Mese: marzo 2024

Flavio, re de’ Longobardi

   ∙

Georg Friedrich Händel, Flavio, re de’ Longobardi

Bauyreuth, Markgräfliches Opernhaus, 17 settembre 2023

★★★★★

(video streaming)

Mai stata così divertente l’opera seria

Bayreuth, due teatri a meno di due chilometri dove hanno luogo due festival, a poche settimane di distanza, che più diversi non potrebbero essere. Sulla collina “sacra” nella sala del Festspielhaus, appositamente costruita, si celebra il rito dei Gesamtkunstwerk wagneriani, dieci titoli di un canone immutabile. Solo con la novità degli allestimenti – qui è il regno del Regietheater più spinto – si cerca di dire qualcosa di diverso. Al centro della cittadina, l’ineguagliabile gioiello del teatro margraviale dal 2020 è la sede del festival internazionale Bayreuth Baroque diretto da Max Emanuel Cenčić che ogni anno trae qualcosa di diverso dall’inesauribile fonte dell’opera seria settecentesca. Come quest’anno, quando viene proposto un lavoro non consueto di Händel, Flavio, re de’ Longobardi.

Su libretto di Nicola Francesco Haym, il testo è tratto dal Flavio Cuniberto di Matteo Noris già messo in musica da Gian Domenico Partenio (1681), Domenico Gabrielli (1688), Luigi Mancia (1696) e Alessandro Scarlatti (1702) prima di venire intonato dal “caro sassone” nel 1723 e rappresentato il 14 maggio di quell’anno allo Haymarket di Londra. Händel inizialmente pensava di intitolare il lavoro Emilia dal personaggio femminile che ha ben sei arie e un duetto mentre il personaggio eponimo solo tre numeri solistici. Händel terminò la composizione a sette giorni dalla prima rappresentazione e l’opera andò in scena otto volte. Altre quattro rappresentazioni, dirette dallo stesso compositore, ebbero luogo nel 1732 prima che il lavoro sparisse dai cartelloni, fino alla ripresa in tempi moderni nel 1967 a Gottinga. (1)

La vicenda si svolge in Lombardia nel VI secolo E.V. Il re Flavio (Autari) regna sui Longobardi e sull’Inghilterra. Ugone e Lotario sono i suoi due consiglieri. Il figlio di Ugone, Guido, deve sposare la figlia di Lotario, Emilia. Ugone ha anche una figlia, Teodata che il padre vorrebbe che cercasse di entrare alla corte come dama di compagnia per non passare la fanciullezza in solitudine, ma ignora che Teodata ha un amante segreto, Vitige, aiutante del re.
Atto I, Davanti alla casa dell’anziano Ugone, prima dell’alba, Vitige lascia la camera di Teodata. In seguito, nella casa di Lotario, ha luogo il matrimonio tra Guido ed Emilia, in presenza solo dei più stretti parenti. Gli sposi cantano la loro felicità, poi si separano in attesa delle celebrazioni che si svolgeranno di sera. Ugone presenta Teodata al re, dicendogli che ella brama di entrare al suo servizio come dama di compagnia. Incantato dalla bellezza di Teodata, Flavio acconsente e assegna Teodata come dama alla propria moglie, Ermelinda. Lotario invita il re ai festeggiamenti nuziali. Flavio riceve poi una lettera dell’anziano governatore d’Inghilterra che chiede di essere sollevato dal proprio incarico. Flavio pensa inizialmente di affidare l’incarico a Lotario, che già assapora la prospettiva, poi cambia idea in favore di Ugone, poiché vuole allontanare quest’ultimo, per poter corteggiare Teodata senza interferenze. Lotario si sente offeso e parte furioso. Flavio parla a Vitige della bellezza di Teodata, senza sapere che egli è l’amante della giovane e Vitige cerca di nascondere i propri sentimenti sostenendo che Teodata non è particolarmente bella. Nel cortile del castello Ugone incontra il figlio Guido, il quale gli dice di essere stato schiaffeggiato da Lotario. Ugone deve difendere il proprio onore, ma è troppo vecchio per poter brandire una spada, perciò chiede a Guido di combattere in sua vece. Guido è combattuto tra il sentimento di dovere verso il padre e l’amore per Emilia, ma proclama orgogliosamente la decisione di difendere l’onore della famiglia. Giunge Emilia, che non capisce per quale motivo Guido cerchi di sfuggirla: gli giura eterna fedeltà, ma nota il suo cambiamento d’umore.
Atto II. In una sala del castello, Flavio sta corteggiando Teodata. Irrompe Ugone, tanto angosciato da non riuscire a parlare chiaramente. Flavio lascia la stanza. Ugone inveisce, parlando della perdita dell’onore della famiglia. Teodata pensa che la sua relazione con Vitige sia stata scoperta e confessa tra le lacrime. L’angoscia di Ugone, all’apprendere la situazione della figlia, aumenta. Nella casa di Lotario, quest’ultimo dice ad Emilia che non intende consegnarla al figlio dell’odiato rivale e che perciò il matrimonio deve considerarsi nullo. Guido, giunto in cerca di Lotario, chiede ad Emilia di lasciarlo solo per un po’. Al castello, Flavio ordina al suo aiutante di condurgli Teodata. Vitige deve rivelare a Teodata quale infelice missione gli è stata richiesta e Teodata gli narra che Ugone è venuto a conoscenza della loro relazione segreta. Per prendere tempo, essi architettano un piano in cui Vitige fingerà di sollecitare l’amore di Teodata e lei si fingerà disponibile. Nel cortile della casa di Lotario, Guido sfida Lotario a duello. Lotario si fa beffe della sfida del giovane, ma la accetta. Nel combattimento, Lotario cade. Quando giunge Emilia, Lotario fa appena in tempo, prima di morire, a indicare in Guido il proprio assassino. Disperata, ella giura vendetta, ma è lacerata, poiché questo significa vendetta contro colui che ama.
Atto III. Al castello Emilia e Ugone chiedono al re di avere giustizia. Ella domanda la morte per l’assassino del proprio padre, mentre Ugone implora che sia risparmiata la vita al proprio figlio. Sopraffatto dagli eventi, Flavio chiede tempo per riflettere e li manda via. Vitige entra con Teodata, la cui presenza fa ammutolire Flavio. Egli cerca di farla corteggiare per proprio conto da Vitige, ma alla fine si fa avanti egli stesso, chiamandola “mia regina” e cercando di condurla alle proprie camere da letto. Vitige è oppresso dalla gelosia. Emilia è in lutto, per la morte del padre e per la fuga di Guido, ma ancora una volta giura implacabile vendetta. Guido appare e le porge la propria spada, cosicché lei possa ucciderlo. Emilia la prende, poi la lascia cadere e parte. Guido implora l’aiuto dell’amore. Vitige e Teodata litigano, accusandosi a vicenda di essersi spinti troppo oltre nell’inganno ordito ai danni del re. Poi si rendono conto che Flavio è entrato ed ha ascoltato tutto. Ammettono di essere amanti, con sconcerto di Flavio. Entra Guido, e supplica il re di essere messo a morte se Emilia lo odia ancora per la sua azione. Ugone poi confessa di avere incitato il figlio a commettere il delitto in propria vece. Flavio, finalmente consapevole della propria responsabilità di re, manda a chiamare Emilia e ordina a Guido di nascondersi e ascoltare ciò che accadrà. Flavio dice ad Emilia che Guido è stato ucciso, come lei aveva chiesto, e le offre di vederne la testa come prova. Emilia rifiuta e implora di essere uccisa a sua volta, poiché la su a vita senza Guido non ha significato. Guido esce dal proprio nascondiglio ed Emilia quasi sviene per la gioia. Guido le chiede perdono, e lei chiede un periodo di lutto. Flavio infine stabilisce che Vitige dovrà sposare «colei che agli occhi tuoi non piace”, cioè Teodata, e che Ugone verrà scacciato dal regno, ma per recarsi in Inghilterra e divenirne governatore. Tutti ringraziano il re e l’opera si chiude con un coro di riconciliazione.

