Mese: agosto 2022

Astarto


   

foto @ Birgit Gufler

Giovanni Bononcini, Astarto

★★★★☆

Innsbruck, Landestheater, 27 agosto 2022

 Qui la versione italiana

Astarto de Bononcini, de Rome à Innsbruck via Londres

Le deuxième opéra du settecento repris par Alessandro de Marchi, le directeur musical des Innsbruck Festwochen der alten Musik  dans sa dernière année de fonction, permet une comparaison intéressante entre deux mises en scène aux visées différentes.

Avec le Silla de Carl Heinrich Graun, le metteur en scène Georg Quander avait choisi de confier la construction dramaturgique à la musique elle-même et à la complexité des interventions vocales, notamment au deuxième acte…

la suite sur premiereloge-opera.com

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Astarto


   

foto @ Birgit Gufler

Giovanni Bononcini, Astarto

★★★★☆

Innsbruck, Landestheater, 27 agosto 2022

bandiera francese.jpg  Ici la version française

Alle settimane di musica antica di Innsbruck un’opera di rara esecuzione diventa uno spassoso spettacolo

La seconda opera settecentesca ripescata dal direttore musicale delle Innsbrucker Festwochen der alten Musik – Alessandro de Marchi al suo ultimo anno di incarico – permette un interessante confronto sulle messe in scena delle opere del Settecento.

Con il Silla di Carl Heinrich Graun il regista Georg Quander aveva scelto di lasciare alla musica e alla complessità degli interventi vocali, soprattutto nel secondo atto, la costruzione della drammaturgia. In un certo senso l’ex sovrintendente della Staatsoper unter der Linden di Berlino aveva restituito con fedeltà l’intento serio del libretto di Federico II versificato in italiano dal Tagliazucchi, intervenendo con una regia molto sobria. Invece, con l’Astarto di Giovanni Bononcini, opera su libretto di Apostolo Zeno e Pietro Pariati presentato al Teatro Capranica di Roma nel gennaio 1715, Silvia Paoli fa della vicenda solo un pretesto per mettere in burla le solite sconclusionate avventure amorose di personaggi storici o di fantasia al limite del risibile delle opere settecentesche, parlando del nostro presente. (1)

L’ambientazione scelta dalla regista e realizzata tramite le efficaci scenografie di Eleonora de Leo e i costumi di Alessio Rosati, è un generico paese dittatoriale futuro ma che guarda agli anni ’60 del secolo scorso con tocchi di camp, soprattutto nel caso di Fenicio, contestatore con immagini di Che Guevara e Gandhi sulla parete, bandiera arcobaleno sulla tavola e travestimenti gay al momento giusto. Innumerevoli sono le gag e i particolari divertenti che animano questa “tetra dittatura”. Anche qui nel finale, come nel recente Farnace alla Fenice, la presa del potere di Elisa e Clearco (ora Astarto) significa un definitivo addio ad ogni velleità di libertà: a Venezia con la carneficina dei personaggi, qui a Innsbruck facendo tutti diventare  prigionieri in tuta arancione, unico tocco drammatico di una regia ironica e spiazzante che trova giustificazione tra l’altro anche dalla fluidità dei generi dei cantanti che si sono succeduti nelle varie produzioni: alla prima romana del 1715 tutti gli interpreti erano ovviamente maschili per le note prescrizioni papali, mentre alla ripresa di Londra del novembre 1720, col libretto rivisto da Paolo Rolli e la partitura adattata alle diverse tessiture delle voci e ai differenti stili vocali, sulle scene del King’s Theatre non solo i due personaggi femminili erano affidati a due cantanti donne – la mitica Margherita Durastanti (Elisa) e Maria Maddalena Salvasi (Sidonia) – ma anche il personaggio di Agenore era stato cantato da un soprano (Caterina Gallerati) mentre nella parte del titolo si era esibito il castrato Francesco Bernardi, il Senesino, qui al suo debutto londinese, il quale diventerà idolo delle folle e interprete tra i preferiti di Händel. Nella ripresa moderna di Innsbruck, nella versione di Londra, i generi dei ruoli sono ancora cambiati, con un predominio di cantanti donne in tutte le parti, anche quelle maschili, ad eccezione di Fenicio.

Rivale di Händel (1685-1759), di cui era quasi coevo, Giovanni Bononcini (Modena, 18 luglio 1670 – Vienna, 9 luglio 1747) non riuscì a eguagliare il collega di Halle nella facilità melodica e nella ricchezza armonica, ma neanche perpetuò lo stile napoletano allora in gran voga: il suo è un tratto personale ben evidente in questa sua opera consistente in una sinfonia e di una trentina di numeri chiusi distribuiti equamente in tre atti, tutte arie solistiche ad eccezione di tre duetti. Musicalmente il peso dei sei personaggi è nettamente squilibrato tra Sidonia, Agenore e Fenicio (che hanno ognuno a disposizione tre interventi) ed Elisa, Clearco e Nino (rispettivamente otto, nove e sei, tra arie solistiche e duetti).

Con Astarto Bononcini raggiunge il culmine della sua maturità artistica con la versione del 1720, più compatta di quella originale sia nella lunghezza dei recitativi sia nei numeri chiusi, qui ridotti, con la soppressione della parte di Geronzio e una più ricca strumentazione. Per di più qui la parte di Clearco beneficia di arie che nell’originale romano erano affidata ad altri personaggi. Per nulla insolito per i compositori dell’epoca è il riutilizzo di proprio materiale, e Bononcini non fa eccezione riproponendo pagine già scritte per altre opere presentate a Vienna, città in cui aveva lavorato per oltre tredici anni. «Quest’anno Astarto sarà rappresentato per la prima volta in Austria. Una partitura nata a Roma e perfezionata a Londra, ma concepita a Vienna in armonia con la tradizione e i costumi musicali del luogo. Come il suo compositore, Astarto è l’opera di un’anima cosmopolita e inquieta, ricca di stimoli e passioni umane», scrive Giovanni Andrea Sechi sul programma di sala riassumendo le caratteristiche di questo raro lavoro.

La ricostruzione di materiali dell’opera e dei recitativi, mancanti in questa versione, si deve a Stefano Montanari che imbracciando il violino dirige la Enea Barock Orchestra, una compagine di 27 musicisti che formano un ensemble dal suono pulito ma non del tutto esaltante nella ricchezza di colori. È l’entusiasmo del maestro Montanari a conferire smalto a una partitura che, complice anche la omogeneità dei registri quasi tutti femminili, non sembra offrire le gemme melodiche e strumentali del Silla di Graun, ma confida nella professionalità delle voci. Qui è la diversità degli “affetti” messi in campo dagli interpreti a costituire l’interesse per questo negletto lavoro.

