Mese: settembre 2014

La pietra del paragone

  1. Zedda/Pizzi 2007
  2. Spinosi/Corsetti & Sorrin 2007

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★★★★☆

1. Pizzi in piscina

Dopo le farse veneziane (da cui derivano i due personaggi del poetastro importuno e del corrotto giornalista che si inseriscono a forza nella vicenda) questo è il primo melodramma giocoso del «giovenissimo Rossini».

Nonostante il delirante successo registrato dalle gazzette del tempo  (cinquantatre rappresentazioni a Milano nel 1812) e la definizione di un sempre presente Stendhal quale «capolavoro del genere buffo», La pietra del paragone verrà messa in ombra dalle successive Italiana in Algeri e Il barbiere di Siviglia. L’opera comunque valse al musicista l’esenzione dall’obbligo del servizio militare poiché l’allora vicerè milanese Eugenio Beauharnais non volle «esporre al fuoco nemico una vita così preziosa: i contemporanei non me lo perdonerebbero mai. Forse perdiamo un mediocre soldato, ma di certo conserviamo al paese un uomo di genio».

Ecco la vicenda: il conte Asdrubale è «alieno dall’ammogliarsi» e non si decide, nonostante il pressing di due nobili dame desiderose di impalmarlo per interesse e di una «vedova brillante», Clarice, i cui sentimenti sono invece genuini. Per verificare la sincerità dei sentimenti, il conte progetta un inganno in cui finge di essere ridotto in miseria. Tutti se la filano ad eccezione di Clarice e del fedele amico Giocondo.
Nel secondo atto Asdrubale svela l’inganno, ma questa volta è Clarice che metta a prova il conte presentandosi travestita da suo gemello in abiti militari e creduto morto. Alla fine tutto viene svelato e hanno inizio i preparativi per le triplici nozze.

La produzione del Rossini Opera Festival del 2002 è qui ripresa al Teatro Real di Madrid cinque anni dopo con una compagnia di canto in parte immutata: Aspasia e Fulvia sono le stesse Laura Brioli e Patrizia Biccirè, il conte Asdrubale, il cavalier Giocondo e Macrobio sono anche qui Marco Vinco, Raúl Giménez e Pietro Spagnoli. Come sempre eleganti e stilisticamente perfetti gli ultimi due, qualche riserva si continua ad avere per Marco Vinco, bella presenza ma vocalità corta e opaca.

Al suo debutto iberico nella parte di Pacuvio c’è invece un Paolo Bordogna in grandissima forma, il quale alla strepitosa presenza scenica che strappa sonore risate al pubblico unisce una qualità vocale sopraffina. Di gran classe è la Clarice del mezzosoprano francese Marie-Ange Todorovitch in un ruolo impegnativo che richiede il colore del registro medio-basso, ma anche l’indomita sicurezza degli acuti che aveva la Marietta Marcolini che creò il ruolo e che collaborò con Rossini nella prima fase della sua carriera operistica.

Su tutti quanti domina con la sua sapienza il maestro Alberto Zedda, che nell’intervista contenuta come bonus sui due dischi e nell’opuscolo allegato esita a definire, come fa Stendhal, opera buffa questa che lui considera una pièce de conversation, neanche troppo lontana da quelle di Richard Strauss, in cui nobili sfaccendati trascorrono il tempo con discorsi e dialoghi di impronta fortemente realistica, ben lontana quindi dalla folie del Rossini buffo: «Il soggetto è comico, certo, ma l’opera buffa italiana di tradizioe era completamente differente, con i suoi personaggi stereotipati che recitavano la stessa mediocre commedia con poche variazioni. L’opera comica aveva esaurito il suo scopo originale, quello di intrattenere e rallegrare il pubblico. Rossini le avrebbe dato nuova vita arrivando al concetto di comique absolu con cui sviluppare il sogno della trasgressione senza limiti morali (L’italiana in Algeri, La gazzetta, Le comte Ory) o grazie a una satira sociale potenzialmente sovversiva (La pietra del paragone, Il turco in Italia, La Cenerentola, Il barbiere di Siviglia, Il viaggio a Reims) dove il tema comico si intreccia  con un filo serio e semiserio in una combinazione affascinante. […] Ne La pietra del paragone alle caricature tipiche delle farse (che siano il turco misterioso in cui si traveste il conte quando lancia il suo “Sigillara, sigillara!” o il pessimo poeta Pacuvio) si mescolano personaggi dai sentimenti nobili (l’amico giocondo), donne capricciose (donna Fulvia e la baronessa Anastasia) e un giornalista presuntuoso e venale ma capace di straordinarie elucubrazioni, Macrobio. Il personaggio femminile principale agisce poi con un’intelligenza e un sangue freddo mai visti tra le pallide soubrettine dell’opera buffa tradizionale».