Flavio è una delle opere di Händel dalla partitura più leggera, scritta per archi e continuo, con un uso parsimonioso dei fiati. Sebbene vi siano passaggi di intensità drammatica emergenti con forza, il tono generale è quello dell’understatement, della raffinatezza e persino dell’ironia, cosa che ha ben compreso Cenčić il quale è anche regista dello spettacolo. Il suo non è certo Regietheater, non c’è un konzept forte a cui la drammaturgia dell’opera si deve piegare. Le sue regie hanno però una vivacità e una cura per la recitazione tale che anche l’ultimo figurante ha un ruolo scenico ben individuato. Cenčić integra la commedia nel dramma in modo credibile, promuovendo l’immagine stereotipata che abbiamo dei monarchi assoluti come esigenti, egoisti e persino infantili, che vivono in un ambiente lussuoso e totalmente lontano dalla realtà. E così è il suo Flavio per il quale, ispirandosi chiaramente a Luigi XIV e a Versailles, ogni azione diventa uno spettacolo pubblico, una grandiosa affermazione della sua autorità e del suo potere assoluto e una parte del tessuto cerimoniale dello Stato. Persino i rapporti sessuali con la regina diventano un evento pubblico, un coucher du Roi con la corte che assiste ai suoi tentativi di copula con Madame aiutandosi visivamente per riuscire a espletare i doveri coniugali mentre Madame la vedremo in un altro momento consolarsi col nano di corte. La regina è chiaramente una parte importante della corte, ma viene solo menzionata nel libretto. Cenčić invece la introduce come personaggio muto, insieme alle sue dame di compagnia e al nano, senza dubbio come riferimento alla corte spagnola. La narrazione si inserisce così con successo nel contesto più ampio e credibile della vita di corte. Abbandonato il secolo VI dei fatti storici, l’ambientazione scelta è quella di una corte a cavallo dei secoli XVII e XVIII con i costumi perfettamente connotati di Corina Gramosteanu e la geniale scenografia di Helmut Stürmer, che con sei pannelli incernierati e su rotelle forma credibili ambienti d’epoca, eleganti e funzionali. Due lampadari di cristallo che scendono dall’alto, alcune poltrone e un letto a baldacchino per le imprese dell’erotomane monarca completano l’impianto in cui si sviluppano le 31 scene dell’opera. Ad aumentare la cerimonialità, un maggiordomo annuncia solennemente ogni volta con tre colpi di bastone i cambi di scena qui legati da brevi interludi orchestrali. Molti i gustosi momenti sparsi in uno spettacolo dove anche il trasporto del cadavere di Lotario è occasione di una divertente gag.

Il tono registico non reggerebbe se sul palcoscenico non ci fossero interpreti che sanno stare con ironia al gioco e qui tutti, dal primo all’ultimo, dimostrano un’efficace presenza scenica. È il caso del personaggio del titolo, affidato al giovane controtenore Rémy Brès-Feuillet che ritrae un dissoluto ed egoista re Flavio dimostrando grande abilità nel giocare con la comicità del ruolo. Adeguatamente prepotente, sprezzante e socialmente inconsapevole degli effetti delle sue azioni su coloro che lo circondano, è il più delle volte in camicia da notte o anche senza quando è immerso in una tinozza per il bagno. Il canto elegante, con piacevoli ornamentazioni e una coloratura versatile sono i punti di forza della sua performance vocale.

Personaggio con il maggior numero di numeri musicali a disposizione, è comprensibile che inizialmente Händel volesse titolare Emilia il suo lavoro. Julija Ležneva conclude tutti e tre gli atti, i primi due con cadenze, variazioni inusitate e trilli infiniti realizzati con sommo agio assieme a grande espressività guadagnandosi gli applausi più nutriti della serata. È ancora lei a iniziare teatralmente il terzo con una delle tre arie di furore di cui è ricca l’opera, le altre due essendo quelle di Vitige, «Sirti, scogli, tempeste, procelle» e Guido, la famosa «Rompo i lacci, e frango i dardi» in cui Max-Emanuel Cenčić, non pago di essere direttore del festival e regista dello spettacolo, si fa interprete con i suoi ragguardevoli mezzi vocali, una tecnica invidiabile e una padronanza di questo repertorio che pochi possono avere. Terzo controtenore in scena è Yuriy Mynenko, inappuntabile Vitige dalla sottile vena ironica mentre con il suo caldo registro il mezzosoprano Monika Jägerová disegna una sensuale e vivace Teodata. Il baritono Sreten Manojlović (Lotario) e il tenore Fabio Trümpy (Ugone) completano degnamente il cast. Alla guida del pregevole Concerto Köln Benjamin Bayl risponde con sensibilità alle intenzioni dell’autore con una lettura chiara e dettagliata ma sempre sensibile al dramma, soprattutto nel cogliere i momenti più drammatici dell’opera.

Dopo Carlo il Calvo di Porpora e Alessandro nell’Indie di Vinci, questo lavoro poco conosciuto di Händel ha portato Cenčić a essere l’indiscusso realizzatore di un repertorio glorioso che ancora tanti tesori cela nei suoi forzieri. Non mancheranno certo titoli nuovi da scoprire per le future edizioni di Bayreuth Baroque.