Dara Savinova è Elisa, la regina di Tiro combattuta tra l’amore e il ruolo di neo-monarca. Il magnifico timbro e lo stile elegante della cantante riempiono la scena con grande sicurezza. Il suo non è tra i ruoli più ricchi di colorature, ma le agilità comunque presenti sono affrontate con sicurezza. Le sue arie sono spesso contrastate, con una sezione mossa, di furore («Sdegni tornate in petto | del mio tradito affetto | le ingiurie a vendicar») seguita da una più calma, riflessiva («Ma so che invan m’alletta | quest’alma alla vendetta | se poi non la sa far») in cui tradisce il suo lato più femminile, più umano. La parte di Clearco/Astarto trova in Francesca Ascioti un’interprete sensibile che più che sulle pirotecniche agilità punta sulla espressività nelle sue nove arie. Particolarmente convincente quella del terzo atto «Amante e sposa | sì gli sarai». La presenza di un controtenore avrebbe comunque reso più plausibile e musicalmente più vario il ruolo affidato originariamente a un grande castrato. Irresistibile sulla scena è la Sidonia di Theodora Raftis, vocalmente ineccepibile, che la regista trasforma in un personaggio delle commedie anni ’70 di John Waters con la sua parrucca uscita dal film Hairspray e gli outfit di Barbie. Autorevoli vocalmente il Nino di Paola Valentina Molinari, il personaggio più bistrattato nella vicenda, e l’Agenore di Ana Maria Labin, che nella ripresa della sua aria del secondo atto «Spero, ma sempre peno» si impenna in una gloriosa puntatura acuta. Unico maschio in un cast al femminile imperante è quella del basso Luigi de Donato che delinea in maniera efficace un Fenicio ironico o drammatico a seconda delle necessità e sempre preciso nelle agilità, così difficili da realizzare quando sono assegnate a una voce grave. Grande esperto in questo genere, ha confermato le qualità già ammirate altrove.

Il festival si è concluso come tutti gli anni con la esibizione dei finalisti del Concorso Cesti: da 159 partecipanti sono stati selezionati dieci giovani interpreti che hanno dimostrato tutti un buon livello di preparazione e maturo talento. Al primo posto si è classificato un ventiquattrenne tenore britannico – Laurence Kilsby, un nome da tenere a mente – che ha incantato il pubblico e convinto la giuria con la sua intensa interpretazione di «Deh ti piega | deh consenti» da La fida ninfa di Vivaldi, una delle opere in programma l’anno prossimo. Un motivo in più per ritornarci.

(1) Antefatto. Elisa, regina di Tiro, ha deciso di sposare Clearco, il suo amato eroe navale, per proteggerlo dalle macchinazioni di Astarto, il figlio di Abdastarto, il legittimo re che è stato deposto e ucciso da Sicheo, padre di Elisa. Anche se si crede che Astarto siamorto in fasce, c’è chi dice che sia ancora vivo. Infatti Astarto si nasconde nella persona di Clearco, salvato da bambino da Fenicio e cresciuto da lui come un figlio. Nessuno, a parte Fenicio, conosce l’identità segreta di Clearco, che si ritiene figlio di quest’ultimo.
Atto I. Elisa comunica ai grandi del regno, Agenore, Nino e Fenicio, il suo desiderio di sposare Clearco. Agenore, che vuole sposare Elisa, escogita un piano per impedire le nozze e disonorare Clearco. Agenore condivide i suoi pensieri con Nino, che a sua volta è innamorato di Sidonia, la sorella di Agenore. Sidonia, che finge di essere innamorata di Nino, è in realtà innamorata di Clearco e vuole anche impedire il suo matrimonio con Elisa. Clearco torna vittorioso dalla sua ultima missione militare e apprende da Fenicio che Elisa ha deciso di sposarlo. Fenicio ammonisce il figlio e lo esorta a non cedere alle lusinghe del tiranno. La regina ha letto un falso messaggio, in realtà scritto da Agenore, contenente un patto tra Clearco e Astarto per dividere il regno. Clearco viene accusato di tradimento e arrestato. Sidonia approfitta della debolezza di Clearco per avvicinarlo mentre sta scrivendo una lettera d’amore indirizzata a Elisa. Sidonia si offre di consegnare la lettera, alla quale manca il nome della destinataria. Dopo un’accesa discussione sul messaggio sbagliato, Elisa si convince della sincerità di Clearco, lo libera dalla prigionia e ribadisce il suo desiderio di sposarlo. Sidonia decide di usare la lettera di Clearco a suo vantaggio: la mostra a Elisa sostenendo di essere l’amante segreta di Clearco e che il contenuto della lettera era indirizzato a lei. Elisa si ritrova ancora una volta tradita.
Atto secondo. Fenicio sta preparando un complotto per rovesciare Elisa, mentre Clearco cerca di dissuaderlo. Clearco è combattuto tra l’amore per Elisa e quello per il padre. Assorto nei suoi pensieri, viene sorpreso da Elisa, che gli regala Sidonia accusa nuovamente Elisa di tradimento e gli ordina di non parlarle mai più. Sidonia informa Agenore di essere riuscita a oltraggiare Elisa. Quando lei arriva, i due insistono affinché Clearco scopra la cospirazione e insinuano che lui ne sia l’artefice. Nino arriva e informa la regina che il palazzo è attaccato dai suoi nemici, guidati da Fenicio. Clearco accetta di combattere contro il padre. Elisa preferisce affidare la guida dell’esercito ad Agenore, al quale promette la sua mano e il regno. Disperato, Clearco si dichiara ancora una volta innocente. Elisa sta per credergli, ma Nino e Sidonia la convincono a imprigionare nuovamente Clearco. Rimasta sola, Sidonia chiede un giuramento a Nino, che accetta stupidamente di prestarlo. Gli rivela di essere l’amante di Clearco e gli ordina di assecondare i suoi piani e di non rivelarlo a nessuno. Nino si sente perso, combattuto tra la promessa fatta e la gelosia. Fenicio viene portato davanti a Elisa, che lo interroga davanti a Clearco. Elisa minaccia padre e figlio di morte se non le diranno dove si trova Astarto e li lascia soli per qualche istante. Clearco chiede a suo padre di rivelare dove si trova Astarto e Astarto gli rivela la sua vera identità: Clearco è in realtà Astarto, l’erede al trono. Quando Elisa torna, Clearco la blocca e le dice che le rivelerà il segreto solo in privato.
Atto terzo. Elisa è sorpresa di trovare Sidonia e Nino negli appartamenti reali e li affronta. Sidonia coglie l’occasione per confessare a gran voce il suo amore a Nino. Nino, minacciato da Sidonia ricambia il suo amore. Clearco arriva e conferma di sapere dove si trova Astarto, ma lo consegnerà alla regina solo a una condizione: che rinunci al matrimonio con Clearco e sposi invece Astarto. Piena di rabbia, Elisa fa aspettare Clearco e ordina a Nino di uccidere chiunque si avvicini in compagnia dell’ammiraglio. Nel frattempo, Fenicio si è liberato dalla prigionia e sta preparando un nuovo attacco al palazzo con i cospiratori. Clearco incontra Agenore e lo informa che Astarto sposerà Elisa in modo che non ci sia più rivalità tra loro. Lo convince a recarsi dalla regina per poter vedere Astarto con i suoi occhi. Agenore vede che i suoi piani sono definitivamente falliti. Nino torna nella sala del re e comunica a Elisa di aver eseguito l’ordine. Fenicio arriva alla testa dei cospiratori. Elisa gli annuncia con soddisfazione che Astarto è morto. Fenicio, sconvolto dalla notizia, rivela la vera identità di Clearco: se Astarto è morto, Clearco è morto. Fenicio vuole uccidere Elisa, ma viene fermato da Clearco. Tra lo stupore di tutti, Clearco perdona tutti e ristabilisce l’unità tra i presenti.

