrale dai quattro cantanti e dal direttore d’orchestra Markus Stenz.

Hamm, che vive per angariare il suo badante Clov e rappresenta il re in questa tragica partita a scacchi, ha la voce da basso-baritono. I suoi monologhi sono l’ossatura del dramma, da quando si risveglia (e i suoi sbadigli ricordano ironicamente quelli di Fafner nel Sigfrido) all’ultimo grido finale, quella nota tenuta a lungo sull’ultima parola del suo ultimo verso: «Vieux linge! Toi – je te garde» prima del fortissimo orchestrale, unico lancinante momento della serata, che poi si spegnerà in un doloroso pianissimo. Il cantante norvegese Frode Olsen non può che fare riferimento alla voce per il suo personaggio paralizzato e cieco, ma il cantante norvegese riesce a declinare in tutte le sue espressioni la parola francese e a scolpirne la statura tragica.

Gli fa da spalla Clov (forse da clown per l’aspetto spesso comicamente grottesco), baritono. Qui penosamente claudicante, il servo che non si può mai sedere è l’unico che percorre con i suoi passi nervosi la scena e che parla di sé alla terza persona, come Mime (ancora un’allusione wagneriana). Leigh Melrose ha quindi una dimensione negata agli altri e ne fa un utilizzo sapiente, anche se è sulla vocalità che si gioca la definizione del personaggio. Il timbro sale ancora per Nagg, tenore, e Nell, mezzosoprano, magnificamente impersonati da Leonardo Cortellazzi col suo cinico humour, e Hilary Summers, che restituisce con soavità le uniche note liriche del lavoro.

La messa in scena di Pierre Audi è coerente con lo spirito dell’opera di Beckett, i silenzi dei suoi personaggi si ritrovano nella asciutta costruzione registica. L’aspetto claustrofobico della vicenda («Intérieur sans meubles» scrive Beckett) è evidente nella scenografia di Christof Hetzer (autore anche dei costumi): una struttura di case una dentro l’altra che confonde quindi interno ed esterno, e che vediamo da diverse prospettive nelle varie scene. «La lumière grisâtre» è resa dall’efficace gioco luci di Urs Schönebaum.

Fin de partie ha avuto una lunga gestazione. È dal 2010 infatti che il musicista ungherese lavora a questo testo di Beckett di cui ha utilizzato solo metà dei versi, per un totale di quasi due ore di musica – la più lunga delle sue opere, che raramente superano i 15 minuti. Chissà che non riesca a utilizzare il resto in un altro lavoro. Auguri, Maestro!

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