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Giacomo Puccini, Turandot
Salzburg, Großes Festspielhaus, agosto 2002
(registrazione video)
Gli spettatori del Festival di Salisburgo incontrano per la prima volta Turandot
Puccini non è proprio tra i compositori più frequentati dal più blasonato festival del mondo di musica classica e lirica: rinato alla fine della Prima Guerra Mondiale, solo nel 1989 Karajan porterà a Salisburgo la sua Tosca, e ci vorranno altri tredici anni per questa Turandot. Il punto di forza dello spettacolo sta nella messa in scena di David Pountney poiché né la concertazione di Valerij Gergiev né gli interpreti sono all’altezza del loro compito.
Alla testa dei Wiener Philharmoniker Gergiev non sembra voglia dare il meglio di sé: la sua direzione è dura e impostata solo su fortissimi e pianissimi e con agogiche estreme. Uno dei pochi meriti di Gergiev – se è davvero suo e non del regista – è l’aver scelto il finale di Berio, rappresentato pochi mesi prima ad Amsterdam da Chailly e da Lehnhoff, che riproporranno lo spettacolo, con una diversa messa in scena, alla Scala. Dall’ascolto però non sembra che poi sia tanto convinto della scelta.
Turandot è Gabriele Schnaut dai suoni duri, frasi slegate, acuti stremati e una “recitazione” da cinema muto. Di recitazione non si parla certo per Johan Botha, che si sposta da una sedia all’altra ed esibisce una voce sforzata nel registro alto e fioca in quello centrale. Christian Gallardo-Domâs sarebbe una convincente Liù se non fosse per il tono un po’ lamentoso e il vibrato eccessivo. Sul Timur di Paata Burchuladze meglio sorvolare mentre neanche i tre ministri si salvano dal punto di vista vocale. Come Altoum si ascolta un glorioso Robert Tear, per niente efficace il Mandarino di Robert Bork. Per di più la dizione è al limite dell’accettabile e non conta che siano tutti stranieri: ci sono dei cantanti non italiani che possono darci lezione di pronuncia della nostra lingua.
Peccato perché lo spettacolo offerto visivamente da David Pountney è notevole: senza ricorrere a una Cina di maniera, il regista inglese si ispira al film Metropolis di Fritz Lang per elaborare il timore che negli anni ’20 i progressi tecnici sarebbero sfuggiti dal controllo e avrebbero portato all’inghiottimento e sfruttamento dell’individuo in un’enorme massa grigia. Le spettacolari scenografie di Johan Engels trasformano gradualmente uno «stato disumano capace solo di uccidere» in uno stato di umanità. Meccanismi in movimento e ruote dentato coprono l’intera enorme larghezza del palcoscenico del Großes Festspielhaus qui popolato da umani robotizzati, chi con un braccio chi con una gamba trasformata in arto meccanico – sega, o chiave inglese, forbici… In proscenio due grandi robot col viso di maschera cinese, e le cui gambe e braccia sono mosse con pertiche, rappresentano il Mandarino e l’Imperatore. Spettacolare il secondo atto: una moltitudine di statue rosse – il riferimento all’esercito di terracotta di Xian è evidente – con dietro ognuna un corista assiste alla scena degli enigmi con Turandot celata con un velo di nove metri all’interno di una gigantesca testa dorata. Quando Calaf risolve il terzo indovinello, la testa si schianta e la irraggiungibile principessa scende a livello del palcoscenico assumendo un aspetto fragile. Alla morte di Liù si spoglierà della sua veste e resterà con una veste bianca uguale a quella della schiava che si è uccisa mettendo il pugnale nelle mani di Turandot.
Con la morte di Liù cambia tutto: la musica, innanzitutto, con le note di Berio, ma anche perché tutti perdono gli arti meccanici assumendo un aspetto più umano e si abbracciano. La regia di Pountney è piena di momenti felici, come quando Turandot e Calaf lavano il cadavere di Liù, riempiendo così quei lunghi minuti dell’interludio strumentale di Berio. Forse sarebbe uno spettacolo da riproporre, non sembra per niente invecchiato nel tempo.
⸪