(1) Ecco la struttura dell’opera:
Ouverture
Atto primo
I.01 Ricordati, mio ben, duetto (Teodata, Vitige)
I.02 Quanto dolci, quanto care (Emilia)
I.03 Bel contento già gode quest’alma (Guido)
I.04 Benché povera donzella (Teodata)
I.05 Se a te vissi fedele, fedele ancor sarò (Lotario)
I.06 Di quel bel che m’innamora (Flavio)
I.07 Che bel contento sarebbe amore(Vitige)
I.08 L’armellin vita non cura (Guido)
I.09 Amante stravagante più del mio ben non v’è (Emilia)
Atto secondo
II.01 Fato tiranno e crudo, ogn’or a danni miei (Ugone)
II.02 S’egli ti chiede affetto (Lotario)
II.03 Parto, sì, ma non so poi (Emilia)
II.04 Rompo i lacci, e frango i dardi (Guido)
II.05 Chi può mirare e non amare (Flavio)
II.06 Con un vezzo, con un riso (Teodata)
II.07 Non credo instabile chi mi piagò (Vitige)
II.08 Ma chi punir desio? l’idolo del cor mio (Emilia)
Atto terzo
III.01 Da te parto, ma concedi che il mio duolo (Emilia)
III.02 Corrispondi a chi t’adora, arioso (Vitige)
III.03 Starvi a canto e non languire (Flavio)
III.04 Che colpa è la mia, se Amor vuol così? (Teodata)
III.05 Sirti, scogli, tempeste, procelle (Vitige)
III.06 Oh Guido! oh mio tiranno, recitativo (Emilia)
III.07 Squarciami il petto – Amor, nel mio penar deggio sperar, recitativo e aria (Guido)
III.08 Ti perdono, o caro bene, duetto (Emilia, Guido)
III.09 Doni pace ad ogni core, coro

Die Walküre

Richard Wagner, Die Walküre

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 6 febbraio 2024

★★★★☆

(video streaming)

Un mondo visivo di grande impatto per la Walküre di Castellucci

Seconda puntata wagneriana per Castellucci alla Monnaie. Dopo il prologo del Rheingold, la prima giornata del Ring cojnferma l’approccio originale del regista marchigiano, più apprezzato all’estero che in patria.

Se il Rheingold era finito con l’ascesa degli dèi al Valhalla, Die Walküre inizia con un mortale in lotta con gli elementi: contro un telo traslucido vediamo una figura umana sbattuta dalla tempesta per poi trovare rifugio nella tana del suo nemico. Sì, tana e non casa, nonostante la presenza di arredi semoventi (tra cui un frigorifero e un confessionale…) che schiacciano i personaggi: Castellucci sottolinea l’animalità dei protagonisti di questa sordida storia familiare portando sulla scena un cane, una dozzina di colombe bianche e otto sontuosi cavalli neri. Questi ultimi accompagnano sempre le sorelle di Brünnhilde, per lui le Valchirie sono a metà strada tra esseri divini e animali in divenire e non è senza significato che le Valchirie si presentino con un canto le cui parole non appartengono al linguaggio umano. Le colombe, bianche come Fricka vestita da sposa e come i suoi cloni, sono gli animali difensori del matrimonio, dei legami di sangue e dei principi inattaccabili della famiglia, ma man mano che il discorso della moglie di Wotan si indurisce e aumenta la sua influenza sul marito, le colombe, che molto ben addestrate si posavano sulla sua mano all’inizio, vengono catturate, strangolate e massacrate da Fricka. E infine, il cane, il cane di Hunding, un enorme cagnone nero, misterioso e minaccioso che appare all’inizio annusando dappertutto, un alter ego del padrone il quale inghiotte la sua zuppa come un animale la pappa nella sua ciotola e ne sputa metà. Quando Wotan manda Hunding all’inferno, vediamo il cane impiccato mentre cala il sipario sul secondo atto.

Come sempre le immagini scelte dal regista non sono mai senza significato, anche se talora si fa fatica a scoprirlo, come quando i due gemelli invece che dallo stesso recipiente, un corno che Sieglinde ha riempito di idromele, bevono da tubi trasparenti, forse i cordoni ombelicali della stessa madre? Coperti di sangue, come i corpicini di due neonati, termineranno poi assieme il primo atto. Sulla figura perdente di Wotan gettano una certa ombra le bandiere del suo seguito, ognuna con una lettera e formanti la parola IDIOT…

Nelle produzioni di Castellucci c’è la necessità di mostrare il corpo nella sua verità, anche se ciò significa nudità: in questo caso è il cumulo di cadaveri degli sfortunati eroi del Valhalla. Ma anche per Castellucci viene il momento in cui le immagini si devono mettere da parte: il toccante duetto padre-figlia avviene nel vuoto di una struttura luminosissima e nient’altro. L’unica immagine, nel silenzio dopo l’ultimo ondeggiante accordo, è quello di un cerchio di fuoco che riprende la figura dell’anello del Rheingold.

Questa seconda opera della Tetralogia è nel complesso meno convincente della prima e ciò è dovuto all’insieme vocale. Due sono i protagonisti presenti in autunno che tornano in scena ora. Il basso-baritono ungherese Gábor Bretz, giovane come il Wotan nella prima parte, conferma le qualità vocali consistenti in una gamma omogenea, una bella presenza scenica e un’efficace interpretazione che fanno apprezzare il suo monologo del secondo atto con belle mezze voci. Nel duetto finale con Brünnhilde è sembrato invece quasi esaurito dal peso di un ruolo titanico. Un altro ritorno è quello di Marie-Nicole Lemieux nel ruolo di Fricka, convincente per l’energia che dispiega dalle profondità della gamma alle sue vette e per la vivacità dei suoi interventi.

Il ruolo del titolo è interpretato dalla svedese Ingela Brimberg, una Brünnhilde travolgente che dimostra una resistenza incrollabile, in particolare nel finale dove surclassa il partner. Eccellenti sono anche le otto sorelle di Brünnhilde. Giustamente minaccioso il basso Ante Jerkunica, Hunding, mentre deludenti si sino rivelati i gemelli: né la Sieglinde di Nadja Stefanoff né il Siegmund di Peter Wedd hanno potuto competere con il resto del cast, trovandosi più volte in difficoltà. La partitura è resa con molta intelligenza da Alain Altinoglu che tiene alto il senso drammatico e porta l’orchestra in primo piano nei meravigliosi preludi.

La fanciulla del West

foto © Daniele Ratti – Teatro Regio Torino

Giacomo Puccini, La fanciulla del west

Teatro Regio, Torino, 23 marzo 2024

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

L’omaggio del Regio torinese a Puccini continua col suo western

«Il poema sinfonico di Puccini» lo aveva definito Arturo Toscanini che ne aveva diretto la prima a New York nel 1910. In effetti la musica dispiegata dal compositore ne La fanciulla del West è opulenta e sproporzionata rispetto alla vicenda narrata e si è talmente trasportati dalla musica e ammaliati dalla ricercata orchestrazione che quasi danno fastidio i banali interventi dei minatori che si lamentano del loro stato e piangono la mamma lontana.

Nella sua incessante volontà a «innovare lo stile», dopo Madama Butterfly Puccini aveva cercato nuove strade che lo avevano portato all’insolito progetto della Fanciulla e in seguito de La rondine, una “colonna sonora” la prima, un’“operetta” la seconda. Anche il successivo Trittico, se non sperimentale, era comunque qualcosa di mai affrontato prima. Quella della Fanciulla è una musica sontuosa che nel secondo atto non si fa scrupolo di ricordare la suspence della fucilazione nella Tosca, mentre nel terzo la perorazione di Minnie per il suo Dick sembra voler citare «N’est-ce plus ma main que cette main presse?» dell’“altra” Manon, quella di Massenet. Puccini era un musicista attento verso la cultura musicale della sua epoca, con Strauss e Debussy in prima linea, e nella Fanciulla questa apertura è ben evidente. Ma resta il problema di un lavoro che si stacca totalmente dagli altri per la mancanza dei sensuali sfoghi melodici a cui Puccini aveva abituato il suo pubblico. Per non dire del libretto di Carlo Zangarini rielaborato in seguito da Guelfo Civinini e con ingenui versi spezzati e goffe rime, non all’altezza di quelli di Adami, Forzano e soprattutto Illica & Giacosa.

