Carlo Gozzi

Turandot

 

Giacomo Puccini, Turandot

★★★☆☆

Salzburg, Großes Festspielhaus, agosto 2002

(registrazione video)

Gli spettatori del Festival di Salisburgo incontrano per la prima volta Turandot

Puccini non è proprio tra i compositori più frequentati dal più blasonato festival del mondo di musica classica e lirica: rinato alla fine della Prima Guerra Mondiale, solo nel 1989 Karajan porterà a Salisburgo la sua Tosca, e ci vorranno altri tredici anni per questa Turandot. Il punto di forza dello spettacolo sta nella messa in scena di David Pountney poiché né la concertazione di Valerij Gergiev né gli interpreti sono all’altezza del loro compito.

Alla testa dei Wiener Philharmoniker Gergiev non sembra voglia dare il meglio di sé: la sua direzione è dura e impostata solo su fortissimi e pianissimi e con agogiche estreme. Uno dei pochi meriti di Gergiev – se è davvero suo e non del regista – è l’aver scelto il finale di Berio, rappresentato pochi mesi prima ad Amsterdam da Chailly e da Lehnhoff, che riproporranno lo spettacolo, con una diversa messa in scena, alla Scala. Dall’ascolto però non sembra che poi sia tanto convinto della scelta.

Turandot è Gabriele Schnaut dai suoni duri, frasi slegate, acuti stremati e una “recitazione” da cinema muto. Di recitazione non si parla certo per Johan Botha, che si sposta da una sedia all’altra ed esibisce una voce sforzata nel registro alto e fioca in quello centrale. Christian Gallardo-Domâs sarebbe una convincente Liù se non fosse per il tono un po’ lamentoso e il vibrato eccessivo. Sul Timur di Paata Burchuladze meglio sorvolare mentre neanche i tre ministri si salvano dal punto di vista vocale. Come Altoum si ascolta un glorioso Robert Tear, per niente efficace il Mandarino di Robert Bork. Per di più la dizione è al limite dell’accettabile e non conta che siano tutti stranieri: ci sono dei cantanti non italiani che possono darci lezione di pronuncia della nostra lingua.

Peccato perché lo spettacolo offerto visivamente da David Pountney è notevole: senza ricorrere a una Cina di maniera, il regista inglese si ispira al film Metropolis di Fritz Lang per elaborare il timore che negli anni ’20 i progressi tecnici sarebbero sfuggiti dal controllo e avrebbero portato all’inghiottimento e sfruttamento dell’individuo in un’enorme massa grigia. Le spettacolari scenografie di Johan Engels trasformano gradualmente uno «stato disumano capace solo di uccidere» in uno stato di umanità. Meccanismi in movimento e ruote dentato coprono l’intera enorme larghezza del palcoscenico del Großes Festspielhaus qui popolato da umani robotizzati, chi con un braccio chi con una gamba trasformata in arto meccanico – sega, o chiave inglese, forbici… In proscenio due grandi robot col viso di maschera cinese, e le cui gambe e braccia sono mosse con pertiche, rappresentano il Mandarino e l’Imperatore. Spettacolare il secondo atto: una moltitudine di statue rosse – il riferimento all’esercito di terracotta di Xian è evidente – con dietro ognuna un corista assiste alla scena degli enigmi con Turandot celata con un velo di nove metri all’interno di una gigantesca testa dorata. Quando Calaf risolve il terzo indovinello, la testa si schianta e la irraggiungibile principessa scende a livello del palcoscenico assumendo un aspetto fragile. Alla morte di Liù si spoglierà della sua veste e resterà con una veste bianca uguale a quella della schiava che si è uccisa mettendo il pugnale nelle mani di Turandot.

Con la morte di Liù cambia tutto: la musica, innanzitutto, con le note di Berio, ma anche perché tutti perdono gli arti meccanici assumendo un aspetto più umano e si abbracciano. La regia di Pountney è piena di momenti felici, come quando Turandot e Calaf lavano il cadavere di Liù, riempiendo così quei lunghi minuti dell’interludio strumentale di Berio. Forse sarebbe uno spettacolo da riproporre, non sembra per niente invecchiato nel tempo.

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Turandot

   

Giacomo Puccini, Turandot

★★★☆☆

Ginevra, Grand Théâtre, 22 giugno 2022

(video streaming)

Turandot, femmina castratrice

Ho scoperto (santa ingenuità!) che il finale di Turandot è scelto dal regista, non dal maestro concertatore, ma questa volta sono d’accordo con Daniel Kramer: «Il finale di Alfano è Disney, saccarina, non mi interessa. Non credo che Turandot si sciolga in cinque secondi e “vissero felici e contenti” in un regno macchiato di sangue». Ecco quindi che il regista americano opta per il finale di Berio, molto più adatto alla sua lettura in un mondo distopico con il rituale degli enigmi che diventa un gioco alla Hunger Game in cui uomini cercano di risolvere tre indovinelli e se vincono hanno la principessa, il regno, tutto quanto, me se perdono… beh lo sappiamo, anche se qui non è la testa che viene mozzata, bensì gli attributi virili, ai quali hanno già rinunciato i tre ministri e il mandarino, qui eunuchi, ma non gli energumeni a torso nudo che infestano questa società in cui il popolo è in alto dietro un velino bianco e solo alla fine viene liberato, dopo che i tre si sono accoltellati vicendevolmente e anche gli uomini cattivi sono stati fatti fuori. Per Calaf i tre enigmi formano una specie di viaggio personale dove incoraggiamenti e ostacoli si alternano per fargli conquistare la principessa: lui non è ancora pronto per lei, esattamente come Turandot non è pronta per Calaf.