Orpheus

Alexey Kondakov, 2015

Georg Philipp Telemann, Orpheus 

Bruxelles, Palais des Beaux-Arts, 16 maggio 2017

(registrazione video)

L’Orfeo di Telemann vittima della regina di Tracia

Nessuna storia ha ispirato i compositori quanto la tragica vicenda di Orfeo e della sua Euridice e tutti hanno accettato la sfida di scrivere per il loro sfortunato predecessore una musica che avrebbe sconvolto persino gli dèi. Questo è stato anche il caso di Georg Philipp Telemann il cui Orfeo – riscoperto nel 1978 – combina il famoso mito con una trama originale che evoca Orasia, una regina gelosa innamorata di Orfeo che provoca la morte di Euridice, fa uccidere Orfeo dalle Baccanti e alla fine si uccide sopraffatta dal senso di colpa. Il libretto in tedesco, di anonimo, si basa sull’Orphée di Michel Duboullay messo in musica nel 1690 da Louis Lully, il maggiore dei figli di Jean-Baptiste Lully.

Pur nella convenzionalità della forma a numeri chiusi e la pletora di personaggi secondari tipiche dell’opera del primo Settecento, ci sono nel lavoro di Telemann, oltre a un prezioso trattamento strumentale, momenti di grande pathos come quello della morte di Euridice o di efficace teatralità come l’ingresso di Plutone, ma un abisso di gusto musicale separa questo di Telemann dall’Orfeo di Gluck di 36 anni dopo.

Atto primo. La regina Orasia di Tracia è innamorata di Orfeo, ma lui la respinge a favore di Euridice. La regina trama per uccidere Euridice mentre raccoglie fiori in un giardino. Orfeo dice al suo amico Eurimedes che è stanco della vita alla corte e fugge in campagna. Euridice viene morsa da un serpente e muore tra le braccia di Orfeo.
Atto secondo. Orfeo scende negli inferi per salvare Euridice. Incanta il re degli inferi, Plutone, con la sua musica. Il dio gli permette di tornare con Euridice a condizione che non la guardi fino a quando non avranno raggiunto di nuovo la terra dei vivi. Orfeo fallisce in questo compito ed Euridice è perduta per lui.
Atto terzo. Orasia crede che, senza Euridice, Orfeo la amerà. Ma l’addolorato Orfeo rifiuta le sue avances. Orasia è furiosa e giura vendetta. Esorta i seguaci di Bacco a uccidere Orfeo. Orasia si pente di ciò che ha fatto quando vede la visione di Orfeo morto che si ricongiunge con Euridice. Disperata, si uccide.

Quasi trecento anni dopo la prima esecuzione in forma di concerto (Amburgo, 9 marzo 1726), Die wunderbare Beständigkeit der Liebe oder Orpheus (Orfeo o la meravigliosa costanza dell’amore), l’opera in tre atti di Telemann viene ripresa in forma semi-scenica da Guy Joosten al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles (per gli autoctoni semplicemente Bozart…) nell’ambito del progetto di diploma dell’Accademia Internazionale dell’Opera, con una serie di giovani talenti.

Alcune arie sono in italiano e francese in questa produzione di Apotheosis, un collettivo vocale-strumentale di musicisti storicamente informati, guidato dal clavicembalista-conduttore Korneel Bernolet: «Apotheosis nasce come collettivo dinamico su strumenti d’epoca, che esplora un repertorio che va dalla musica da camera, con solisti vocali diretti dal clavicembalo o dal pianoforte (Ensemble Apotheosis), a una formazione barocca più ampia o a un’orchestra sinfonica a grandezza naturale (Apotheosis Orchestra). L’obiettivo è ricreare la musica dall’epoca barocca a quella romantica con tutto il rispetto e la conoscenza della prassi esecutiva storica, cercando di rendere le interpretazioni il più possibile fresche e immediate per il pubblico di oggi. Il punto di partenza dell’approccio non è la mera ricerca musicologica, ma piuttosto la sperimentazione musicale senza fronzoli».

È sempre un piacere vedere una rappresentazione non professionale che oltre a far conoscere dei nuovi cantanti fa ascoltare rarità dimenticate che i grandi teatri d’opera sono sempre troppo cauti a mettere in cartellone. Il problema delle voci nuove è che, sebbene ci sia già un buon livello di professionalità, l’inesperienza o il nervosismo possono spiegare un approccio troppo cauto, a volte una proiezione debole o note non focalizzate oltre a una certa mancanza di colori in una musica che in Telemann è invece ricca di colori. Alcune voci (come quelle di Euridice e Orfeo, Julie Gebhart e Artur Rozek o di Plutone, Dominic Craemer) hanno comunque un bel potenziale e Korneel Bernolet nella sua concertazione mantiene leggerezza e fluidità, dirige con i tempi giusti ed è attento al sostegno dei cantanti. Sua è anche la realizzazione del basso continuo al clavicembalo per accompagnare i recitativi.

Efficace anche se con i tic delle regie moderne ad ogni costo – come l’uomo delle pulizie transgender, qui il controtenore Boris Kondov, Ascalax il servo di Plutone – la mise-en-espace di Guy Joosten è ambientata nella contemporaneità, dove l’Ade è un party in quello che sembra un ufficio e il divieto di Orfeo a guardare l’amata inizia come un gioco a mosca cieca.

La registrazione dell’evento è disponibile su youtube.

Ernani

 

Giuseppe Verdi, Ernani

★★★

Roma, 3 giugno 2022

(video streaming)

L’Ernani riproposto a Roma denuncia ben più degli anni che ha

È una capsula del tempo questa produzione di Hugo de Ana dell’Ernani che aveva inaugurato la stagione lirica romana nel 2013: regia, scene e costumi sembrano risalire non a nove anni fa, ma a un passato assai più remoto. Le incombenti scenografie – un richiamo alla facciata del palazzo di Carlo V a Granada col suo forte bugnato e le colonne – invece che tridimensionali potrebbero essere dipinte e non cambierebbe molto dell’efficacia drammatica, mentre così costringono a una scena unica. I pesanti arredi e i sontuosi costumi d’epoca connotano i personaggi ma sembrano inutilmente ingombranti e costosi: i bordi di pelliccia, i broccati e i ricami dell’ultima/o corista vanno del tutto persi nella affollata visione d’insieme. Le interazioni fra i personaggi sono prevedibili con il tenore che si piazza a gambe larghe al proscenio e il soprano che risponde alla descrizione di una cantante d’epoca con le forme abbondantemente generose e che solo un’altrettanto abbondante dose di suspension of disbelief può far passare per «aragonese vergine» giovinetta di cui tutti cadono innamorati cotti.