Tra le meno apprezzate opere di Puccini, ogni volta spero che una nuova esecuzione mi faccia cambiare idea, ma neanche questa volta ciò è avvenuto. Non per la qualità dello spettacolo, ma perché ci vorrebbe qualcosa di veramente speciale per produrre il miracolo, cosa che non è avvenuta con questa produzione del Teatro Regio. La direzione di Francesco Ivan Ciampa esalta la superba orchestrazione e il tono drammatico della vicenda ma ne sottolinea anche il carattere di colonna sonora, con la musica sempre in primo piano e con i cantanti spesso coperti dagli strumenti, vuoi per la non perfetta acustica della sala e della scenografia, vuoi per la qualità delle voci. Il soprano americano Jennifer Rowley è quella che più risente del volume orchestrale con una voce di bel timbro ma di scarsa proiezione e con acuti talora problematici. Il Dick di Roberto Aronica è al contrario molto sonoro, sicuro negli acuti ma con una declamazione stentorea che nuoce al fascino del personaggio. Il baritono Gabriele Viviani connota con efficacia il carattere detestabile di Jack Rance mentre nel folto gruppo di comprimari si evidenziano per le indubbie qualità vocali e sceniche il Nick di Francesco Pittari e l’Ashby di Paolo Battaglia. Filippo Morace lascia i consueti ruoli comici del teatro napoletano per delineare il personaggio più umano di tutta la vicenda, Sonora. Completano il cast voci di esperienza e altre ormai consolidate uscite dalla scuola del Regio Ensemble: Gustavo Castillo (Wallace), Cristiano Olivieri (Trin), Eduardo Martínez (Sid), Alessio Verna (Bello e Harry), Enrico Maria Piazza (Joe), Giuseppe Esposito (Happy), Tyler Zimmerman (Larkens), Adriano Gramigni (José Castro) e Alejandro Escobar (Un postiglione). Ksenia Chubunova è Wowkle, il personaggio della squaw che con il suo linguaggio fatto di verbi all’infinito e Ugh! fa rizzare i capelli anche a chi poco sopporta il politically correct – e la regista ironicamente fa entrare in scena Billy inalberando il cartello «Native Lives Matter»!

Nel manifesto della prima al Metropolitan Opera House la “special performance – first time on any stage” di The Girl of the Golden West – dove Minnie era Emmy Destinn, Dick Enrico Caruso e il direttore d’orchestra Arturo Toscanini – sono indicati uno stage manager, un chorus master e un technical director, ma non la regia, come era la prassi del tempo. Ora invece i responsabili dell’allestimento hanno il loro giusto peso nell’economia dello spettacolo e i nomi di Valentina Carrasco (regista), Carles Berga e Peter van Praet (scene), Silvia Aymonino (costumi) e Peter van Praet (luci) sono elencati a pieno titolo assieme a quelli degli interpreti sul palcoscenico. La regista di Buenos Aires firma sempre i suoi spettacoli con un’idea forte e questa Fanciulla è presentata come la ripresa di un film western. Il saloon dove si rifocillano i minatori dopo il duro lavoro e la baracca di Minnie sono ambienti isolati nella nudità del palcoscenico trasformato in un set cinematografico dove compaiono macchine da presa, un regista e alcuni assistenti. L’idea non è tra le più originali – la stessa regista l’aveva utilizzata nella sua Tosca a Macerata – ma si giustifica per la fascinazione di Puccini per la nuova musa che in quegli anni sfornava innumerevoli pellicole sull’epopea della “corsa all’oro” nel West americano, anche se la Carrasco pensa agli “spaghetti western” e ai film di Sergio Leone piuttosto che alle lontane pellicole mute e in bianco e nero. Anche Robert Carsen nella sua produzione alla Scala aveva utilizzato una lettura cinematografica, ma con risultati più convincenti. Nello spettacolo della Carrasco su uno schermo che scende dall’alto sono proiettate le immagini che vengono riprese in tempo reale, talora per evidenziare i primi piani dei personaggi oppure per farci vivere la vicenda da una prospettiva diversa, come quella di Dick nascosto nella baracca di Minnie all’arrivo dello sceriffo Jack. L’espediente non è però utilizzato al meglio, l’utilizzo delle camere da presa non ha una sua chiara logica e gli interpreti del “film” si confondono con quelli della “realtà” dell’opera, come quando alla colletta per Larkens partecipa anche il regista o quando alla ricerca del bandito non partono solo i minatori armati di fucili ma anche i macchinisti con i loro martelli e in maniche di camicia sotto la neve… Nel secondo atto la trovata registica è meglio realizzata e risulta più efficace, con il suo gioco di interni-esterni e la nevicata con i fiocchi bianchi sparsi dall’alto e il grande ventilatore. Meglio ancora l’atto terzo quando ci mostra la coppia incamminarsi su una strada verso un futuro più sereno con la citazione del celeberrimo finale di Modern Times di Charlie Chaplin.

Sugli applausi finali scorrono i titoli di coda del film che abbiamo visto ripreso in diretta. E sono applausi calorosi per tutti.

Stagione Sinfonica RAI

Giacomo Puccini, Capriccio sinfonico per orchestra

Andante – Allegro vivace

Giacomo Puccini, Le Villi, Preludio e Tregenda

Giacomo Puccini, Messa a quattro voci (Messa di Gloria) per soli, coro e orchstra

I. Kyrie. Larghetto
II. Gloria. Allegro Manon troppo
III. Credo. Andante
IV. Sanctus. Andante
V. Agnus Dei. Andantino

Michele Gamba direttore, Giulio Pelligra tenore, Markus Werba baritono, Coro del Teatro Regio di Torino, Ulisse Trabacchin maestro del coro

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 20 marzo 2024

Il giovane Puccini

Anche l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI celebra in un concerto fuori abbonamento il centenario della scomparsa del compositore. In programma pagine sinfoniche e corali scritte negli anni che precedono il suo primo grande successo sulla scena, ossia quello della Manon Lescaut, 1° febbraio 1893 al Teatro Regio Torino.

E del Teatro Regio di oggi sono le masse corali impegnate in un lavoro che, nato da un Credo scritto nel 1878 dal ventenne studente dell’Istituto Musicale Giovanni Pacini di Lucca, era confluito in una ben più impegnativa pagina eseguita il 12 luglio 1880 come saggio finale. Una Messa di Gloria, come verrà poi impropriamente chiamata, per coro, due solisti e orchestra. Particolare la sua vicenda: dimenticata per settant’anni, ricomparve negli anni ’50 quando il sacerdote Dante Del Fiorentino venne in possesso di una vecchia copia manoscritta pensando trattarsi della partitura originale, ma questa era invece in possesso della famiglia di Puccini che l’aveva poi ceduta alla Casa Ricordi, casa editrice del musicista. La controversia legale che ne nacque si risolse alla fine con la divisione dei diritti d’autore fra la Ricordi e la Mills Music, la casa editrice del manoscritto di Del Fiorentino.