La regia di Kramer è molto complessa e attenta ai risvolti psicologici e ai rapporti interpersonali: molto tesi quelli tra Calaf e il padre Timur, il quale alla fine lo addita come colpevole della morte di Liù e si trafigge lui stesso, o tra Turandot e Calaf dopo la vittoria di quest’utimo, con lui che guarda con compassione lo smarrimento della donna. Con il finale di Berio diventa drammaturgicamente più accettabile la conversione della principessa di gelo e il loro vivere in pace dopo tanto spargimento di sangue.

La scenografia del Team Lab – un collettivo artistico internazionale, un gruppo interdisciplinare di vari specialisti (artisti, programmatori, ingegneri, animatori di computer grafica, matematici e architetti) la cui pratica collaborativa cerca di navigare alla confluenza di arte, scienza, tecnologia e mondo naturale – restituisce a Turandot quella spettacolarità spesso predominante nelle produzioni dell’ultima opera di Puccini. Qui è coniugata tecnologicamente con raggi laser, luci colorate e proiezioni psichideliche di onde, nuvole e fiori ipercolorati secondo il dominante gusto giapponese. Sulla solita piattaforma rotante una struttura triangolare divisa in scomparti serve vari ambienti mentre in alto un geode cavo dorato serve all’apparizione di Turandot: ad ogni risposta esatta si abbassa e alla fine la donna è costretta a scendere e spogliarsi del manto dorato, uno dei tanti fantasiosi costumi disegnati da Kimie Nakano – tra cui quello di giada di Calaf.

La magnificenza visuale ha un corrispettivi sonoro nella concertazione di Antonino Fogliani alla guida della Orchestre de la Suisse Romande, che esalta la magnificenza strumentale dell’opera con tempi sostenuti e gusto dei particolari. Fogliani riesce a rendere meno evidente la cesura stilistica fra la musica di Puccini e il completamento di Berio: qui le lunghe frasi liriche lasciano posto a un’orchestrazione più frammentata che lascia emergere citazioni tematiche da un pulviscolo sonoro di grande modernità mentre il pathos è ora affidato da Berio a lunghe pagine strumentali. Dopo un avvio un po’ incerto il coro, formato dall’unione di quello del teatro e della Maîtrise du Conservatoire populaire, raggiunge ottimi livelli, aiutato dal fatto di cantare compatto e praticamente fuori scena. Meno esaltante il cast dei solisti con Ingela Brimberg autorevole protagonista titolare ma con acuti talora sforzati e non a suo agio nei salti di registro dei suoi primi interventi, un po’ meglio nel finale. Il Calaf di Teodor Ilincăi è il ruolo meno convincente, nonostante la sicura presenza scenica del tenore rumeno che evidenzia un timbro un po’ ingolato, una certa mancanza di colori risolti tutti in forte e mezzo-forte e incertezze di intonazione. Anche la Liù di Francesca Dotto difetta nei piani, ma il temperamento del soprano compensa largamente nel definire il tono lirico del personaggio. I tre ministri hanno in Simone Del Savio (Ping), Sam Furness (Pang) e Julien Henric (Pong) tre interpreti efficaci, soprattutto vocalmente Del Savio, divertenti e divertiti visto quello che richiede loro il regista. A loro modo importanti anche le tre parti minori di Altoum, a cui dà personalità la figura di Chris Merritt, del Timur di Liang Li e del Mandarino a cui Michael Mofidian presta inusuale rilievo scenico e inusuale potenza vocale.

Turandot

 

Foto © Ennevi

Puccini, Turandot

Vérone, Arena, 7 août 2022

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À Vérone, la Turandot de notre imaginaire collectif

La première saison d’opéra aux arènes de Vérone eut lieu en 1856 – entre autres, deux œuvres de Gaetano Donizetti y ont été présentées : Le convenienze teatraliet I pazzi per progetto – mais l’amphithéâtre romain continua d’accueillir des spectacles de cirque, de pyrotechnie, des fêtes, des manèges militaires… Ce n’est qu’en 1913 que le monument véronais devint le plus grand opéra en plein air du monde, avec une mise en scène d’Aïda de Giuseppe Verdi, un événement qui marqua également la naissance d’un nouveau style scénographique dans lequel les toiles peintes typiques des théâtres traditionnels furent abandonnées au profit d’éléments tridimensionnels. Ce même type de mise en scène est toujours d’actualité…

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Turandot

 

Foto © Ennevi

Puccini, Turandot

Verona, Arena, 7 agosto 2022

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In scena all’Arena di Verona la Turandot del nostro immaginario collettivo

La prima stagione lirica all’Arena di Verona ebbe luogo nel 1856 – vi furono eseguiti tra gli altri due lavori di Gaetano Donizetti: Le convenienze teatrali I pazzi per progetto – ma nell’anfiteatro romano si continuarono a tenere spettacoli circensi, pirotecnici, feste, caroselli militari… Solo nel 1913 il monumento veronese divenne in esclusiva il più grande teatro lirico all’aperto del mondo con l’allestimento dell’Aida di Giuseppe Verdi, avvenimento che segnò anche la nascita di un nuovo stile scenografico in cui si abbandonarono le scene dipinte tipiche dei teatri tradizionali per adottare invece elementi tridimensionali. Quello stesso allestimento è ancora messo in scena oggi.