Vero è che la drammaturgia dell’Ernani di Francesco Maria Piave poco si presta a una lettura teatralmente contemporanea della vicenda, ma c’è un momento quasi da pochade in questo lavoro che un regista un po’ più disinibito avrebbe potuto sfruttare in modo intrigante: una donna è concupita da due diversi pretendenti e viene scoperta nel mezzo della notte e nelle stanze più intime del suo castello dal terzo pretendente, quello che conta di sposarla il giorno dopo. Il tenore (amato dalla donna), il baritono (qui addirittura il monarca) e il basso (il terzo e vecchio intruso) si affrontano e quest’ultimo crede di risolvere con le armi la questione prima di scoprire di avere di fronte a sé il proprio re. Poi la faccenda si sviluppa tra perdoni che hanno secondi fini, finte rese, scoppi d’ira e gelosie presto sedati, repentini cambiamenti di alleanze, patti sciagurati e congiure. Eppure Ernani aveva rappresentato un lavoro sperimentale per il Verdi 32enne qui alla sua quinta opera, presentata alla Fenice dopo le quattro alla Scala. Il compositore sembra voler superare il sistema della forma a numeri chiusi per dar vita a un teatro vivo e romanticizzato. Ecco allora la scoperta del ruolo archetipo del baritono o l’utilizzo dei terzetti per le strette in cui concentrare la tensione drammatica dopo lo slancio lirico degli incisi melodici.

Nove anni fa alla guida dell’orchestra del teatro c’era Riccardo Muti, ora è la volta di Marco Armiliato che dà buona prova realizzando una lettura quasi completa della partitura – manca la cabaletta della cavatina di Silva «Infin che un brando vindice» che Verdi non aveva potuto utilizzare a Venezia per la modestia del “basso comprimario” a disposizione – e con le riprese delle arie, che però talora mettono in difficoltà il tenore. I momenti migliori sono nelle impennate dinamiche degli ensemble finali e nel sostegno delle voci, anche se alcune, tenore e basso, risultano spesso sopraffatte dall’orchestra.

L’unico a ritornare nei panni titolari dopo il 2013 è Francesco Meli di cui si ammirano il colore e le intenzioni interpretative, anche se ora la voce manca a tratti di fermezza e gli acuti risultano sforzati. Per di più il suo è il personaggio a cui la regia ha reso il peggior servizio, sempre con la mano sulla spada anche nelle dichiarazioni d’amore. Non gioca poi a suo favore il confronto con il volume vocale dei colleghi Angela Meade (Elvira) e Ludovic Tézier (Carlo). Il soprano americano non mostra alcuna difficoltà a padroneggiare le insidie vocali del ruolo anche se dal punto di vista interpretativo non esibisce un fraseggio né una recitazione particolarmente coinvolgenti: resta il mirabile controllo della sua enorme voce, ma manca l’emozione. Tézier è invece il miglior Carlo disponibile, con un mezzo vocale altrettanto potente e controllato, ma con in più uno scavo sul personaggio che lo porta a ricevere il più caloroso applauso a scena aperta dopo il suo meraviglioso «O de’ verd’anni miei». Evgenij Stavinskij è un Don Ruy Gomez de Silva di non enorme voce ma elegante, autorevole ed espressivo. Bene i comprimari, usciti dalla Fabbrica-Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma: la Giovanna di Marianna Mappa, lo Jago di Alessandro Della Morte e il valido Rodrigo Ortiz, Don Riccardo.

Statico e impacciato scenicamente, non si può dire che compattezza e precisione siano le maggiori qualità vocali del coro dell’Opera di Roma istruito da Roberto Gabbiani, come si è sentito nell’iconico «Si ridesti il leon di Castiglia» reso con una certa fiacchezza. Definiti giustamente “movimenti mimici” gli strani gesti dei ballerini di Michele Cosentino.

  

Turandot

   

Giacomo Puccini, Turandot

★★★☆☆

Ginevra, Grand Théâtre, 22 giugno 2022

(video streaming)

Turandot, femmina castratrice

Ho scoperto (santa ingenuità!) che il finale di Turandot è scelto dal regista, non dal maestro concertatore, ma questa volta sono d’accordo con Daniel Kramer: «Il finale di Alfano è Disney, saccarina, non mi interessa. Non credo che Turandot si sciolga in cinque secondi e “vissero felici e contenti” in un regno macchiato di sangue». Ecco quindi che il regista americano opta per il finale di Berio, molto più adatto alla sua lettura in un mondo distopico con il rituale degli enigmi che diventa un gioco alla Hunger Game in cui uomini cercano di risolvere tre indovinelli e se vincono hanno la principessa, il regno, tutto quanto, me se perdono… beh lo sappiamo, anche se qui non è la testa che viene mozzata, bensì gli attributi virili, ai quali hanno già rinunciato i tre ministri e il mandarino, qui eunuchi, ma non gli energumeni a torso nudo che infestano questa società in cui il popolo è in alto dietro un velino bianco e solo alla fine viene liberato, dopo che i tre si sono accoltellati vicendevolmente e anche gli uomini cattivi sono stati fatti fuori. Per Calaf i tre enigmi formano una specie di viaggio personale dove incoraggiamenti e ostacoli si alternano per fargli conquistare la principessa: lui non è ancora pronto per lei, esattamente come Turandot non è pronta per Calaf.

La regia di Kramer è molto complessa e attenta ai risvolti psicologici e ai rapporti interpersonali: molto tesi quelli tra Calaf e il padre Timur, il quale alla fine lo addita come colpevole della morte di Liù e si trafigge lui stesso, o tra Turandot e Calaf dopo la vittoria di quest’utimo, con lui che guarda con compassione lo smarrimento della donna. Con il finale di Berio diventa drammaturgicamente più accettabile la conversione della principessa di gelo e il loro vivere in pace dopo tanto spargimento di sangue.

La scenografia del Team Lab – un collettivo artistico internazionale, un gruppo interdisciplinare di vari specialisti (artisti, programmatori, ingegneri, animatori di computer grafica, matematici e architetti) la cui pratica collaborativa cerca di navigare alla confluenza di arte, scienza, tecnologia e mondo naturale – restituisce a Turandot quella spettacolarità spesso predominante nelle produzioni dell’ultima opera di Puccini. Qui è coniugata tecnologicamente con raggi laser, luci colorate e proiezioni psichideliche di onde, nuvole e fiori ipercolorati secondo il dominante gusto giapponese. Sulla solita piattaforma rotante una struttura triangolare divisa in scomparti serve vari ambienti mentre in alto un geode cavo dorato serve all’apparizione di Turandot: ad ogni risposta esatta si abbassa e alla fine la donna è costretta a scendere e spogliarsi del manto dorato, uno dei tanti fantasiosi costumi disegnati da Kimie Nakano – tra cui quello di giada di Calaf.