Pier Luigi Pizzi abbandona per una volta colonne, scalinate e pennacchi per una regia ironica e moderna, che sottolinea l’eterna contemporaneità dei personaggi. Siamo negli anni ’60 dell’Italia della Dolce Vita e in scena, immersa nella pineta di Castel Gandolfo, c’è una copia della villa di proprietà allora del regista-scenografo: un’architettura modernista su due piani con gli stessi arredi dell’originale e, incastonata sul prato verde, una piscina in cui si tuffano i personaggi dando vita a esilaranti gag. Gli abiti cambiati in continuazione apportano la giusta nota di colore nel bianco e nero delle linee razionaliste del fabbricato.

Due dischi con extra e sottotitoli anche in italiano.


Pietra paragone

★★★★☆

2. Il gioco svelato

Consiglio per i sovrintendenti lirici in vena di risparmi: usare scene virtuali, come in questo allestimento di Giorgio Barberio Corsetti con l’utilizzo della video art di Pierrick Sorin alla sua prima sortita nel teatro d’opera.

I cantanti vengono ripresi da tre telecamere sullo sfondo blu di un palcoscenico vuoto e in alto tre schermi ci danno in tempo reale il risultato finale con gl’interpreti “inseriti” nelle scene riprese da modellini in bella vista sul palcoscenico. Come gli altri elementi tridimensionali necessari essi vengono portati in scena da inservienti in calzamaglia blu, quindi “invisibili” al chroma key: la tecnologia si fa essa stessa spettacolo e il gioco viene in continuazione svelato, così come avviene nella vicenda di quest’opera di Rossini.

Siamo allo Châtelet di Parigi nel 2007 per questa Pietra del paragone nella quale come consuetudine molti sono gli autoimprestiti del compositore. Due tra tutti: la sinfonia servirà anche al Tancredi, il “temporale” tornerà nel Barbiere. Nella parte di Clarice ci sono poi anticipazioni ancora del Tancredi (l’aria «Eco pietosa») e, per il tipo di vocalità, della Cenerentola. Il libretto del Romanelli sviluppa il “tema dell’amore e dell’amicizia messi alla prova” già trattato dal Così fan tutte di Da Ponte ad esempio o dal Ricco insidiato del Goldoni.

Nelle parole del regista: «Il denaro è la pietra del paragone. Per provare che tutto è apparenza bisogna far scomparire il denaro, magari con l’abile messinscena architettata dal Conte, che si finge rovinato. Allora crollano tutte le altre finzioni. Con Pierrick Sorin volevamo ricreare il clima di sospensione che si respira nell’opera. La pietra del paragone si svolge in un tempo sospeso, è una perenne vacanza. Così ci è sembrato interessante che anche le scene, gli oggetti partecipassero a questa condizione smaterializzata. Tutto si presta a un gioco di teatro molto scoperto, che abbiamo reso evidente con l’artificio dell’elettronica e della elaborazione delle immagini. Gli oggetti, i luoghi, gli ambienti, sono virtuali, tutto si svolge nel vuoto, nella scena blu che è pura virtualità. Il pubblico godrà di una visione multipla. Assiste al montaggio di una realtà virtuale, ma ne ha sotto gli occhi il processo che la definisce. Sono i modellini a creare spazi e oggetti, i personaggi si muovono nel nulla delle loro aspirazioni e sentimenti». La regia è piena di gustose trovate (divertente lo stralunato cameriere; semplici e già visti, ma nuovi sul palco dell’opera lirica, i trucchi come quello della frittata che dalla padella vola nel piatto dall’altra parte del palcoscenico) e assieme alla frizzante musica ripartita su vari numeri concertati servono a rendere meno lunghe le quasi tre ore di musica.