Nel 1928 nell’anfiteatro risuonarono per la prima volta le note di Turandot, l’opera che Giacomo Puccini aveva lasciato incompiuta alla sua morte quattro anni prima. Da allora è il quarto titolo più rappresentato all’Arena, con 150 repliche. Dopo aver messo in scena Turandot alla Scala e al MET, nel 2010 Franco Zeffirelli allestiva qui una nuova produzione creata per l’unicità del palcoscenico veronese. Ripresa varie volte, è la stessa in scena ancora oggi. Dire che il regista sia di casa qui è un’ovvietà se si pensa che quest’anno sono quattro su cinque le sue produzioni: un festival zeffirelliano all’interno del Festival.

«Allestimento fiabesco, Turandot da favola, storica scenografia», così viene presentata la sua messa in scena, che utilizza ogni centimetro dell’amplissimo palcoscenico riempiendolo secondo un ossessivo horror vacui con un pullulare di figure: il «popolo di Pekino» fustigato dalle guardie, i venditori ambulanti, i mendicanti, i risciò, i draghi, i portatori di lanterne, i portatori di alabarde, quelli di stendardi, gli acrobati, le fanciulle con le maniche svolazzanti… L’indubbia abilità del regista a muovere queste immani folle rimane evidente anche in questa ennesima ripresa a distanza di tre anni dalla sua scomparsa. Della sua lettura kitsch e ipertrofica c’è poco da dire: denuncia tutti gli anni che ha ma piace ai tedeschi stanchi del loro Regietheater, piace agli americani che ritrovano qui Las Vegas e Disneyland, piace a quelli che vengono per la prima volta e non si vogliono perdere l’effetto delle candeline accese sulle immense gradinate. Piace insomma a chi paga il biglietto (e sono quasi trecento euro i posti migliori) e non riesce a trattenere l’applauso quando Calaf bacia la principessa di ghiaccio o quando i trenta e più metri di schermo con su dipinta una folla di draghi cinesi si aprono per mostrare la città proibita con le sue pagode e gli interni dorati. I costumi di Emi Wada e le luci di Paolo Mazzon danno il loro contributo alla magia visiva dello spettacolo, mentre nel solco della consolante prevedibilità sono i movimenti coreografici di Maria Grazia Garofoli.

Ma all’Arena si viene anche per le grandi voci, che qui non mancano mai di fare una comparsa. Dopo le polemiche per la mancata denuncia dell’aggressione all’Ucraina prima e per la questione del black face dopo, Anna Netrebko si pulisce il volto con cui aveva interpretato Aida a luglio e indossa i panni della figlia dell’imperatore cinese replicando il suo trionfo personale. Ci sono poche altre interpreti oggi che possano stare al suo livello in questo ruolo in cui il soprano russo dispiega non solo una proiezione vocale tale da permetterle di riempire l’anfiteatro con i suoi pianissimi, ma soprattutto di interpretare un personaggio che non è soltanto una sanguinaria e gelida vendicatrice di fatti accaduti millenni primi, ma una figura molto umana che porta su di sé l’offesa fatta a una donna come lei. E nel suo caso diventa un po’ più accettabile la resa al principe straniero e il subitaneo cambiamento richiesto dal controverso finale musicato da Franco Alfano, qui drammaturgicamente meno incongruo del solito anche se musicalmente sempre brutto nonostante la bella direzione di Marco Armiliato. L’acustica del teatro non permette certo di apprezzare le eventuali raffinatezze strumentali, ma il direttore musicale del Festival non rinuncia a evidenziare le preziosità di una partitura che guarda al suo tempo – sono gli anni di Stravinskij, Berg, Strauss, Janáček, Ravel… – e al futuro. Giusti sono i tempi scelti e l’equilibrio sonoro con le voci in scena.

Se c’è Netrebko c’è anche Yusif Eyvazov, un Calaf che non potendo ammaliare con il suo timbro di voce fa ricorso a una eccellente tecnica vocale, una perfetta intonazione, a uno squillo poderoso e soprattutto a una convincente interpretazione: non sono solo acuti sparati i suoi, c’è una linea di canto variata e intenzioni che gli valgono, un po’ generosamente da parte del pubblico, il prevedibile bis del «Nessun dorma». Lirica al massimo la Liù di Maria Teresa Leva mentre quasi caricaturale è il Timur di Ferruccio Furlanetto. Efficace come sempre l’Altoum di Carlo Bosi e squillante il Mandarino di Yongjun Park. Di lusso il terzetto dei ministri formato da Gëzim Myshketa (Ping), Matteo Mezzaro (Pong) e Riccardo Rados (Pang).

Quest’anno si è arrivati alla 99esima stagione. L’anno prossimo si celebreranno i cent’anni dell’Arena di Verona Opera Festival ma il pubblico non vedrà deluse le sue aspettative: in cartellone ci saranno le opere di sempre – Aida, Carmen, Barbiere, Rigoletto, Nabucco, Traviata, Butterfly –, i balletti e i recital dei cantanti più amati.

