Stagione Sinfonica RAI

foto © PiùLuce/OSN Rai

Dmitrij Šostakovič

Sinfonia n° 7 in Do maggiore op.60 “Leningrado” 

I. Allegretto
II. Moderato (poco Allegretto)
III. Adagio
IV. Allegro non troppo

Aziz Shokhakimov, direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 3 novembre 2022

«Una sinfonia per uccidere Hitler»

Il 22 giugno 1941 ha inizio l’Operazione Barbarossa, nome in codice per l’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania nazista. In quel tempo Dmitrij Šostakovič era in vacanza con la famiglia in una dacia a Komarov, una cinquantina di chilometri da Leningrado. La rapida avanzata della Wehrmacht minacciava la città natale del compositore il quale per tre volte vide rifiutata la sua offerta come volontario nell’Armata Rossa a causa della salute cagionevole. Verrà infine arruolato come addetto al controllo dagli incendi del tetto del Conservatorio. Un mese dopo inizia la scrittura della sua Settima Sinfonia, l’opera che diventerà la sua composizione più famosa e il simbolo della resistenza sovietica all’invasione nazista.

«Vi parlo dal fronte […] ieri mattina ho completato il secondo movimento della mia nuova composizione sinfonica» annuncia Šostakovič alla radio il 16 settembre. «Perché ve ne parlo? Lo faccio perché tutti dovrebbero sapere che, a dispetto della minaccia che pende sulla vita di Leningrado, nella nostra città le cose vanno come sempre, che ognuno di noi rimane al suo posto». Il giorno dopo suona i due movimenti davanti a dei colleghi e neanche un allarme aereo ne ferma l’esecuzione. In ottobre gli intellettuali e gli artisti vengono fatti evacuare da Leningrado e il compositore parte con moglie e figli per Mosca. L’8 ottobre un giornale moscovita riporta una sua dichiarazione: «Ho completato il primo movimento di questo lavoro il 3 settembre, il secondo il 15 settembre e il terzo il 29 settembre e ora sto finendo il quarto e ultimo: non avevo mai lavorato così velocemente prima d’ora». Una settimana dopo Dmitrij parte per gli Urali con la famiglia e il 27 dicembre termina la sinfonia che verrà eseguita a Kujbyšev il 5 marzo 1942 dai complessi del teatro Bol’šoj sfollati anche loro dalla capitale. Il successo di un’opera monumentale e patriottica fu immediato grazie anche a una successiva trasmissione radiofonica. In agosto vi fu un’esecuzione nella Leningrado assediata e ridotta alla fame nella Sala della Filarmonica con l’orchestra richiamata appositamente dal fronte.

Il compositore stesso descriverà il suo lavoro in questi termini: «L’esposizione del primo movimento parla del popolo che vive una vita pacifica e felice. Nello sviluppo del primo movimento la guerra irrompe improvvisamente nella vita pacifica: non voglio costruire un episodio naturalistico con tintinnare di sciabole, esplosioni e così via, cerco di comunicare l’impatto emotivo della guerra. La ricapitolazione è una marcia funebre, o piuttosto un Requiem per le vittime della guerra e dopo viene un episodio ancora più tragico, non so nemmeno come descrivere questa musica: forse essa esprime il dolore di una madre in pianto o perfino un dolore così profondo da rimanere senza lacrime. Nelle battute finali si sente un rombo in distanza: la guerra non è finita. Il secondo e il terzo movimento non hanno un programma definito, si tratta di una musica lirica incaricata di ridurre la tensione. C’è un po’ di umorismo, che ricorda lo scherzo del mio Quintetto [per pf e archi op. 57]. Il terzo movimento è un adagio patetico, il centro drammatico dell’intero lavoro». In origine i quattro movimenti avevano dei titoli programmatici, poi eliminati: La guerra; Il ricordo; Gli spazi sconfinati della patriaLa vittoria.

La partitura giunse in America come microfilm dopo un viaggio avventuroso e fu eseguita da Toscanini con l’orchestra della NBC a New York tre settimane prima dell’esecuzione di Leningrado. Nell’arco di un anno furono oltre sessanta negli Stati Uniti e sancirono dal punto di vista culturale l’alleanza militare tra USA e URSS. La Settima Sinfonia diede a Šostakovič la fama mondiale, ma in patria il musicista se la passava diversamente: i proventi vennero utilizzati per sfamare la famiglia e gli amici in un paese stremato dalla guerra.

Le forti implicazioni politiche hanno indubbiamente influenzato i giudizi su questo lavoro che ebbe enorme successo fin dall’inizio, anche se già allora si criticò la prolissità – gli oltre 70 minuti fanno di questa la più lunga delle sue sinfonie – dell’opera di un musicista che «ha avuto poco tempo per classificare e vagliare», come fu scritto su “The Times”. Dopo un declino nell’apprezzamento da parte della critica occidentale – che arrivò a definire la Settima uno strano e sgraziato ibrido di Mahler e Stravinskij e ad accusare il compositore di aver posto l’accento invece che sulla coerenza sinfonica sull’effetto delle immagini musicali considerate modelli di ingenuo realismo socialista – dagli anni ’80, anche in seguito alla pubblicazione della biografia di Solomon Volkov, il giudizio critico su Šostakovič e sulla sua sinfonia Leningrado ha riacquistato la stima che ora compete loro.

Nel primo movimento il compositore utilizza una forma di variazioni in crescendo simile a quella usata da Ravel per il suo Boléro, una pagina sinfonica di grande efficacia che è alla base dell’enorme successo di questa sinfonia. Ancora più che nel lavoro del musicista francese, le variazioni del tema, qui semplicissimo e basato su un motto di cinque note (una sola in più rispetto al tema della Quinta di Beethoven) vengono portate avanti ossessivamente sull’implacabile ritmo scandito dal tamburo rullante mentre a mano a mano entrano tutti gli strumenti in un processo di accumulo che sfocia in un momento parossistico. Il quarto movimento è quello in cui si sono concentrate le critiche maggiori: magniloquente, retorico, trionfalistico. Ma ad ascoltarlo ora sotto la direzione del giovane Azizi Shokhakimov ogni riserva si scioglie e la pagina si rivela per quella che è: la degna conclusione di un lavoro emotivo, drammatico, traboccante, come lo sono le altre sinfonie del compositore russo. Nella lettura del giovane direttore uzbeco – ha 34 anni ma ne dimostra la metà – la sinfonia perde la sua connotazione di musica a programma: non occorre immaginarsi i Panzer tedeschi che avanzano sul minaccioso ripetitivo tema (fa-sol-fa-do-do) per apprezzarne la straordinaria forza emotiva resa con grande chiarezza e senso delle dinamiche estreme. Shokhakimov riesce a governare con perizia il ribollente magma sonoro di questa pagina mantenendone intatta la forza d’urto a prescindere dalle contingenze che l’hanno fatta nascere. Il suo messaggio continua a essere valido più che mai anche oggi e l’ha capito il folto pubblico che ha tributato al direttore e all’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI insistiti e copiosi applausi.

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