Tutti gli interpreti condividono lo spirito dello spettacolo, si muovono con disinvoltura, ammiccano con arguzia alle telecamere. E in più cantano bene. Sonia Prina, Clarice, è per una volta in abiti femminili (e sono gli anni ’60 a dominare nei costumi e nelle scenografie), ma nel finale si traveste nuovamente da maschiaccio per giocare il suo tiro al conte. Sempre a suo agio nelle agilità rossiniane (come in quelle delle opere barocche che il contralto lombardo frequenta con assiduità), il timbro caldo, l’ironia con cui disegna il personaggio: tutto fa di lei una prima donna di questo repertorio. Tenore di grazia dal timbro naturale, piacevole, perfettamente intonato e dallo stile vocale impeccabile quello del giovane granadino José Manuel Zapata, il «modesto amante non corrisposto» Giocondo. Ancora spagnolo il baritono Joan Martín-Royo, perfetto nella caricatura del giornalista cialtrone. Cileno invece l’altro baritono, Christian Senn, efficace nella caratterizzazione del poeta da strapazzo. Elegante ma non all’altezza delle difficoltà della parte il conte di François Lis. Delle due dame rivali la migliore è la baronessa Aspasia di Jennifer Holloway, essendo un po’ stridula la voce di Laura Giordano, Donna Fulvia. Uno spiritato Jean-Christophe Spinosi dirige in maniera piuttosto vertiginosa il volonteroso Ensemble Matheus con i suoi strumenti d’epoca.

La musica è stipata in un disco che ha soltanto una traccia stereo (l’altra è un commento per i non vedenti). Il secondo disco contiene due interviste e un divertente film di mezz’ora in cui l’artista video Pierrick Sorin si autocelebra con ironia. Il magro opuscolo ha unicamente l’elenco dei partecipanti e l’indice delle scene. Pur essendo prodotto con il Regio di Parma i due dischi non hanno sottotitoli in italiano.

The First Emperor

First Emperor

★★★★☆

Hollywood, Puccini e l’Opera di Pechino si incontrano al MET

La solitudine del potere è uno dei temi dell’ambizioso lavoro di Tan Dun, compositore cinese contemporaneo classe 1957 attivo a Hollywood dove ha scritto le colonne sonore di film di enorme successo quali Hero di Ang Lee e La tigre e il dragone di Zhang Yimou. Assieme a quest’ultimo, che già aveva curato la messa in scena della Turandot a Pechino, il musicista, che era stato costretto a lavorare nei campi di riso durante la Rivoluzione Culturale, dirige nel 2006 alla Metropolitan Opera House di New York la sua quinta opera composta dopo Nine Songs, Marco Polo, The Peony Pavillion e Tea: A Mirror of Soul.

The First Emperor è la storia del primo imperatore cinese – quel Qin Shi Huang (260-210 a.C.) che fece costruire la Grande Muraglia, unificò la Cina, ne divenne il primo imperatore e fu sepolto a Xi’an assieme al famoso esercito di terracotta – e del suo musicista Gao Jianli.

Il libretto in inglese di Ha Jin e Tan Dun narra che Qin è stanco della musica del suo paese e decide che sia il suo amico d’infanzia Gao Jianly a comporgli un inno, metafora dello spirito della nazione da lui unificata. Gao è di una provincia non ancora assoggettata al suo dominio e un esercito viene mandato per sconfiggerne le resistenze. Qin premia il suo generale promettendogli la figlia in sposa, la principessa Yueyang che non ha l’uso delle gambe. Gao è condotto prigioniero e alle dimostrazioni di affetto di Qin risponde che gli ha distrutto il villaggio e ucciso la madre e che si rifiuta di scrivergli un inno. Yueyang è colpita dal suo temperamento e chiede al padre di lasciargli l’uomo se lo convincerà a fargli scrivere l’inno. L’improvvido padre accetta e la ragazza riesce nel suo scopo. Non solo, i due si innamorano e questo basta a far guarire la principessa. Il miracolo fa dapprima gioire Qin, ma poi è preda della collera quando conosce le origini della cura mentre l’onore vuole che sia mantenuta la promessa fatta al suo generale.
Nel secondo atto vediamo gli schiavi che costruiscono la Grande Muraglia e Gao ascolta il loro canto lamentoso. Yueyang rifiuta di sposare il generale e minaccia il suicidio, ma Qin vince le resistenze di Gao dicendogli che prima o poi il generale morirà in battaglia. Il giorno dell’incoronazione l’imperatore ascende al trono quando gli appare il fantasma della figlia che si è uccisa per non sacrificare il suo amore alla ragion di stato. La salita è ancora una volta interrotta dall’apparizione del fantasma del generale ucciso anche lui che accusa della sua morte Gao, che appare in carne e ossa in cima alla scalinata e per il dolore della morte dell’amata si mozza la lingua a morsi e la sputa sull’imperatore che lo trafigge con una spada. Solo, l’imperatore raggiunge il trono e sente finalmente l’inno: è il canto degli schiavi, la vendetta postuma di Gao.