Turandot

Giacomo PucciniTurandot

★★★☆☆

Berlin, Staatsoper Unter den Linden, 8 juillet 2022

 Qui la versione italiana

À Berlin une Turandot-marionette

En 1972, Zubin Mehta a fait entrer un enregistrement historique de Turandot dans l’histoire de l’interprétation musicale. Le directeur indien est revenu plusieurs fois sur le dernier opéra de Puccini, comme dans l’édition située dans la Cité interdite mise en scène par Zhang Ymou (1998), puis en 2007 avec un autre metteur en scène chinois, Chen Kaige. À 86 ans, au Staatsoper de Berlin, il descend une fois de plus dans la fosse d’orchestre pour sa lecture du chef-d’œuvre inachevé et fait comprendre à quel point Turandot est une somme de la musique de son époque – Strauss, Stravinsky, Prokof’ev, Ravel… – mais avec le temps l’impact sonore, déjà remarquable à l’époque, dans sa direction a pris une opulence hollywoodienne…

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Turandot

Giacomo PucciniTurandot

★★★☆☆

Berlino, Staatsoper Unter den Linden, 8 luglio 2022

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Turandot marionetta

Zubin Mehta nel 1972 consegnava alla storia dell’interpretazione musicale un’incisione di Turandot che sarebbe stata di riferimento. Il direttore indiano è ritornato poi più volte all’ultima opera di Puccini, come nell’edizione ambientata nella Città Proibita con la regia di Zhang Ymou (1998) e ancora nel 2007 con un altro regista cinese, Chen Kaige. A 86 anni alla Staatsoper di Berlino scende ancora una volta nella buca d’orchestra per la sua lettura del capolavoro incompiuto e fa capire come Turandot sia una summa della musica del suo tempo – Strauss, Stravinskij, Prokof’ev, Ravel… – ma col tempo l’impatto sonoro, già notevole allora, nella sua concertazione ha assunto una hollywoodiana opulenza, la ricerca di effetti coloristici è portata allo spasimo, lo smalto sonoro è abbagliante, ma manca la trasparenza di certe pagine lunari e rarefatte. Turandot è l’unica opera ad avere ben quattro finali musicalmente diversi: interrompere l’esecuzione dopo l’ultima nota scritta da Puccini, utilizzare il moderno finale di Berio, o i due di Alfano, di cui uno particolarmente magniloquente. Mehta sceglie proprio questo.

L’orchestra splende ma copre le voci e costringe il coro a livelli barbarici, una gara di decibel che però il pubblico berlinese dimostra di apprezzare assieme a quelli profusamente elargiti dai due protagonisti principali. Elena Pankratova, che sostituisce l’inizialmente prevista Anna Netrebko non più invitata dal teatro per le note ragioni – sarebbe stato curioso però avere la cantante russa in un’opera in cui uno stato autoritario opprime il suo popolo con la violenza e l’arbitrio e il boia si chiama Putin-Pao… – è una macchina per acuti taglienti come lame e dall’espressione gelida. Il tenore turco Murat Karahan (che si alterna nelle recite con Yusif Eyvazov) si inceppa con una dizione quasi incomprensibile fatta solo di consonanti e un suono offuscato nel registro medio. Il suo, come spesso succede, è un “Calaf degli acuti”, decisi e sicuri, ma in mezzo non c’è molto. Come da programma però il suo «Nessun dorma» riceve applausi a scena aperta. Non succede invece per Liù, non il ruolo più adatto alla voce di Ol’ga Peretjat’ko poiché non basta avere la linea di canto e le note giuste, Liù deve anche saper emozionare e il timbro metallico e la fredda espressione del soprano russo non lo fanno. Il vecchio Timur trova in René Pape un interprete efficace e vocalmente ancora autorevole, quello che non si può dire invece per l’Altoum di Siegfried Jerusalem, la cui età si avvicina a quella dell’imperatore cinese, ma è sembrato inopportuno marcare la insufficiente prestazione con segni di disapprovazione come ha fatto qualcuno. Dal gruppo dei tre ministri emerge con nettezza il baritono Gyula Orendt, Ping di lusso per il bel timbro e la vivacità espressiva.

Come lo Hoffmann dei Contes di Offenbach, anche Calaf qui si innamora di una bambola, o meglio di una marionetta che ha le fattezze della principessa Turandot. Non molto diversamente da quanto aveva fatto sul palcoscenico sull’acqua di Bregenz col Rigoletto, Philipp Stölz e la scenografa Franziska Harm costruiscono una enorme figura, manovrata con fili, che ingombra quasi tutta la scena, una figura che viene fatta segno di temuta venerazione da parte del popolo: non siamo nella Cina millenaria della favola di Gozzi, ma in una dittatura orientale dove tutti portano un’uniforme grigia.

Nell’opera Turandot canta solo a metà del secondo atto, fino a quel momento in scena c’è solo la gigantessa sotto la cui gonna si apre la camera delle torture. La mega marionetta ad ogni risposta esatta incomincia a decomporsi: prima perde la parrucca e poi si scopre chè è una maschera quella che copre il teschio ghignante di questa specie di Moloch, un feticcio religioso, una divinità a cui si fanno sacrifici umani. In realtà uno strumento di dominio e di oppressione del popolo. La marionetta/Turandot si trasforma poi in una terrificante aracnide a guardia di una montagna di teschi mentre la vera Turandot è prigioniera dentro le sbarre della crinolina della gonna e anche lei perde la parrucca presentando delle fattezze di cui è difficile pensare di innamorarsi – infatti Calaf continua a essere perdutamente infatuato dal viso imbiancato e dalla bocca a cuore della maschera, tanto che la principessa, non si sa se per la perdita dell’onore o per la ferita all’orgoglio di essere preferita a una pupazza, si avvelena e muore, questa volta tra le braccia del principe ignoto mosso infine a pietà.