La Messa è un lavoro particolare in cui si mescolano il linguaggio dotto della polifonia e del contrappunto, in cui è indissolubilmente identificato il concetto di musica sacra, e quello allora corrente del melodramma, con le sue frasi trascinanti e una scrittura più semplice. Ripartita nella classica sequenza Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Agnus Dei, la partitura fa ricorso massicciamente al coro a quattro voci e limita a pochi interventi quelle maschili di un tenore e di un baritono. Parti del Kyrie furono utilizzate da Puccini stesso nel suo Edgar, mentre il tema dell’Agnus Dei si riconosce nel madrigale «Sulla vetta tu del monte | erri, o Clori» nel secondo atto della Manon Lescaut.

Di grandi dimensioni, originale nell’invenzione e ricca nella strumentazione, la pagina ha una sua opulenza che Michele Gamba ha saputo tenere a bada mettendo in luce la luminosità dei momenti corali da una parte e la complessità polifonica dall’altra, in questo grazie a un coro che si è adattato con agio agli aspetti teatrali del lavoro e alla duttilità che sappiamo essere una qualità della nostra orchestra. Limitata ma impegnativa la parte del tenore che entra con le sue ampie frasi melodiche e salti di registro nel “Gratias agimus” del Gloria e qui il tenore Giulio Pelligra, che ha sostituito l’inizialmente previsto Francesco Meli, ha fatto sfoggio del suo timbro luminoso mentre nel successivo “Et incarnatus” del Credo ha esibito un bel legato. Il baritono entra ancora più tardi, nel “Benedictus qui venit” del Sanctus e il pubblico torinese ha riconosciuto la voce del Papageno del 2017, del padre Uberto nell’Agnese del 2019, del conte Robinson nel Matrimonio segreto del 2020, insomma di Markus Werba, interprete dalla vocalità sicura ed elegante. Le due voci maschili si ritrovano insieme nell’Agnus Dei con cui si conclude, un po’ bruscamente in verità, questa interessante pagina pucciniana.

Nella prima parte del concerto, puramente strumentale, si sono sentite le musiche del Preludio e della Tregenda de Le Villi, l’opera di esordio del 1883 con cui Puccini riprendeva una leggenda simile a quella che Dvořák avrebbe messo in musica sette anni dopo con la sua Rusalka. Di poco prima è invece il Capriccio sinfonico composto durante gli anni di Conservatorio a Milano, la città in cui Boito propugnava la rinascita di una cultura strumentale dopo i fasti del melodramma. Il suo saggio ha una innegabile teatralità anche senza un programma: la struttura della pagina dimostra una abilità di strumentatore che ritroveremo nel suo teatro, per non dire della facilità melodica che ci fa riconoscere temi che nelle opere che verranno assumeranno un particolare significato. Così, grazie al Maestro Gamba il pubblico riconosce i temi che si riascolteranno nella Manon Lescaut e nell’inizio della Bohème, e ci si sente in un certo qual modo rassicurati.

Questo concerto ha permesso di gettare luce su un compositore che eccellerà nel melodramma ma che in questi tre diversi momenti – il sinfonismo nel Capriccio, il sacro nella Messa, l’esordio nell’opera – già si dimostra musicista di grande valore. Al Teatro Regio c’è ampia possibilità di gustarne i frutti operistici: ben sette sono i titoli Pucciniani in cartellone. Dopodomani La fanciulla del west.

Beatrice di Tenda

 

foto © Marcello Orselli

Vincenzo Bellini, Beatrice di Tenda

Genova, Teatro Carlo Felice, 17 marzo 2024

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Il penultimo Bellini a Genova, grandi voci ma regia non pervenuta

Con Beatrice di Tenda si arrestava il proficuo sodalizio di Bellini con il librettista Felice Romani. Per diverse ragioni si interrompeva infatti la collaborazione con chi gli aveva scritto Il pirata, La straniera, Zaira, I Capuleti e i Montecchi, La sonnambula e Norma, ossia tutte le opere dopo il 1826. L’opera successiva, I puritani, sarebbe stata versificata da Carlo Pepoli e una riconciliazione tra Bellini e Romani ci sarebbe forse stata se non fosse avvenuta prematuramente la morte del compositore catanese. 

La Beatrice di Tenda è dunque la sua penultima opera e quella che più si stacca dalle precedenti per la mancanza di grandi arie e cabalette, elemento che, nonostante la presenza della diva Giuditta Pasta, ne decretò l’incerto esito alla prima veneziana del marzo 1833 e la scarsa popolarità successiva. In tempi moderni si deve a Joan Sutherland il recupero di questo titolo negli anni ’60 del secolo scorso. La sua fu un’interpretazione quasi metafisica per astrazione e raffinata linea vocale, a cui si contrappose poco dopo quella più naturalistica e drammatica di Leyla Gencer. Ora a Genova il soprano americano Angela Meade sfoggia la sua prodigiosa proiezione vocale, la precisione delle agilità, i filati preziosi e il fraseggio accurato che abbiamo ammirato altre volte nella parte di questa figura angelicata, pura e martire trasfigurata nella pace celeste che l’attende. La voce però ha un filo di metallico e un vibrato che prima non c’erano e la presenza scenica rimane quella che è, così che il personaggio, già di per sé non trascinante dal punto di vista emozionale, diventa ancora meno empatico del solito.

Annunciato leggermente indisposto, Mattia Olivieri ha lasciato tutto il pubblico in attesa di qualche sintomo della sua non perfetta forma, ma inutilmente: il baritono emiliano ha stupito tutti con una performance da manuale per il timbro meravigliosamente morbido, il canto omogeneo su tutti i registri, l’accento e l’espressività. Quanta strada ha fatto dai ruoli leggeri e buffi di qualche tempo fa! Il suo Filippo Maria Visconti, che ricordiamo aveva vent’anni meno della moglie, un abisso incolmabile per quell’epoca, con la sua presenza scenica fa diventare il perfido personaggio se non accettabile nelle ragioni per cui fa condannare la donna, per lo meno più comprensibile e indubbiamente fascinoso.

Il personaggio certamente non eroico di Orombello trova in Francesco Demuro una linea di canto elegante e un timbro piacevole ma l’impervia tessitura porta il tenore sardo a sbiancare gli acuti, anche se in linea con l’estetica belliniana. Non sembrano molto belcantistici invece i suoni marcati nelle consonanti e l’eccessiva espressività di Carmela Remigio, una Agnese del Maino meglio recitata che cantata. Peculiare nella voce l’Anichino di Manuel Pierattelli, l’unico personaggio umano in questa corte spietata mentre anche Giuliano Petouchoff fornisce buona prova nel breve intervento di Rizzardo del Maino. Il coro, istruito da Claudio Marino Moretti, è un vero e proprio personaggio che commenta continuamente le azioni. Qui esibisce buona intonazione, precisione e duttilità. 

La musica di quest’opera è quasi un unicum nella produzione belliniana: il tono dominante è scuro, mancano come s’è detto pagine melodicamente orecchiabili, strette e cabalette trascinanti e le scene si susseguono senza spettacolari cambiamenti di colore. Insomma, la drammaturgia è sobria pur nella tragicità degli eventi. Il direttore Riccardo Minasi ha dato efficace risalto alle pagine drammatiche, un po’ meno a quelle liriche, ma ha saputo fornire il giusto respiro ai cantanti e dosare l’equilibrio sonoro tra buca e palcoscenico. Apprezzato anche l’aver presentato il lavoro quasi senza tagli.