Commissionata dal teatro americano e con il ruolo titolare creato apposta per Plácido Domingo, l’opera di Tan Dun unisce la forma occidentale con stili orientali nella vocalità e nella partitura, molto percussiva e timbrica, ma anche piena di passaggi orchestrali che ricordano Puccini, Turandot ovviamente, e romantiche colonne sonore hollywoodiane. Agli strumenti classici in orchestra si aggiungono strumenti cinesi quali lo zheng, una specie di cetra suonata in scena e protagonista di uno strabiliante trio con le due arpe all’inizio del secondo atto, varie percussioni tra cui tamburi suonati con le pietre e vasi di ceramica. È questa la parte più interessante della partitura.

La vocalità non convenzionale richiama lo stile vocale dell’Opera di Pechino, con quei suoni acuti, i glissandi e i rigidi melismi. Ma è in scena che le maschere, i costumi, i ballerini acrobati, gli atteggiamenti fanno riferimento al teatro cinese, soprattutto nella figura interpretata da Wu Hsing-Kuo, attore dell’Opera di Pechino.

Destinatario del ruolo titolare, a 66 anni Domingo si getta nella parte con l’entusiasmo e la professionalità che da sempre gli viene riconosciuta. Elizabeth Futral gestisce con efficacia l’impervia vocalità della principessa e analogamente Paul Groves quella di Gao. Il coro, sterminato e schierato sulla enorme scalinata ideata dallo scenografo Fan Yue, ha un grande ruolo in questo lavoro e lo disimpegna egregiamente. La regia di Zhang Yimou utilizza le convenzioni del teatro cinese senza però riuscire a farci partecipi del dramma. Dal punto visuale lo spettacolo è comunque molto suggestivo.

Le tre ore di musica sono ripartite su due dischi e come extra ci sono il making of dello spettacolo e un’intervista di Beverly Sills a Plácido Domingo. Nonostante l’alta definizione l’immagine non è eccezionale, qui ci voleva proprio un blu-ray. Sottotitoli in varie lingue, italiano compreso.

Die Meistersinger von Nürnberg

Meistersinger

★★☆☆☆

Il pubblico di Bayreuth si scatena alla prima regia di Katharina Wagner

Figlia di Wolfgang figlio di Siegfried figlio di Richard Wagner, Katharina debutta come regista nel 2007 in questa discussa produzione de I Maestri cantori di Norimberga. L’anno successivo sarà posta alla direzione del Festival di Bayreuth assieme alla sorellastra Eva.

Si sperava che un intervento irriverente e iconoclasta portasse un po’ di brio nella messa in scena di quest’opera la cui vicenda non è certo tra le più avvincenti e la musica, magnificamente orchestrata nella sua sapiente polifonia, è però volta al passato con il contrappunto, i corali e quei numeri chiusi cui il compositore aveva rinunciato negli altri suoi lavori.

Invece, l’umorismo tedesco della pronipote si è sommato all’umorismo tedesco del bisnonno con un risultato raggelante: il calzolaio Hans Sachs è sempre scalzo (che trovata geniale…) e attaccato alla macchina da scrivere e alla sigaretta; Walther è un writer che imbratta col pennello qualunque superficie gli venga a tiro, compreso l’abito dell’amata; la lavagna su cui segnare gli errori è la tavola di un puzzle infantile (con una veduta della vecchia Norimberga) e Beckmesser indossa una maglietta con la scritta «Beck in town», eccetera.

I Maestri cantori furono infatti la pausa ‘comica’, l’evasione che il compositore si concedeva tra i problemi di allestimento del Tannäuser a Parigi e l’impegno intellettuale della scrittura del Tristano (che viene citato nel terzo atto). Nella figura di Beckmesser poi Wagner aveva messo in caricatura quella di Eduard Hanslick, il critico viennese a lui sempre avverso.