L’aspetto surreale e simbolistico della storia è scelto da Stölzl come chiave di lettura di questa particolare opera pucciniana. Regista principalmente cinematografico, è alla dimensione dell’immagine che consegna questa storia e lo spettacolo infatti funziona molto bene dal punto di visto visivo, ma neanche lui riesce a dare un significato convincente e credibile alle figure in scena: «Calaf cade in una sorta di ossessione per lei, da lontano, come uno stalker che segue una star. Perché? Non lo sappiamo. È come un’ipnosi o una maledizione. Si potrebbe arrivare a dire che egli proietta nell’immagine della principessa una sorta di desiderio di morte. Non c’è altro modo per spiegare il fatto che stia affrontando questa prova, alla quale nessuno prima di lui è mai sopravvissuto» scrive il regista nell’intervista pubblicata sul programma di sala.

Anche noi pubblico restiamo senza una risposta.

Turandot

Foto © Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma

Giacomo Puccini, Turandot

★★★☆☆

Rome, Teatro dell’Opera, 20 mars 2022

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Turandot : un chef-d’œuvre d’une brûlante actualité

Le Teatro dell’Opera de Rome est teinté des couleurs du drapeau ukrainien, celles d’un ciel clair et de champs de blé dorés. La façade est éclairée par des lumières bleues et jaunes tandis qu’à l’intérieur, les deux responsables de production sont une cheffe d’orchestre née dans le pays tourmenté et un réalisateur chinois dissident qui a fait l’expérience directe de la répression culturelle dans son pays. L’interprète principal est également née en Ukraine. Sur la scène c’est une histoire de violence et de cruauté immotivées, d’abnégation suprême pour son prochain et de foule manipulable. Si quelqu’un avait encore des doutes sur la modernité de l’opéra…

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Turandot

Foto © Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma

Giacomo Puccini, Turandot

Roma, Teatro dell’Opera, 20 marzo 2022

★★★☆☆

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Turandot in tempo di guerra: l’opera lirica è sempre attuale

Il Teatro dell’Opera di Roma si tinge dei colori della bandiera ucraina, quelli del cielo sereno e dei campi di grano dorato. La facciata piacentiniana è illuminata da luci azzurre e gialle mentre all’interno i due responsabili della produzione sono una direttrice d’orchestra nata nel paese martoriato e un regista dissidente cinese che ha vissuto sulla pelle la repressione culturale nel suo paese. Anche l’interprete principale è nata in Ucraina. In scena una vicenda di immotivata violenza e crudeltà, il supremo sacrificio di sé per il prossimo e una massa manipolabile. Se qualcuno aveva ancora dubbi sull’attualità del teatro in musica…

A distanza di pochi giorni, la capitale assiste a due diverse Turandot: all’Accademia di Santa Cecilia il 12 marzo è avvenuta l’esecuzione in forma di concerto dell’ultima opera di Puccini diretta da Antonio Pappano con un cast stellare, di cui ha scritto Luigi Sebastiani. Ora al Costanzi va in scena un’edizione non meno eccezionale sia per la componente musicale sia per quella visiva.

Fin dai primi momenti, le note dissonanti, gli accordi strappati, secchi – e quegli ossessivi martellamenti dello xilofono basso – testimoniano il tono straussiano dell’ultima opera pucciniana: «inizia come Elektra», fa notare Oksana Lyniv che dirige l’orchestra del teatro. La prima donna a Bayreuth dopo 145 anni e 176 presenze maschili, la prima donna alla guida musicale di una fondazione lirica (il Comunale di Bologna), nel suo passato ha un Puccini, una Madama Butterfly diretta otto anni fa a Odessa. Tra i ricordi di quella rappresentazione, le telefonate con i parenti e gli amici rimasti in Ucraina – alcuni rifugiati in quei teatri che sono diventati bersaglio dei bombardamenti russi – e una dura lettera a Putin, la Lyniv riesce a trovare la forza d’animo per scendere in buca e affrontare questa vicenda di inutile crudeltà redenta dal sacrificio per amore qual è la storia della principessa di Turan della fiaba persiana ripresa dal Gozzi e dai librettisti Adami e Simoni. Il gesto deciso e ampio, la concertazione drammatica e serrata ma che lascia il giusto spazio alle voci, la nitidezza e lo splendore dei colori strumentali – che prendono tinte livide nel “notturno” con cui inizia il terzo atto – sono gli elementi che fanno meritare alla Lyniv i caldi applausi del pubblico romano. Sotto la sua bacchetta Turandot si conferma l’opera di un compositore italianissimo, che conosce Wagner e guarda alla musica d’oltralpe e al musical della sua epoca, consegnando al Novecento un capolavoro, seppure incompiuto.

Un’altra ucraina, Oksana Dyka, riprende la parte del titolo con cui aveva trionfato al Metropolitan: l’impressionante proiezione, il timbro di solidissimo acciaio, gli acuti sfolgoranti; è quasi un peccato che la sua performance sia così ridotta – personaggio muto nel primo atto, nel terzo ha appena modo di farsi sentire, ma che impressione i suoi imperiosi e impietosi interventi: «Io voglio ch’egli parli! Il nome! Strappatele il segreto!». L’opera termina infatti con la morte di Liù, quindi senza il finale che Puccini non ha scritto pur avendo a disposizione quasi un anno di tempo, dal novembre 1923, quando la partitura venne terminata fino a quel punto della vicenda, al 4 novembre 1924, data della partenza per Bruxelles per quell’intervento chirurgico che si sarebbe rivelato inutile se non fatale. C’è chi spiega l’incompiutezza della Turandot con l’impossibilità del compositore a trovare un convincente happy ending alla storia. D’altronde, finiscono forse con un lieto fine Elektra o Salome?

