Das Rheingold

Richard Wagner

Das Rheingold (L’oro del Reno)

★★★★☆

Berlino, Staatsoper unter den Linden, 29 ottobre 2022

(live streaming)

A Berlino avviato un Ring che si prevede storico

Berlino si conferma indiscussa capitale del teatro d’opera presentando coraggiosamente l’intero Ring wagneriano non in quattro stagioni successive, non in una stagione, non in un mese, ma nell’arco di una settimana! Tre interi cicli in ottobre e uno il prossimo aprile, già sold out. Una produzione che dal punto di vista scenografico è quanto di più impegnativo si possa immaginare, per non parlare del centinaio di artisti ingaggiati.

Doveva essere il culmine dei festeggiamenti per i suoi ottant’anni, ma per motivi di salute Daniel Barenboim ha dovuto rinunciare e al suo posto è arrivato un altro stimato maestro che a Bayreuth ha già diretto tutte e dieci le opere di Wagner ammesse nel canone della Festspielhaus, Christian Thielemann, il quale si è subito sentito a suo agio alla guida della Staatskapelle Berlin. Con tempi solennemente rilassati, un grande equilibrio delle dinamiche, minuziosa attenzione ai colori strumentali e rispetto delle voci in scena, questo suo approccio al prologo delle tre giornate fa prevedere che dopo il ciclo di Boulez/Chérau anche questo rimarrà nella storia dell’interpretazione del Ring.

Nel Rheingold Dmitrij Černjakov ci anticipa la visione unitaria che ha voluto dare all’intero ciclo, una lettura coerente con le altre sue produzioni e nello stesso tempo genialmente personale. Si tratta della saga di una famiglia in abiti moderni, qui negli idiomatici anni ’70 disegnati da Elena Zaytseva, un dramma multigenerazionale di lotta per il potere. Qui è anche in gioco il pericolo di giocare a fare il dio creatore e la coscienza dei limiti della conoscenza scientifica.

La natura è del tutto assente nella sua messa in scena: siamo infatti all’interno di un grande laboratorio, l’E.S.C.H.E. (Experimental Scientific Center for Human Evolution, ma Esche è anche il nome tedesco del frassino, la pianta nel cui tronco è infissa la spada di Wotan) e ne vediamo la mappa del terzo piano proiettata sul sipario. Durante il Preludio assistiamo a un video in cui un liquido iniettato nel cervello ce  ne mostra l’intricata struttura neuronale e il primo personaggio che vediamo è Alberich, osservato da scienziati, mentre è sottoposto a prove di stress che sfociano in violenza: dopo l’episodio con le “figlie del Reno”, qui scienziate in camice bianco che studiano le sue reazioni, il soggetto si strappa gli elettrodi dal capo, devasta il laboratorio e scappa con tabulati e apparecchiature elettroniche, l’“oro” che dà il potere. Vedremo poi scorrere davanti ai nostri occhi i vari ambienti, non solo in orizzontale, ma anche in verticale, di un impianto scenografico, quello di Černjakov stesso, che sfrutta le capacità tecnologiche del teatro affacciato sull’Unter den Linden.

Wotan è a capo di questo laboratorio che indaga la mente umana in cui viene manipolata la realtà. Come l’anello, che più che un oggetto fisico è l’idea della conoscenza come potere, la capacità magica di Alberich di scomparire o trasformarsi è nella mente del nano, è una sua illusione e i “nibelunghi” fingono di essere soggiogati così cole Loge e Wotan fingono di essere spaventati dal “drago”. La magia la ritroviamo invece nel finale, in forma di banali trucchi di prestigiatore di Donner, Froh e Wotan prima dell’ingresso nel Valhalla.

Černjakov avrà modo di sviluppare la psicologia dei personaggi nelle altre tre puntate della saga, ma qui sono già nettamente caratterizzati. Lo sono il Wotan di Michael Volle, l’Alberich di Johannes Martin Kränzle e il Fasolt di Mika Kares, tre baritoni diversi eppure tutti e tre eccellenti nella proiezione sonora e nella espressività. Lascia perplessa la scelta di affidare a Rolando Villazón la parte di Loge: pur nella vivacità della sua recitazione, le particolarità vocali del ruolo del dio del fuoco sono state affrontate e risolte “à la Villazón” e il pubblico ha dimostrato di non apprezzare la sua performance. Deficitaria anche quella vocale di Lauri Vasar (Donner), molto meglio il lirico Froh di Siyabonga Maqungo e il sofferto Mime di Stephan Rügamer. Di ottimo livello le voci femminili di Claudia Mahnke (Fricka), Anett Frisch (Freia) e Anna Kissjudit (Erda). Del Fafner di Peter Rose si potrà parlare più a ragion veduta nelle altre opere. Non devono guizzare in abiti da sirena le tre figlie del Reno: Evelin Novak (Woglinde), Natalia Skrycka (Wellgunde) e Anna Lapkovskaja (Flosshilde) si presentano in camice da scienziato e poi in abiti di tutti i giorni. Erda non scaturisce dalla Terra: entra da una porta e si siede con un bicchiere in mano per avvertire Wotan del pericolo e convincerlo a consegnare l’anello. L’arcobaleno del finale non è un miracoloso effetto della natura, ma un semplice nastro di seta abilmente svolto da Froh nella sua routine “magica”. Černjakov ha già messo molte idee in scena: basteranno le prossime quindici ore di musica a svelarcele?

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