Atto I. La chiesa di S. Caterina di Norimberga in un giorno di giugno, vigilia di San Giovanni. La Messa sta finendo e i fedeli intonano un corale, quando il giovane cavaliere Walther von Stolzing arriva, in cerca dell’amata Eva. Trovatala, le chiede se sia già promessa a qualcuno. Eva è subito attratta da Walther, ma deve informarlo che suo padre, il fabbro e maestro cantore Veit Pogner, ha stabilito di dare sua figlia in moglie al vincitore della gara di canto della gilda dei maestri cantori, prevista per il giorno seguente, festa di S. Giovanni. La nutrice di Eva, Magdalene, convince il suo corteggiatore, David, a istruire Walther nell’arte dei maestri cantori, in modo che possa essere accolto nella loro corporazione nell’assemblea che si svolgerà in chiesa dopo la Messa, e possa quindi avere il diritto di partecipare alla contesa. Mentre la chiesa viene preparata per l’incontro, Walther si intrattiene a parlare con David, che gli dice di essere l’apprendista di Hans Sachs, calzolaio, maestro cantore molto rispettato. Quindi dà al giovane una rapida e piuttosto confusa lezione sulle regole di composizione e di canto dei Maestri cantori, con una sfilza di melodie diverse per temi, toni, piedi metrici (molti dei quali erano effettivamente esistenti all’epoca). Walther rimane costernato dalla complessità delle regole, ma è tuttavia deciso a concorrere. Cominciano intanto ad arrivare nella chiesa i Maestri cantori, tra cui Hans Sachs, lo scrivano comunale Beckmesser, e il padre di Eva, Veit Pogner. Beckmesser, anche lui innamorato di Eva e deciso a ottenere la vittoria nella gara canora, concepisce subito un’istantanea antipatia per Walther. Pogner prende la parola e annuncia che il vincitore della gara avrà l’onore di sposare sua figlia Eva; quando Hans Sachs obietta che la giovane deve pure avere il diritto di esprimere il suo parere sulla questione, Pogner replica che ella potrà rifiutare il vincitore, ma che dovrà comunque scegliere un Maestro cantore. Un’altra proposta di Sachs, che sia il popolo e non la corporazione a nominare il vincitore, viene rigettata dagli altri Maestri. Walther viene introdotto nell’assemblea, e i Maestri lo accoglieranno fra loro se saprà cantare una canzone di sua composizione: Beckmesser, il “marcatore” (chiamato così perché dovrà annotare su una lavagna tutti gli errori eventualmente commessi dal giovane), sarà colui che dovrà giudicare la sua esibizione. Walther si lancia in un gioioso inno alla primavera e all’amore, in forma libera, improvvisato e pieno di licenze, e il suo mancato rispetto delle rigide regole fa inorridire i Maestri: il suo canto è costantemente interrotto dallo sfregare del gessetto di Beckmesser, che, malignamente, annota gli errori uno dopo l’altro. Sebbene Sachs insista perché a Walther sia permesso di finire la sua canzone, il resto del gruppo boccia la prova del giovane cavaliere.
Atto II. A sera, in una strada di Norimberga, all’angolo fra la casa di Pogner e la bottega di Hans Sachs. David informa Magdalena del fallimento di Walther. Delusa dalla notizia, Magdalena si allontana dimenticandosi di dare a David il cibo che aveva portato per lui. Ciò suscita la derisione e le prese in giro degli altri apprendisti, e David sta per reagire quando Sachs arriva e con un fischio chiama il suo apprendista nella bottega. Entra Pogner con Eva, i due conversano: Eva esita a chiedergli l’esito dell’esame di Walther, e Pogner dentro di sé comincia ad avere dei dubbi sull’opportunità di offrire sua figlia in sposa come premio per il vincitore della gara. Entrati in casa, Magdalene si avvicina e rivela a Eva il fallimento di Walther. Rattristata, Eva decide di chiedere consiglio al saggio Sachs. Al crepuscolo, Hans Sachs si siede di fronte a casa per lavorare a un nuovo paio di scarpe per Beckmesser, riflettendo nel frattempo sulla canzone di Walther, che l’ha molto colpito. Sopraggiunge Eva, e i due discorrono