Il regista Italo Nunziata ha scelto di ambientare la vicenda non nel 1418 né all’epoca di Bellini bensì, inspiegabilmente, a fine Ottocento con gli eleganti abiti femminili richiamanti nella ricchezza dei broccati elementi del Rinascimento, ma tutti uguali per le coriste, mentre coristi e personaggi maschili sono in abiti da sera, disegnati da Alessio Rosati. Nella scenografia di Emanuele Sinisi il castello di Binasco è uno spazio chiuso e oscuro delimitato da quinte e pannelli mobili che sembrano soffitti di cemento squarciati. Le grandi fotografie di particolari architettonici che appaiono in certi momenti sono un omaggio a Ola Kolehmainen (non Kolemhainen com’è scritto nel programma di sala), fotografo finlandese contemporaneo. Un vecchio dagherrotipo che appare quando Beatrice ricorda il defunto marito Facino Cane e una sbiadita foto della Corte Suprema americana quando si insediano i giudici sono ulteriori elementi di questa scenografia. Le luci fisse di Valerio Tiberi accentuano la claustrofobia dell’ambiente in cui è assente la luce naturale esterna.

La scarsa drammaturgia offerta dal libretto ha suggerito al regista una lettura rinunciataria e totalmente statica. Gli unici movimenti in scena sono quelli dei pannelli o del coro, quando metà entra da sinistra e l’altra metà da destra, si incrociano nel mezzo, c’è chi sale i tre gradini e chi li scende, i maschietti impettiti a dritta e le donne che fanno le belle statuine a manca. Una coreografia che si ripete stancamente per tutti gli atti. Ai cantanti non è offerto nessun appiglio per rendere più intensi i duetti e i concertati e l’inamovibilità della protagonista sembra contagiare quasi tutti i presenti in scena. Che poi dopo le indicibili torture subite sia Beatrice che Orombello si presentino senza un graffio e perfettamente pettinati e vestiti non stupisce più di tanto. Il recente criticato allestimento parigino di Peter Sellars al confronto aveva almeno offerto qualche motivo di interesse in più.

Si è comunque trattato di un allestimento lineare, senza “stranezze” che l’attempato pubblico della domenica pomeriggio del Carlo Felice ha salutato con molto calore e autentiche ovazioni per la Meade e l’Olivieri.

Lingotto Musica

 

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Wolfgang Amadeus Mozart, Concerto n° 24 in do minore per fortepiano e orchestra KV 491

I. Allegro
II. Larghetto
III. Allegretto

Wolfgang Amadeus Mozart, Requiem in re minore per soli, coro e orchestra KV 626

I. Introitus
II. Kyrie
III. Sequentia
IV. Offetorium
V. Sanctus
VI. Bendictus
VII. Agnus Sei
VIII. Communio

Teodor Currentzis direttore, Olga Paščenko fortepiano, Elizaveta Svešnikova soprano, Andrej Nemzer controtenore, Egor Semenkov tenore, Alexej Tikhomirov basso, orchestra e coro musicAeterna

Torino, Auditorium Lingotto, 16 marzo 2024

Il Requiem di Teodor Currentzis, dalle tenebre alla luce

Non sono mai di routine le esecuzioni di Teodor Currentzis, questo si sapeva. Anche l’impaginato è spesso solo un canovaccio su cui imbastire una serata che in questo appuntamento di Lingotto Musica si è rivelata memorabile. 

Il pezzo forte è il Requiem di Mozart, ma nella prima parte il programma prevede una pagina della maturità di Mozart, il Concerto n° 24 in do minore per piano e orchestra KV 491, il penultimo della felice serie composta a Vienna negli anni 1784-86 e che nella tonalità di do minore sembra voler riprendere la temperie romantica del KV 466, e come quello con un’orchestrazione comprendente trombe e timpani. Un concerto di cui Massimo Mila aveva sottolineato l’aspetto «”demoniaco” mozartiano, robusto e drammatico nell’Allegro, quasi romantico e schumanniano nel Larghetto». La scelta da parte della solista Olga Paščenko di un fortepiano – una copia di un hammerklavier del 1792 con diapason a 430 Hz – ha però fortemente smorzato l’aspetto espressivo: lo strumento è certamente simile a quello utilizzato da Mozart, ma il suo suono esile si è dimostrato inadatto alle dimensioni di un auditorium moderno di 1900 posti come quello della sala Giovanni Agnelli del Lingotto. Nonostante la trasparenza e leggerezza dell’orchestra (ma si poteva fare anche di più e soprattutto diminuirne le dimensioni), bastava il suono del flauto o del clarinetto a coprire le note dello strumento che emergeva praticamente solo nei momenti solistici. Insomma, l’effetto era quello straniante del suono di un pianoforte proveniente da un’altra stanza!

È quindi soprattutto nei fuori programma che si sono potute ammirare le qualità della pianista russa: nel Concerto in re maggiore per clavicembalo e orchestra d’archi di Dmitrij Bortnjanskij il tocco fluido e brillante; nel Rondò à l’ingharese [sic] in sol maggiore quasi un capriccio “Die Wut über den verlorene Groschen” (La collera per un soldino perduto) op. 129 di Ludwig van Beethoven la grande agilità e precisione in una pagina di impegnativo virtuosismo celato in un innocente “morceau d’esprit” insolitamente esteso – 449 battute – lasciato incompiuto dall’autore e probabilmente completato da Diabelli che lo pubblicò 32 anni dopo. Un esempio dell’umorismo beethoveniano e un pezzo ricco di ingegnose trovate ritmiche messe egregiamente in luce da Olga Paščenko.

Nella seconda parte della serata è dunque in programma il Requiem di Mozart, ma il direttore greco-russo lo fa precedere dalla Musica funebre massonica KV 477 (con l’inserzione però del coro) e da un Requiem gregoriano intonato da alcune delle voci maschili del coro nella quasi totale oscurità della sala. Dai toni rarefatti e dai silenzi di questa musica si innestano senza soluzione di continuità le dolenti note dei fagotti prima e dei corni di bassetto poi dell’ “Introitus”. Pianissimo, ma con crescente senso drammatico e con la luce che lentamente ritorna, si sviluppa con solennità il primo numero di una composizione stranota ma che ogni volta emoziona. Si tratta di un pezzo eseguito nelle grandi occasioni: nel 1840 a Les Invalides per il ritorno delle ceneri di Napoleone a Parigi; nel 1847 fu diretto da Wagner stesso a Dresda a beneficio delle vedove e degli orfani di guerra; nel 1849 alla chiesa della Madeleine per i funerali di Chopin. In pieno periodo di guerra i 150 anni della morte del compositore furono celebrati a Roma nella chiesa di Santa Maria degli Angeli proprio col suo Requiem. Era il dicembre 1941, sul podio c’era Victor de Sabata e i solisti erano Maria Caniglia, Ebe Stignani, Beniamino Gigli e Tancredi Pasero.