Il timbro solare, la pronuncia aperta, il leggero vibrato e gli acuti talora sforzati caratterizzano il Calaf di Michael Fabiano, ma il tono un po’ guascone del «Nessun dorma» non ha fatto scattare l’applauso del pubblico invitato alla rappresentazione fuori calendario di domenica pomeriggio. Sarà che Fabiano non riesce a dare grande rilevanza al suo Calaf, ma è davvero possibile fornire spessore a un tale personaggio? Come sempre, il maggior successo l’ha avuto l’interprete di Liù, l’unico carattere vero e umano della vicenda. Qui Francesca Dotto ha commosso e affascinato con la sensibile musicalità, i legati e le mezze voci di una performance inappuntabile. Antonio di Matteo si è dimostrato un autorevole Timur mentre nel trio di “maschere” cinesi si è fatto notare per presenza vocale il baritono Alessio Verna come il gran cancelliere Ping. La parte del vecchio Imperatore Altoum è affidata a un giovane cantante del progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera, Rodrigo Ortiz. Diplomato dallo stesso progetto è anche Andrii Ganchuk, il mandarino che legge gli editti al «popolo di Pekino». Impegnativa ma efficace la presenza del coro del teatro istruito dal maestro Roberto Gabbiani.

L’idea di affidare a un artista cinese la messa in scena di un’opera ambientata in Cina non è così peregrina: ricordiamo ad esempio la Turandot di Zhang Ymou ambientata nella Città Proibita di Pechino. Ma qui non si è trattato di coinvolgere un regista, seppure cinematografico, bensì un artista poliedrico come Ai Weiwei: performer, documentarista, scultore, architetto (è suo il disegno dello Stadio Nazionale di Pechino), poeta e attivista politico che ha pagato col carcere la sua dissidenza e la sua ribellione al regime. Non è la prima volta che ha a che fare con la Turandot: 35 anni fa fece la comparsa (l’assistente del boia…) in alcune delle 202 riprese dello spettacolo di Zeffirelli a New York, ma è la prima, «e ultima volta» tende a precisare, che è impegnato nella messa in scena di un’opera lirica. Questa produzione era stata prevista due anni fa, ma le vicende pandemiche ne hanno fatto ritardare il debutto ad oggi. Dopo il Covid e la guerra in Ucraina lo spettacolo però non poteva essere lo stesso, dice il regista, che concentra la sua lettura sulla scenografia e sugli interventi video trascurando la regia – i personaggi principali non hanno un ruolo attoriale definito, il coro è immobile, gli unici interventi originali sono quelli dei movimenti mimici dell’artista cinese Chiang Ching e di quelli ritmici di un gruppo di giovani. «È un’opera immersa nel mondo contemporaneo, nelle attuali lotte culturali e politiche», spiega l’artista, «Turandot è la forza e il potere, Calaf un rifugiato politico». Il palcoscenico è trasformato in un planisfero – cosa tutt’altro che evidente per gli spettatori della platea – con i contorni dei continenti scavati in una grande scalinata. In questi buchi prende posto il coro quasi onnipresente, metà in costumi “tradizionali”, disegnati dallo stesso Ai Weiwei, metà in moderne divise militari. Sotto il gioco luci di Peter van Praet torreggiano rovine stilizzate che richiamano quelle della città che ospita lo spettacolo mentre sul fondo vengono proiettate immagini della Cina di oggi con i suoi grattacieli, le sue autostrade, ma anche di cariche della polizia che si accanisce sui giovani che chiedono libertà a Hong Kong, di profughi che guadano fiumi per fuggire dai loro paesi in guerra, di migranti in recinti di filo spinato. E poi le tute anti contaminazione dei medici di Wuhan, la città da cui è partito il Corona virus.

La gelida principessa è vestita come una minacciosa crisalide bianca, in cinese il colore della morte; Timur e Liù si presentano come profughi stracciati, Calaf porta un grande rospo sulla schiena (spero che a quest’ora qualcuno ne avrà scoperto il significato e lo possa finalmente comunicare). Elementi vagamente fantascientifici si mescolano ad altri tradizionali cinesi, come le maschere orripilanti delle guardie di Liù o le lanterne bianche con forme zoomorfe o strane come i copricapi di Ping (una bomba), Pang (due mani che fanno il dito medio) e Pong (due telecamere). Lo stesso dito medio è mostrato da un gruppo di giovani al canto di «Gloria a te» rivolto al vecchio imperatore. Vedremo lo stesso gruppo mimare il cammino verso un orizzonte si spera più radioso nel finale, qui senza apoteosi amorosa.

Le immagini video nel secondo atto e in quello che rimane del terzo diventano più grafiche, piene di simboli di guerra, oppure mostrano vedute tristanzuole di Venezia, Parigi, Roma, New York durante il terzetto in cui Ping, Pong e Pang nostalgicamente ricordano la casa nell’Honan, le foreste dello Tsiang e il giardino di Kiu mentre fanno esercizi di stretching. Nel terzo atto la parte centrale della scalinata ruota su sé stessa e mostra un muro con uno scheletro dipinto e la scritta in greco «Conosci te stesso».