La magnificenza visuale ha un corrispettivi sonoro nella concertazione di Antonino Fogliani alla guida della Orchestre de la Suisse Romande, che esalta la magnificenza strumentale dell’opera con tempi sostenuti e gusto dei particolari. Fogliani riesce a rendere meno evidente la cesura stilistica fra la musica di Puccini e il completamento di Berio: qui le lunghe frasi liriche lasciano posto a un’orchestrazione più frammentata che lascia emergere citazioni tematiche da un pulviscolo sonoro di grande modernità mentre il pathos è ora affidato da Berio a lunghe pagine strumentali. Dopo un avvio un po’ incerto il coro, formato dall’unione di quello del teatro e della Maîtrise du Conservatoire populaire, raggiunge ottimi livelli, aiutato dal fatto di cantare compatto e praticamente fuori scena. Meno esaltante il cast dei solisti con Ingela Brimberg autorevole protagonista titolare ma con acuti talora sforzati e non a suo agio nei salti di registro dei suoi primi interventi, un po’ meglio nel finale. Il Calaf di Teodor Ilincăi è il ruolo meno convincente, nonostante la sicura presenza scenica del tenore rumeno che evidenzia un timbro un po’ ingolato, una certa mancanza di colori risolti tutti in forte e mezzo-forte e incertezze di intonazione. Anche la Liù di Francesca Dotto difetta nei piani, ma il temperamento del soprano compensa largamente nel definire il tono lirico del personaggio. I tre ministri hanno in Simone Del Savio (Ping), Sam Furness (Pang) e Julien Henric (Pong) tre interpreti efficaci, soprattutto vocalmente Del Savio, divertenti e divertiti visto quello che richiede loro il regista. A loro modo importanti anche le tre parti minori di Altoum, a cui dà personalità la figura di Chris Merritt, del Timur di Liang Li e del Mandarino a cui Michael Mofidian presta inusuale rilievo scenico e inusuale potenza vocale.

Béatrice et Bénédict

  

Hector Berlioz, Béatrice et Bénédict

★★★★☆

Lyon, Opéra Nouvel, 15 dicembre 2020

(registrazione video)

La lettura concettuale di Michieletto compensa l’assenza di drammaturgia dell’ultima opera di Berlioz

Nel 1600 dagli editori Andrew Wise e William Aspley viene stampato l‘in quarto di Much Ado about Nothing (Molto rumore per nulla) di William Shakespeare, una tragicommedia in cinque atti in cui si tessono inganni attorno a due coppie amorose (Hero e Claudio, Beatrice e Benedick) e una folla di altri personaggi.

Berlioz nel 1862 rappresenta su libretto proprio la sua versione depurata di molti personaggi, Béatrice et Bénédict, un’opéra-comique in due atti. Del testo scespiriano mantiene solo la vicenda amorosa tra i personaggi del titolo e inventa tutto il resto, eliminando l’elemento drammatico del personaggio di Don Juan, il fratello di Don Pedro, che come Jago in Otello, trama contro una coppia, qui quella di Claudio e Hero. La composizione della musica era avvenuta dopo Les Troyens, in un periodo difficile per Berlioz, periodo che sarebbe culminato con la morte della seconda moglie Marie.

All’Opéra di Lione nel 2020 viene avviata la quarta produzione scenica di Béatrice et Bénédict in questo teatro, affidata ora a Daniele Rustioni per la direzione musicale e per la messa in scena a Damiano Michieletto. Previsto nel cartellone per il mese di dicembre, lo spettacolo fu cancellato a causa della recrudescenza dei contagi da Covid-19, ma una registrazione video è stata realizzata da Antenne 3 ed è disponibile su operaonvideo.com.

Due storie, due modi di vivere l’amore. Uno (quello di Hero e Claudio), più defilato, segue le convenzioni sociali; l’altro (Béatrice e Bénédict) è la forza dell’istinto. Berlioz «più che sulla narrazione si concentra sul lato sentimentale. Io ho approfondito il parallelo tra la coppia che rappresenta l’amore più domestico, le nozze come nido, e quello istintivo tra Béatrice et Bénédict, che in un giardino-foresta senza giudizi né peccato si ritrovano con Adamo ed Eva, i loro alter ego che entrano nudi. E lottano contro la società che vorrebbe soffocarli e ingabbiarli», dice il regista che realizza visivamente la sua idea «con una scatola bianca che si riempie di segni: farfalle meccaniche, col loro senso di libertà, che però vengono catturate e messe in una teca; uno scimpanzé, che ha dentro un mimo, costruito con calco realistico, a simboleggiare il lato primordiale di Bénédict» e, appunto, un Adamo ed Eva nudi che sono costretti a vestirsi e anche loro finiranno in due teche di cristallo.

Somarone, il personaggio inventato di sana pianta da Berlioz, è un cinico che distrugge l’Eden e gira con un registratore per captare i discorsi dei personaggi, che recitano i loro dialoghi parlati al proscenio davanti a dei microfoni, uno spazio nero che contrasta col bianco abbagliante della scatola che si apre dietro e su cui viene effettuato un esperimento sull’amore che ruota attorno alla coppia Béatrice e Bénédict. Nonostante la loro posizione contraria al matrimonio, alla fine si impegneranno l’uno con l’altra dopo un viaggio in cui scoprono i loro veri sentimenti. Nella quasi totale mancanza di drammaturgia del lavoro, Michieletto e il suo team creano una lettura concettuale e visionaria realizzando uno spettacolo che ha il ritmo della musica di Berlioz e incanta visivamente lo spettatore. Come sempre geniale la scenografia ideata da Paolo Fantin in cui il cubo bianco si divide a metà per mostrare un paradiso terrestre montato su una rete che alzandosi lo distruggerà e lo trasformerà in una gabbia.

Molto precisi i movimenti degli attori-cantanti e curata la recitazione in cui vengono impegnati interpreti di eccellenza sia attoriale che vocale: Julien Behr è un Bénédict di bellissimo timbro ed elegante fraseggio; Michèle Losier come Béatrice dimostra ancora una volta la sua statura di interprete autorevole ed espressiva; Hélène Guilmette è una Héro sensibile e bella; Thomas Dolié un efficace Claudio. Eve-Maud Hubeaux (Ursule) e Frédéric Caton (Don Pedro) completano la distribuzione vocale. Daniele Rustioni coglie le qualità di quest’ultima partitura in cui Berlioz riesce sempre a sorprendere per l’originalità delle melodie e del trattamento strumentale.