Teodor Currentzis ha eseguito numerose volta l’ultimo lavoro di Mozart e l’ha anche inciso per un CD Alpha-Classic con l’orchestra musicAeterna, ensemble da lui fondato nel 2004 con giovani musicisti provenienti da diversi paesi. Quella di Currentzis è una personalità umana e musicale che trascende la perizia tecnica e tale da farlo diventare il demiurgo di un’esperienza iniziatica per l’ascoltatore. La partitura viene rivelata in una nuova luce, in colori diversi dal solito, magari anche con qualche arbitrio nei tempi e nei volumi sonori, ma non importa. Quello che conta è l’emozione dell’impasto di suoni e silenzi, buio e luci, piani e forti, sussurri e grida di cui tutti i musicisti si sono resi protagonisti. Con Currentzis l’esecuzione musicale non è una riproposta filologica e cristallizzata, bensì un momento performativo in cui si afferma lo hic et nunc dell’interpretazione. Ecco allora le voci gravi nel “Tuba mirum” colpirti direttamente alle viscere, i contrasti tra voci femminili e maschili del “Confutatis” presentare una dimensione spaziale e teatrale inedita, così come i silenzi angosciosi del “Lacrimosa”. Currentzis non si preoccupa di sottolineare la cesura tra il Mozart vero e quello completato da Süßmayr e le riprese dei fugati qui perdono un po’ della scolasticità della scrittura dell’allievo.

Il tutto avviene grazie alla stupefacente eccellenza dell’orchestra e del coro del quale ogni intervento rimarrà a lungo nella memoria per la precisione e intonazione senza uguali, l’omogeneità e la qualità del suono, le sfumature di colore e l’espressività. Di alto livello anche i solisti, non conosciutissimi: Elizaveta Svešnikova soprano, Andrej Nemzer controtenore, Egor Semenkov tenore, provenienti dallo stesso coro, e Alexej Tikhomirov basso.

Dopo l’ultimo accordo del “Lux æterna” parte del pubblico non riesce a contenere l’applauso ma Currentzis rimane col braccio alzato, gli archi rimangono con l’archetto fermo sulle corde e il direttore ottiene così il silenzio, un lungo intervallo di silenzio prima che decida lui quando è finito veramente e la tensione accumulata si può allora sciogliere finalmente in un prolungato applauso, una vera standing ovation con interminabili chiamate mentre i componenti dell’orchestra si abbracciano l’un l’altro. Anche il pubblico vorrebbe salire e abbracciare uno a uno gli strumentisti e i cantanti dopo un’esperienza così intensa, misticamente laica o laicamente mistica se si vuole cercare di descrivere con un ossimoro l’esperienza vissuta. Poche serate ti rimangono così addosso. Questa è stata una di quelle. 

Stagione Sinfonica RAI

Dmitrij Šostakovič, Concerto n° 1 in mi bemolle maggiore per violoncello e orchestra op. 107

I. Allegretto
II. Moderato
III. Cadenza
IV: Allegro con moto

Sergej Prof’ev, Sinfonia n° 5 in si bemolle maggiore op. 100

I. Andante
II. Allegro marcato
III. Adagio
IV: Allegro giocoso

Han-Na Chang direttore, Misha Maisky violoncello

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 14 marzo 2024

Dmitrij Šostakovič è un autore ormai stabilmente entrato nei cartelloni delle recenti stagioni sinfoniche. Negli ultimi due anni l’Orchestra Nazionale RAI ha eseguito ben sei delle sue sinfonie: la Quarta, la Quinta, la Settima, l’Ottava, la Nona, e la Decima due volte! Ora tocca al Concerto n° 1 in mi bemolle maggiore con un solista di eccezione quale Misha Maisky che ritorna dopo il concerto di sette anni fa quando aveva eseguito il Concerto in si minore di Dvořák con James Conlon.

iI Concerto n° 1 fu scritto per un altro russo che era entrato in rotta di collisione col regime stalinista, Mstislav Rostropovič, che infatti negli anni ’70 si trasferì definitivamente in Occidente. Assieme alla Sinfonia concertante che Prokof’ev aveva scritto per il quindicenne violoncellista, il lavoro del suo ex-insegnante rimane una delle pagine tra le più importanti del Novecento e della musica per violoncello. Fu eseguito la prima volta nel 1959 a Leningrado sotto la direzione di Evgenij Mravinskij. Il tema del primo movimento si basa su una scrittografia musicale che incorpora le note re-mi bemolle-do-si, nella notazione inglese DSCH (S per Es) del nome e cognome del compositore. È un motivo di estrema incisività che viene sviluppato in un dialogo incessante tra solista e orchestra e che verrà anche citato nel finale. Il secondo movimento è un Moderato a cui i suoni della celesta danno un carattere sognante. Ai tre tempi classici Šostakovič ne aggiunge uno per lo strumento solo che intitola “Cadenza” che però non ha il carattere di divagazione virtuosistica spesso improvvisata che diamo normalmente al termine: qui si tratta piuttosto di una pagina introspettiva, un monologo meditativo che verso la fine si anima sfociando in un Allegro con moto breve e virtuosistico che si conclude bruscamente. L’interpretazione di Mischa Maisky rende magicamente giustizia alla notevole pagina con una lettura vibrante e trascinante di eccezionale precisione e con una nitidezza di suono che entusiasma il pubblico gratificato generosamente dal fuori programma concesso, il Prelúdio delle Bachianas brasileiras di Heitor Villa-Lobos eseguito assieme ai violoncelli dell’orchestra. Qui il cambio di atmosfera è radicale e gli spettatori rimangono affascinati dai suoni legati di questa pagina in bilico tra nostalgia e rigore.

Le notevoli doti di accompagnamento dell’orchestra diretta da Han-Na Chang, già evidenziate nel concerto, vengono ampiamente dimostrate nella Quinta Sinfonia di Prokof’ev, lavoro del 1945 diretto allora a Mosca dal compositore stesso con esito trionfale e festeggiato da un pubblico galvanizzato dall’annuncio prima del concerto della ritirata dell’esercito tedesco mentre i colpi a salve dei cannoni echeggiavano fuori della sala del Conservatorio. Questo era anche il ritorno alla grande, dopo quindici anni, al genere sinfonico, affrontato qui nella forma classica dei quattro tempi nella successione un po’ inconsueta andante-allegro-adagio-allegro. Anche Prokof’ev aveva avuto problemi con la censura staliniana, ma con questa sinfonia riprendeva il suo primato di maggior compositore russo. La vigorosissima esecuzione della coreana Han-Na Chang ha messo in luce la sicura scrittura di una pagina dove più evidenti sono i caratteri dello stile del musicista, il ritmo travolgente, i toni parodistici, la plasticità delle forme, la nitidezza dei colori strumentali, i momenti esplosivi di un’orchestra che suona al meglio delle sue possibilità e che sembra aver raggiunto un notevole feeling con la simpatica direttora, violoncellista lei stessa e allieva di Maisky, festeggiatissima dal pubblico.