Nella sua messa in scena Ai Weiwei mescola elementi della cultura popolare cinese con quelli del mondo occidentale – cartoni animati, pitture vascolari, La pietà di Michelangelo… – per esprimere l’inestricabilità della globalità che viviamo. Turandot diventa un manifesto di protesta ma tutto questo profluvio di immagini, che rispecchia il bombardamento di notizie che stiamo subendo, sulla scena finisce per distrarre dalla musica. Come il decorativismo di Zeffirelli aveva prevalso sulla drammaturgia, qui nella Turandot di Ai Weiwei è il Konzept a prevalere, senza riuscire a fornire una drammaturgia convincente all’opera di Puccini. In fondo lo scopo sempre quello è.

Chi non ha visto lo spettacolo potrà verificare giovedì 24 marzo nella trasmissione di RAI 5.

Turandot

Giacomo Puccini, Turandot

Roma, Parco della Musica, 12 marzo 2022

(esecuzione in forma di concerto)

Luigi Sebastiani è stato alla Turandot romana eseguita in forma di concerto. Ecco il suo resoconto.

La Principessa di gelo infiamma il pubblico di Roma

È andata in scena al Parco della Musica di Roma l’attesissima Turandot di Puccini che segnava il debutto nel titolo del più pucciniano dei direttori d’orchestra oggi in carriera, Antonio Pappano, oltre che dei due divi protagonisti, Sondra Radvanovsky e Jonas Kaufmann. Questa produzione, che provvidenzialmente si è deciso di affidare anche al disco (per i microfoni di Warner Classics), si annunciava già sulla carta come una produzione leggendaria, come una di quelle serate che i presenti avranno modo di ricordare alle future leve di melomani con un fulminante «io c’ero!» generando in loro invidia e meraviglia in parti uguali, per una serie di motivi dei quali uno solo già sarebbe bastato a giustificare il viaggio e l’acquisto del biglietto, ma la cui somma faceva di questa serata un must: dalla scelta del finale Alfano detoscaninizzato, all’atteso approdo di Tony Pappano alla più controversa delle partiture del genio lucchese, fino allo scialo fin quasi esibito dei mezzi coinvolti, con il dispiegamento sontuoso di un cast a dir poco stellare dalle primissime parti fino a quelle di contorno. E i fatti, lo dichiariamo fin da subito, non hanno smentito le attese.

Antonio Pappano sente e vive questa musica come pochi altri tra i suoi – nostri – contemporanei. Ma soprattutto è in grado di farla vivere e di mostrarcela anche laddove l’esecuzione abbia luogo in forma di concerto. Le agogiche dettagliatissime imprimono un ritmo da cinematografo alla fiaba della principessa di gelo riesumata dalle cineserie settecentesche di Gozzi, definendone climax e snodi narrativi in un arco drammaturgico tesissimo dalla prima all’ultima nota. Allo stesso modo dinamiche e impasti sonori hanno il pregio da un lato di ricongiungere la musica di Puccini a quella Mitteleuropa alla quale era apparentata per tributo di sangue (forse solo Sinopoli in passato era riuscito a fare altrettanto) e dall’altro a tingerne e profumarne l’ordito, che si fa sgargiante e ieratico al tempo stesso – a metà tra un Puccini in technicolor e un’antichissima cerimonia orientale. E se Pappano può permettersi di plasmare la massa sonora come la creta più malleabile, grande merito va riconosciuto ai complessi di Santa Cecilia che, una volta di più, si confermano i migliori che abbiamo in Italia.

Sondra Radvanovsky, Turandot, entra in scena fasciata da un abito color verde-speranza-che-delude-sempre con grande mantella barocca della stessa tinta, ma per conto suo non delude affatto. Passato lo shock uditivo del primo istante dovuto all’impennata dei decibel, ci si trova davanti a una cantante estremamente rifinita sul piano tecnico, in grado di oltrepassare tutte le asperità della parte senza palesare il minimo sforzo. Più prossima al modello belcantistico di Joan Sutherland che non a quello verista di Rosa Raisa (prima interprete del ruolo) o all’antica tradizione che lega Turandot alle grandi voci wagneriane, da Birgit Nilsson a Nina Stemme, pone le basi del proprio magistero su un’emissione nitida e costantemente a fuoco e nell’uso spericolato della dinamica: la doppia forcella (fppff) sulle parole «il suo nome è Amor!», con cui Turandot si rimette alla vita e all’amore del principe (non più) ignoto, lascia l’ascoltatore stordito e commosso, più che per il virtuosismo funambolico per la forza evocativa, innervata di sottile erotismo, con cui viene delineato il disgelo della principessa più anaffettiva della storia del teatro lirico, apice drammaturgico dell’opera.

Il ruolo del principe tartaro scioglitore degli enigmi è affidato invece alla voce e alla bella presenza di Jonas Kaufmann, il cui bacio farebbe la felicità, oltre che di Turandot, di tutta la platea femminile e di buona parte di quella maschile. Kaufmann, che ha passato ormai le cinquanta primavere, appare leggermente appannato in termini di brillantezza sonora e rischia più di una volta di finire mangiato dai fortissimo a tutta orchestra di Pappano. Ciò non di meno resta il più sottile e il più fascinoso dei fraseggiatori oggi in circolazione e ogni accento si ammanta di chiaroscuri timbrici capaci di ridefinire una parte che, da Corelli a Pavarotti, abbiamo sempre sentito risolvere, a suon di si naturali, con il puro e semplice squillo tenorile. Insomma, va bene il metallo ma il velluto non è certo meno virile o seducente.