Turandot

 

Foto © Ennevi

Puccini, Turandot

Vérone, Arena, 7 août 2022

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À Vérone, la Turandot de notre imaginaire collectif

La première saison d’opéra aux arènes de Vérone eut lieu en 1856 – entre autres, deux œuvres de Gaetano Donizetti y ont été présentées : Le convenienze teatraliet I pazzi per progetto – mais l’amphithéâtre romain continua d’accueillir des spectacles de cirque, de pyrotechnie, des fêtes, des manèges militaires… Ce n’est qu’en 1913 que le monument véronais devint le plus grand opéra en plein air du monde, avec une mise en scène d’Aïda de Giuseppe Verdi, un événement qui marqua également la naissance d’un nouveau style scénographique dans lequel les toiles peintes typiques des théâtres traditionnels furent abandonnées au profit d’éléments tridimensionnels. Ce même type de mise en scène est toujours d’actualité…

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Silla

     

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Carl Heinrich Graun, Silla

★★★★★

Innsbruck, Landestheater, 5 août 2022

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La conversion d’un dictateur

Dans le théâtre lyrique du XVIIIe siècle, les événements historiques mis en scène ont toujours été un prétexte pour évoquer amours et jalousies, et le Silla de Carl Heinrich Graun ne fait pas exception, bien qu’ici la lutte pour le cœur d’Octavia que mène Silla (alors que la jeune femme est amoureuse d’un autre homme), amène le héros éponyme à reconsidérer son rôle de dictateur et à renoncer spontanément au pouvoir…

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Turandot

 

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Puccini, Turandot

Verona, Arena, 7 agosto 2022

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In scena all’Arena di Verona la Turandot del nostro immaginario collettivo

La prima stagione lirica all’Arena di Verona ebbe luogo nel 1856 – vi furono eseguiti tra gli altri due lavori di Gaetano Donizetti: Le convenienze teatrali I pazzi per progetto – ma nell’anfiteatro romano si continuarono a tenere spettacoli circensi, pirotecnici, feste, caroselli militari… Solo nel 1913 il monumento veronese divenne in esclusiva il più grande teatro lirico all’aperto del mondo con l’allestimento dell’Aida di Giuseppe Verdi, avvenimento che segnò anche la nascita di un nuovo stile scenografico in cui si abbandonarono le scene dipinte tipiche dei teatri tradizionali per adottare invece elementi tridimensionali. Quello stesso allestimento è ancora messo in scena oggi.

Nel 1928 nell’anfiteatro risuonarono per la prima volta le note di Turandot, l’opera che Giacomo Puccini aveva lasciato incompiuta alla sua morte quattro anni prima. Da allora è il quarto titolo più rappresentato all’Arena, con 150 repliche. Dopo aver messo in scena Turandot alla Scala e al MET, nel 2010 Franco Zeffirelli allestiva qui una nuova produzione creata per l’unicità del palcoscenico veronese. Ripresa varie volte, è la stessa in scena ancora oggi. Dire che il regista sia di casa qui è un’ovvietà se si pensa che quest’anno sono quattro su cinque le sue produzioni: un festival zeffirelliano all’interno del Festival.

«Allestimento fiabesco, Turandot da favola, storica scenografia», così viene presentata la sua messa in scena, che utilizza ogni centimetro dell’amplissimo palcoscenico riempiendolo secondo un ossessivo horror vacui con un pullulare di figure: il «popolo di Pekino» fustigato dalle guardie, i venditori ambulanti, i mendicanti, i risciò, i draghi, i portatori di lanterne, i portatori di alabarde, quelli di stendardi, gli acrobati, le fanciulle con le maniche svolazzanti… L’indubbia abilità del regista a muovere queste immani folle rimane evidente anche in questa ennesima ripresa a distanza di tre anni dalla sua scomparsa. Della sua lettura kitsch e ipertrofica c’è poco da dire: denuncia tutti gli anni che ha ma piace ai tedeschi stanchi del loro Regietheater, piace agli americani che ritrovano qui Las Vegas e Disneyland, piace a quelli che vengono per la prima volta e non si vogliono perdere l’effetto delle candeline accese sulle immense gradinate. Piace insomma a chi paga il biglietto (e sono quasi trecento euro i posti migliori) e non riesce a trattenere l’applauso quando Calaf bacia la principessa di ghiaccio o quando i trenta e più metri di schermo con su dipinta una folla di draghi cinesi si aprono per mostrare la città proibita con le sue pagode e gli interni dorati. I costumi di Emi Wada e le luci di Paolo Mazzon danno il loro contributo alla magia visiva dello spettacolo, mentre nel solco della consolante prevedibilità sono i movimenti coreografici di Maria Grazia Garofoli.

Ma all’Arena si viene anche per le grandi voci, che qui non mancano mai di fare una comparsa. Dopo le polemiche per la mancata denuncia dell’aggressione all’Ucraina prima e per la questione del black face dopo, Anna Netrebko si pulisce il volto con cui aveva interpretato Aida a luglio e indossa i panni della figlia dell’imperatore cinese replicando il suo trionfo personale. Ci sono poche altre interpreti oggi che possano stare al suo livello in questo ruolo in cui il soprano russo dispiega non solo una proiezione vocale tale da permetterle di riempire l’anfiteatro con i suoi pianissimi, ma soprattutto di interpretare un personaggio che non è soltanto una sanguinaria e gelida vendicatrice di fatti accaduti millenni primi, ma una figura molto umana che porta su di sé l’offesa fatta a una donna come lei. E nel suo caso diventa un po’ più accettabile la resa al principe straniero e il subitaneo cambiamento richiesto dal controverso finale musicato da Franco Alfano, qui drammaturgicamente meno incongruo del solito anche se musicalmente sempre brutto nonostante la bella direzione di Marco Armiliato. L’acustica del teatro non permette certo di apprezzare le eventuali raffinatezze strumentali, ma il direttore musicale del Festival non rinuncia a evidenziare le preziosità di una partitura che guarda al suo tempo – sono gli anni di Stravinskij, Berg, Strauss, Janáček, Ravel… – e al futuro. Giusti sono i tempi scelti e l’equilibrio sonoro con le voci in scena.

Se c’è Netrebko c’è anche Yusif Eyvazov, un Calaf che non potendo ammaliare con il suo timbro di voce fa ricorso a una eccellente tecnica vocale, una perfetta intonazione, a uno squillo poderoso e soprattutto a una convincente interpretazione: non sono solo acuti sparati i suoi, c’è una linea di canto variata e intenzioni che gli valgono, un po’ generosamente da parte del pubblico, il prevedibile bis del «Nessun dorma». Lirica al massimo la Liù di Maria Teresa Leva mentre quasi caricaturale è il Timur di Ferruccio Furlanetto. Efficace come sempre l’Altoum di Carlo Bosi e squillante il Mandarino di Yongjun Park. Di lusso il terzetto dei ministri formato da Gëzim Myshketa (Ping), Matteo Mezzaro (Pong) e Riccardo Rados (Pang).

Quest’anno si è arrivati alla 99esima stagione. L’anno prossimo si celebreranno i cent’anni dell’Arena di Verona Opera Festival ma il pubblico non vedrà deluse le sue aspettative: in cartellone ci saranno le opere di sempre – Aida, Carmen, Barbiere, Rigoletto, Nabucco, Traviata, Butterfly –, i balletti e i recital dei cantanti più amati.