Edipo re

foto © Andrea Macchia

Sofocle, Edipo re

regia di Andrea de Rosa

Torino, Teatro Astra, 13 marzo 2024

La luce che acceca

Sono ben tre gli Edipo re che si possono vedere in questi giorni: su RaiPlay lo splendido spettacolo di Carsen al Teatro Greco di Siracusa, al Teatro Elfo Puccini di Milano una intrigante riscrittura di Bruni/Frongia come “favola nera” e qui a Torino per il Teatro Piemonte Europa la messa in scena della tragedia sofoclea da parte del suo direttore, Andrea de Rosa, sopravvissuto al Ballo in maschera col Maestro Muti…

“Cecità” è il titolo della stagione del TPE e ovviamente non poteva mancare questo lavoro che fa del non vedere il punto focale. Tiresia è cieco ma “vede” la verità, Edipo non la vuole vedere e fino all’ultimo la respinge, non ammette di essere lui l’uccisore di suo padre, di essere colpevole di incesto per aver sposato sua madre, di aver portato la peste nella sua città. Solo davanti alla non più negabile evidenza sceglie di punirsi proprio dove ha mancato, trafiggendosi gli occhi con gli spilloni dell’abito della madre/sposa nel frattempo suicidatasi.

Questi terrificanti accadimenti non si svolgono sulla scena del Teatro Astra, in parte raccontati nella tragedia, sono ancora più indiretti in questo Edipo Re, un adattamento di Andrea de Rosa con la stringata traduzione di Fabrizio Sinis. Spettacolo che in meno di ottanta minuti fa rivivere la vicenda raccontata da Sofocle in una messa in scena quasi oratoriale consistente, un’installazione dove la luce è protagonista e lo spazio scenico di Daniele Spanò è inteso così da metterne in risalto le caratteristiche fisiche e simboliche. Proiettori distribuiti sul fondo di un emiciclo sono rivolti al centro dove è Edipo, pannelli dorati ne  diffondono la luce, altri trasparenti sono segnati da una linea di vernice bianca all’altezza degli occhi così da impedire la vista a coloro che non possono o non vogliono vedere la verità. I pannelli trasparenti fungono quasi da leggii a cui si appoggiano gli attori per recitare le loro battute. Luce e parola, l’altra protagonista su sfondo di immagini sonore, rumori, sussurri, grida, lamenti.

Sei soli attori – Marco Foschi è il tormentato Edipo, Frédérique Loliée è Giocasta, Roberto Latini dà voce a Tiresia e ai messaggeri, Fabio Pasquini è Creonte, Francesca Cutolo e Francesca della Monica il coro – per una rigorosa impresa teatrale salutata dagli applausi del pubblico colpito dalla sconvolgente modernità di un testo di 2500 anni fa.

I figli di Boris

Rubens Tedeschi, I figli di Boris

253 pagine, EDT, 1990

Boris ovviamente è il Boris Godunov in quanto vi si tratta dell'”Opera russa da Glinka a Šostakovič”, una storia complessa e ricca che si affianca a quella dell’opera francese e tedesca per quantità e qualità.

Il testo è strutturato in maniera molto semplice. Un primo capitolo riassume le vicende dell’opera in Russia a partire dal 1731 quando dopo la morte di Pietro il Grande, per il quale l’unica musica ammessa era quella dei canti liturgici e delle fanfare militari, alla corte dell’imperatrice Anna Ivanovna viene accolta una smilza compagnia d’opera – tre cantanti e alcuni attori – per presentare un repertorio di intermezzi buffi. Poco dopo Francesco Araja rivelerà ai russi l’opera seria con le sue composizioni e la moda dilagherà presto per tutto lo sterminato paese, soprattutto col repertorio italiano. La Russia di Elisabetta e di Caterina II diventa la mecca per i compositori più celebrati: Galuppi, Traetta, Paisiello, Salieri, Cimarosa… e l’opera italiana diviene il divertimento favorito dell’aristocrazia russa che, anche senza conoscere la lingua, riesce ad apprezzare le vicende storiche e mitologiche, sempre le stesse, che vengono intonate in differenti vesti musicali.

Bisogna arrivare all’Ottocento però perché sotto la spinta dell’orgoglio nazionale alimentato dalle vittorie sulle armate napoleoniche, nasca il desiderio di un “colore russo”. Da Glinka in poi si sviluppa la scuola nazionale russa e i nomi sono quelli che conosciamo, a cui Tedeschi dedica la gran parte del libro, ogni capitolo incentrato su un grande compositore: Glinka, Dargomyžškij, Musorgskij, Borodin, Rimskij-Korsakov, Čajkovskij, Prokof’ev, Šostakovič e Stravinskij dei quali analizza con acutezza e profondità le maggiori opere per il teatro.

Il limite del libro sta nella sua data: nel 1990 ancora non erano pienamente affermate le figure della musica russa di oggi che l’autore si limita a citare, e parliamo di Edison Denisov, Al’fred Šnitke e Sofija Gubaidulina. Manca quindi anche quello di Aleksandr Raskatov di cui recentemente è stato molto apprezzato Animal Farm.

Calibano

Calibano, l’Opera e il mondo

124 pagine, numero tre, marzo 2024

Salome, proibito

Contemporaneamente alla produzione della Salome di Richard Strauss dell’Opera di Roma nel disturbante allestimento di Barrie Kosky, esce il nuovo numero di Calibano dedicato al tema del proibito.

«Chi rompe un tabù crea uno scandalo, chi supera il confino del proibito viene marginalizzato. Da sempre però chi afferma la sua libertà a dispetto dell’appiattimento sulle norme, delle implicite censure, della ricerca di approvazione, suscita negli altri stupore ma anche ammirazione. Ce lo ricorda la figura di Salome, che rifiuta di sottomettersi al potere disciplinare», scrive Paolo Cairoli. «Certo superare il limite del proibito può essere pericoloso. La principessa di Giudea finisce schiacciata sotto gli scudi dei soldati del suo patrigno Erode. Ogni profanazione comporta un rischio, perché è la libertà stessa a essere rischiosa. […] Ma le grandi trasgressioni non conducono solo a una maggiore libertà personale o una piacevole pienezza vitale: agiscono come sfide in grado di rompere equilibri consolidati, portando trasformazioni sociali utili per costruire mondi più aperti e inclusivi».

Come sempre ricco di interessanti interventi, questo numero si segnala per gli scritti di Vera Gheno e Fabiana Giacometti rispettivamente sulle “Parole proibite” e sul “Fashion taboo” mentre Dominic Pettman indaga sulla presenza della figura di Salome sugli schermi, anche quelli degli smartphone. Sergio Trombetta invece scrive dei corpi non conformi nella danza. Il racconto è affidato questa volta a Carmen Barbieri, “Fuori fuoco”, mentre sulla censura nell’opera scrive argutamente Giuliani Danieli. Questo l’elenco dei nomi degli altri contributori: Andrea Peghinelli, Alberto Piccinini, Emanuele Senici, Chiara Adorisio, Claudio Strinati, Rossano Baronciani, Giuliano Danieli.

Come sempre le immagini sono una parte intrigante della rivista: con un programma di intelligenza artificiale Emilia Trevisani illustra i diversi scritti mentre la copertina è opera nientemeno che di Giulio Paolini.