Ermonela Jaho è una Liù sinuosissima e charmante, nella voce come nella figura. Se vogliamo, persino troppo per una schiava. La verità però è che il personaggio di Puccini di servile ha ben poco, apparentato piuttosto a certe icone del liberty che fecero la fortuna a quel tempo di attrici come Lyda Borelli o Francesca Bertini. Così la Jaho coi suoi fraseggi eleganti e i suoi preziosissimi filati ci restituisce una figura assai più raffinata di quel che il suo rango vorrebbe.

Il resto del cast, dal Timur stilizzato e severo di Michele Pertusi alle tre maschere capeggiate dal bravissimo Mattia Olivieri, si rivela un lusso persino eccessivo. Si segnala soltanto la defezione del divino Spyres, scappato a Berlino subito dopo le sedute di registrazione, che avrebbe dovuto prestare la sua voce per le poche ma significative frasi dell’imperatore Altoum – degnamente sostituito dal tenore italiano Leonardo Cortellazzi. Il concerto si è concluso in gloria, tra salve di applausi e chiamate agli artisti, nell’entusiasmo generale di un pubblico consapevole del fatto che serate come questa si ripetono, quando va bene, una volta ogni dieci anni.

Turandot

Giacomo Puccini, Turandot

★★★★☆

Parma, Teatro Regio, 17 gennaio 2020

(video streaming)

Turandot tradita da Calaf

La stagione lirica di Parma, Capitale Europea della Cultura 2020, si apre con l’ultimo capolavoro incompiuto di Puccini. L’allestimento è quello del 2003 al Comunale di Modena di Giuseppe Frigeni – regia, scene, luci e coreografie, mentre i costumi sono di Amélie Haas – qui ripreso con la collaborazione della sorella Marina.

Agli antipodi della lettura zeffirelliana, nel solco invece di Robert Wilson (che infatti l’ha messa in scena a Madrid) la Turandot di Frigeni è stilizzata e minimalista: la scenografia consta di una scalinata per buona parte della larghezza del palcoscenico e di pannelli neri che scorrono a mostrare un fondo luminoso. La scalinata si apre a metà per mostrare le teste mozze dei pretendenti (anche se in verità sembrano più le statue dell’esercito di terracotta che emergono dal terreno con le spalle) o si chiude inesorabilmente sul cadavere di Liù. La recitazione è ai minimi termini, i personaggi quasi non si guardano e non si toccano mai, tutto è suggerito, come le torture patite dalla povera Liù nella totale indifferenza del principe in incognito. Raffinate le luci e gli spot che isolano al momento opportuno gli interpreti con effetto quasi cinematografico. Solo i costumi suggeriscono l’ambientazione cinese della favola.

Per una volta ci si dovrebbe decidere sul nome della lontana «ava dolce e serena» Lou-Ling, pronunciata a volte ‘lou-ling’, altre ‘lu-ling’, mentre qui invece Rebeka Lokar dice ‘lau-ling’. La sua Turandot non è una femmina crudele assetata di sangue, quanto una donna che difende fino alla fine il suo potere e male gliene incoglie: appena ottenuto l’assenso, Calaf la spinge da parte, prende il manto del potere e sale le scale che portano al trono mentre Turandot si accascia a terra proprio sopra il cadavere di Liù. Il maschio si è servito di due donne per riprendersi il potere che gli era stato usurpato.

A capo della Filarmonica dell’Opera Italiana Bruno Bartoletti, un’orchestra giovane ed entusiasta, non sempre perfettamente a fuoco nei suoi interventi però, Valerio Galli dà una lettura coinvolgente della partitura mettendone in luce gli elementi di modernità, come quelle dissonanze con cui inizia il secondo quadro dell’atto secondo, quando quasi si sentono stridere «le infinite ciabatte di Pekino» e quella marcetta che avrebbe potuto scrivere Charles Ives.

Cast soddisfacente è quello che vede il soprano sloveno Rebeka Lokar (Turandot), cantante dalla vocalità solida seppure affetta da un largo vibrato e una proiezione della voce non sempre ottimale, per lo meno così nella registrazione. Ma quello che forse manca in potenza fonica si ha in sottigliezza interpretativa e il ritratto di donna che ne esce è diverso dal solito, in accordo con la scelta registica di fare di Turandot, dopo «mill’anni e mille», ancora una vittima del maschio. Non il massimo della raffinatezza il Calaf del tenore uruguayano Carlo Ventre, talora un po’ troppo Turiddu, ma coerente con la scelta registica del personaggio, spavaldo più che eroico, meschino più che innamorato. Vittoria Yeo, che incarna il personaggio della donna che si immola per amore, è una sensibile Liù di bell’accento e Giacomo Prestia un autorevole Timur. Efficace il trio dei ministri: Fabio Previati (Ping), Roberto Covatta (Pang) e Matteo Mezzaro (Pong). Il coro ha un ruolo essenziale nell’ultima opera di Puccini e qui si disimpegna apprezzabilmente quello del teatro diretto da Martino Faggiani, mentre Eugenio Maria Degiacomi istruisce quello di voci bianche.