Silla

     

foto © Birgit Gufler

Carl Heinrich Graun, Silla

★★★★★

Innsbruck, Landestheater, 5 agosto 2022

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La conversione di un dittatore

Le vicende storiche nel teatro d’opera settecentesco sono sempre state un pretesto per vicende amorose e gelosie e il Silla di Carl Heinrich Graun non fa eccezione, anche se qui la lotta per il cuore di Ottavia, innamorata di un altro, porta Silla a riconsiderare il suo ruolo di dittatore e a lasciare spontaneamente il potere (1).

Formato da una sinfonia e da 22 numeri musicali distribuiti in tre atti, il libretto di Silla fu scritto in francese da Federico II il Grande (1712-1786) e versificato in italiano da Giovanni Pietro Tagliazucchi. Bravo musicista dilettante lui stesso, quando le ambizioni militari lasciavano il posto a quelle artistiche, il principe elettore di Brandeburgo scriveva composizioni musicali e inaugurava l’opera di corte di Berlino per far rappresentare l’opera italiana di cui ammirava l’inventiva melodica, il virtuosismo strumentale e la voce dei castrati. Tra il 1749 e il 1754, il re scrisse le bozze per una serie di opere con intenti politico-statali che intendevano trasmettere l’immagine di governanti eroi: Coriolano, generale romano; Silla, generale e dittatore romano; Montezuma, imperatore del Messico.

Dopo che Silla ha stabilizzato la Repubblica romana durante le guerre civili (133-30 a.C.) come dittatore e restituendo al Senato il potere che aveva un tempo, egli non è tuttavia in pace con sé stesso e cerca la sua realizzazione nell’amore per Ottavia, che non ricambia però questo amore. Silla deve decidere su quale fronte muoversi: dovrà, come gli consiglia il ben intenzionato senatore Metello, dimostrarsi degno di un sovrano romano e rinunciare all’amore non corrisposto o dovrà invece, come trama l’intrigante Crisogono, conquistare con la forza Ottavia che è stata rapita per lui? Silla si rende conto che il potere, la grandezza e la fama gli hanno dato alla testa e che ha abusato del suo potere in modo tirannico e si ripromette di fare solo del bene d’ora in poi. Il messaggio che Federico voleva trasmettere ai suoi sudditi è che quando i tempi lo richiedono il fine giustifica i mezzi, ma una volta adempiuto il dovere, una volta scongiurato il danno, il sovrano deve moderarsi in nome della giustizia e della libertà.

Opera della maturità del Kapellmeister Carl Heinrich Graun (nato nel 1704 e morto nel 1759, lo stesso anno della scomparsa di Händel), Silla andò in scena il 27 marzo 1753 con due star dell’epoca, il soprano vercellese Giovanna Astrua (Ottavia) e il castrato Giovanni Carestini detto il Cusanino (Silla), per le quali furono pagate cifre spropositate.

Tesoro recuperato dal direttore artistico del festival Alessandro De Marchi, l’opera ha festosamente inaugurato le settimane di musica antica di Innsbruck con grande successo. La concertazione magistrale del De Marchi ha messo in evidenza la bellezza di una partitura ricca di raffinatezze strumentali che l’orchestra del festival ha reso in modo impareggiabile: fin dalle prime note della lunga sinfonia tripartita si è potuta ammirare la perfetta intonazione dei due corni barocchi (Alessandro Orlando e Claudia Pallaver) e la fluidità degli archi (Konzertmeisterin Olivia Centurioni) nei vaghi toni pastorali di questa complessa pagina. L’opera di Graun è formata da un poderoso primo atto con nove arie in cui si presentano i sette personaggi, tutti di pari importanza. Una lunga drammatica scena di Silla conclude questo atto maestoso che contrasta con un atto secondo che tra gli otto numeri musicali comprende due duetti e un concitato terzetto finale. Alla staticità del primo si contrappone dunque un atto secondo di grande teatralità la cui tensione musicale è resa in modo molto efficace. Più breve il terzo atto, solo quattro arie solistiche e un coro finale che conclude in tono giubilatorio: «Viva di Silla il nome | famoso in ogni età. | Eroe di lui maggiore | il Tebro ancor non ha». Altro pregio del lavoro di De Marchi è l’assoluta completezza dell’opera, con tutte le arie eseguite con da capo e cadenze. Molta cura è poi stata riservata alla strumentazione dei recitativi e qui è stato fondamentale il ruolo di Chiara Cattani al cembalo.

Di pari eccellenza è la distribuzione delle voci. Il personaggio eponimo, con ben quattro arie, un duetto e un terzetto, è affidato alla sicura presenza scenica e vocale del controtenore Bejun Mehta, timbro di velluto, grande proiezione, sicuro fraseggio e precise agilità. I suoi interventi sono di grande peso drammaturgico: le arie sono quasi sempre precedute da un lungo recitativo accompagnato così da formare vere e proprie scene atte a esprimere la sfaccettata personalità del personaggio che Mehta arricchisce di intenzioni e sfumati tratti psicologici. Esemplare la scena quarta del secondo atto tutta centrata su un lungo monologo di Silla in cui il dittatore prende coscienza di sé e si prepara alla “conversione”: «Ah, Metello ha ragion… Che feci? … e come avendo un cor sì generoso in petto, divenir seppi un Barbaro, un Tiranno?».

La incontenibile vena melodica del compositore, che alla corte di Berlino ricrea la gloriosa scuola napoletana, trova una felice espressione nelle tre arie di Ottavia, in cui il soprano Eleonora Bellocci sfoggia una voce vibrata e trepidante che ben delinea la sensibilità e nello stesso tempo fermezza della donna romana. Le sue sono tra le arie più belle di una serie di arie meravigliose e il pubblico dimostra di apprezzare la sua performance con applausi entusiastici a scena aperta. Roberta Invernizzi interpreta con efficacia l’altro personaggio femminile, Fulvia, una madre più preoccupata della sicurezza materiale della figlia piuttosto che dei suoi sentimenti. Ben definiti gli altri quattro personaggi maschili con due controtenori per le parti dei due consiglieri di Silla: Valer Sabadus è un Metello di non grande proiezione vocale ma espressivo ed elegante; Hagen Matzeit mette a servizio di Lentulo il suo innegabile stile. Il sopranista Samuel Mariño è un Postumio vocalmente agile e di temperamento incontenibile. Il cattivo della situazione, Crisogono, ha in Mert Süngü un convincente interprete per il quale Graun scrive strepitose arie di furore che vengono magnificamente rese dal tenore turco.

Sobria ma efficace la regia di Georg Quander, ex sovrintendente della Staatsoper unter der Linden di Berlino, che cura molto le interazioni tra i personaggi e la loro gestualità. Gli interpreti si muovono in una scenografia, di Julia Dietrich, semplice e funzionale con pochi elementi che suggeriscono la monumentalità romana – una doppia scalinata, un obelisco, una statua muliebre, una testa del dittatore che ha le fattezze dello stesso interprete – e un fondale su cui vengono proiettate abilmente, tanto che sembrano dipinte, vedute architettoniche in prospettiva. Qui non ci sono strutture rotanti (finalmente!) e quando si deve cambiare scena si chiude il sipario e il cantante dipana il da capo e le cadenze della sua aria al proscenio di fronte al pubblico con grande effetto, un effetto che avevamo quasi dimenticato. La stessa Dietrich ha disegnato i costumi e qui si è sbizzarrita un po’ di più: è una carrellata di epoche diverse quella con cui veste i personaggi, dalla romanità al Settecento, dalla contemporaneità al futuro. In definitiva una messa in scena apparentemente semplice ma del tutto convincente che si affianca a un’esecuzione musicale di eccelso livello. Chapeau alle Innsbrucker Festwochen der Alten Musik.

Gli altri due appuntamenti operistici sono purtroppo diluiti nel mese di agosto: bisogna ritornare una seconda volta per L’amazzone corsara di Carlo Pallavicino e una terza per l’Astarto di Giovanni Bononcini, gemme di quel tesoro sei-settecentesco italiano che i nostri teatri si ostinano a non prendere in considerazione.

(1) Atto I. Il dittatore romano Silla è all’apice del suo potere. Ha sconfitto tutti i nemici esterni di Roma, soprattutto Mitridate, il potente re del Ponto, e in patria ha concluso con mano pesante la sanguinosa guerra civile, per la quale il Senato romano lo ha dotato di poteri illimitati e lo ha eletto dittatore a vita. Ora desidera come moglie Ottavia, figlia di un patrizio romano vittima di una delle sue epurazioni. La madre Fulvia le consiglia di obbedire agli ordini di Silla, avendo sperimentato in prima persona l’accanimento con cui Silla persegue i suoi oppositori. Ottavia, tuttavia, ha dato il suo cuore a Postumio, che ama in modo idolatrico. Anche Postumio proviene da una famiglia nobile che ha perso quasi tutto a causa delle proscrizioni di Silla. L’amico Lentulo gli consiglia di liberare finalmente il Paese dal tiranno. Appare Metello, un altro senatore, che riferisce che Silla desidera l’onore di un grande trionfo e ordina a tutti i senatori di recarsi in Curia a questo scopo. Egli parla di coraggio alle due donne, dicendo che la loro bellezza sottometterà ogni crudeltà. Ancora una volta Fulvia consiglia alla figlia di obbedire alla richiesta di Silla. Ottavia, però, non riesce a lasciare Postumio. Si riunisce il Senato. Silla chiede un trionfo in riconoscimento dei suoi servizi allo Stato, come è stato concesso ad altri statisti prima di lui. Quando il Senato esita a dare il suo consenso, il popolo chiede a gran voce che a Silla sia dato l’onore che merita. Silla li ringrazia e distribuisce il governo delle province sottomesse ai suoi fedeli. Quando vuole dare la Sicilia a Postumio, quest’ultimo rifiuta. Essendo figlio di un uomo che era caduto vittima delle proscrizioni di Silla, non aveva diritto a tale onore. Silla si infuria. Il suo confidente Crisogono è convinto che Silla non possa raggiungere il suo obiettivo con la benevolenza, ma solo con la violenza. Gli consiglia di rapire Ottavia. Metello, però, lo mette in guardia da questi eccessi: Silla dovrebbe domare la sua passione. Crisogono sfrutta l’intervento di Metello per farlo passare per un traditore e per convincere Silla ad aderire nuovamente al suo piano di rapire Ottavia. Silla rimane combattuto.
Atto II. Ottavia e Fulvia attendono con impazienza il ritorno di Postumio dal Senato. Quando arriva, riferisce del suo confronto con il dittatore. Appare Lentulo e chiede a Fulvia di arrivare, Ottavia e Postumio assicurano di andare da Crisogono, che vuole parlarle. Nel frattempo, l’uno e l’altra si parlano del loro amore e della loro fedeltà. Al loro ritorno, Fulvia comunica ancora una volta la volontà di Silla di fare di Ottavia sua moglie. Ogni resistenza sarebbe inutile. Mentre i presenti sono ancora indignati da ciò, Crisogono si presenta con la guardia del corpo di Silla per portare via Ottavia, mentre impotenti, Postumio e Lentulo sono costretti a guardare mentre Ottavia viene portata via. Crisogono riferisce a Silla del successo della sua missione e lo informa che Postumio, tra tutti, è il suo rivale. Tra speranza e paura, Silla attende la comparsa di Ottavia che Crisogono gli conduce. Infuriata, Ottavia insulta Silla mentre cerca di conquistare il suo cuore. Fulvia cerca di mediare e chiede clemenza per la figlia. Appare Metello, che riferisce che la notizia del violento rapimento ha messo in subbuglio tutta Roma. Egli invoca il suo leale servizio di seguace e soldato di Silla in tutte le situazioni, ma con il rapimento Silla si è spinto troppo oltre, abusando del potere che gli era stato conferito con la dittatura. Questo non è stato degno di lui. Metello rinuncia a Silla e gli offre il suo petto aperto per il colpo di grazia. Postumio irrompe nella stanza con il pugnale sguainato e chiede a Silla di consegnargli Ottavia. Prima che possa pugnalare, viene sopraffatto dalla guardia del corpo e messo in catene.
Atto III. Ottavia e Fulvia sono disperate quando Lentulo irrompe improvvisamente con la notizia del fallito attentato di Postumio alla vita di Silla. Nessuno sa se Postumio sia ancora vivo. Lentulo è pronto a sacrificarsi per il suo amico. Tutti vogliono correre da Silla per chiedergli pietà. Ottavia immagina che Postumio muoia con il suo nome sulle labbra. I rimproveri di Metello hanno fatto riflettere Silla; è pronto a cedere, a rinunciare a Ottavia e a perdonare Postumio. Non vuole essere annoverato tra gli spregevoli tiranni. Che le sue azioni siano degne delle virtù romane! Chiama Crisogono e chiede che tutto sia pronto per il grande trionfo. Questo giorno sarà il più felice per Roma e per il mondo intero! Ottavia e Fulvia cercano invano di raggiungere Silla, che è già partito per il Foro. Poi appaiono le guardie con Postumio legato. Ancora una volta gli amanti si assicurano reciprocamente la loro immutabile fedeltà. Il popolo e il senato di Roma sono riuniti nel Foro Romano per rendere omaggio a Silla come trionfatore. Silla appare, ordina a Postumio di essere liberato e di restituirgli i beni di famiglia confiscati e la sua amante in cambio solo della sua amicizia e manda in esilio il cattivo consigliere Crisogono. Rivolgendosi al popolo, spiega di aver sempre agito per il bene di Roma e dei suoi cittadini e di aver punito solo coloro che minacciavano la libertà di Roma. Ora che lo Stato è pacificato, può rimettere nelle mani del Senato e del popolo le leggi e il potere che gli erano stati conferiti. Tutti lodano la magnanimità di Silla e la pace e la libertà che ha restituito loro.