sulla gara canora dell’indomani. Eva non nasconde il suo scarso trasporto per Beckmesser, che sembra essere l’unico possibile vincitore, e accenna al fatto che non le dispiacerebbe se fosse Sachs, vedovo, a vincere. Sebbene colpito, Sachs protesta che sarebbe un marito troppo vecchio per lei. Dopo vari incitamenti, Sachs riferisce dell’esito deludente della prova di Walther all’assemblea della corporazione. Questo fa inquietare e rattristare Eva, confermando il sospetto di Sachs che ella sia innamorata del giovane, ma egli non dà a vedere di aver capito, anzi, continua a deprecare l’ignoranza del cavaliere, provocando la stizza di Eva, che lo lascia furibonda. La ragazza si imbatte in Magdalene, che la informa che Beckmesser sta arrivando per farle una serenata: Eva, decisa ad andare in cerca di Walther, ordina a Magdalene di mettersi alla finestra della sua stanza da letto fingendo di essere lei. Proprio mentre Eva sta per andare, compare Walther, che le racconta del suo fiasco. Ferito nel suo orgoglio nobiliare e ormai convinto di non poter ottenere la vittoria nella tenzone imminente, Walther convince Eva a fuggire con lui. Ma Sachs ha ascoltato il loro piano, e mentre i giovani passano là davanti, illumina la strada con la sua lanterna, costringendoli a nascondersi in un angolo buio di fianco alla casa di Pogner. Walther vorrebbe affrontare Sachs, ma deve rinunciare per l’arrivo di Beckmesser. Mentre Eva e Walther stanno nascosti, Beckmesser comincia la sua serenata. Sachs lo interrompe iniziando a cantare una chiassosa canzone mentre martella la forma delle scarpe. Irritato, Beckmesser gli dice di smetterla, ma il calzolaio replica innocentemente che proprio lui, Beckmesser, gli ha ordinato le scarpe per l’indomani, perciò non può interrompersi. Beckmesser, che ha visto qualcuno affacciarsi alla finestra di Eva (Magdalena travestita), non ha tempo per mettersi a discutere: riluttante, accetta la proposta di Sachs, cioè che egli farà da “marcatore”, segnalando ogni errore nella serenata con una martellata sulle scarpe. Beckmesser comincia, ma commette così tanti errori che, colpo dopo colpo, Sachs è in grado di portare a termine il lavoro ben prima del previsto, con grande scorno dello scrivano. Il rumore sveglia l’intero vicinato. David, riconoscendo nella donna alla finestra la sua amata Magdalena e vedendo qualcuno farle una serenata, si getta addosso a Beckmesser. Gli altri apprendisti si buttano nella mischia, e la situazione degenera in una rissa gigantesca che coinvolge tutto il quartiere. Nella confusione, Walther prova a scappare con Eva, ma Sachs spinge Eva in casa sua e trascina Walther nella sua bottega. La quiete viene ristabilita, improvvisamente così come era stata rotta, dall’intervento del guardiano di notte.
Atto III. Di buon mattino, Sachs è nella sua bottega e legge un grosso volume in-folio. Perso nei suoi pensieri, dapprima non risponde a David, di ritorno dall’aver consegnato a Beckmesser le sue scarpe. David alla fine riesce ad attirare l’attenzione del suo maestro, e i due discutono sui festeggiamenti di quel giorno: è la festa di San Giovanni, l’onomastico di Hans (diminutivo di Johannes) Sachs. David recita i suoi versi di auguri per Sachs, ed esce. Rimasto solo, Sachs riflette sulla rissa della scorsa notte e, più in generale, sulla follia che governa il mondo, stravolgendone ogni tanto a capriccio il corso normale (Wahn! Wahn! Überall Wahn!: “Follia! Follia! Follia dappertutto!”). Il suo tentativo di impedire una fuga era sfociato in uno scoppio di violenza. Ciò nonostante, egli è deciso a far sì che quel giorno la follia lavori per i suoi scopi. Walther, che ha passato la notte in casa di Sachs, entra nella stanza. Racconta a Sachs di aver fatto un sogno meraviglioso e, incoraggiato dal calzolaio, decide di metterlo in musica. Il ciabattino maestro cantore illustra al cavaliere il valore delle regole poetiche e lo esorta a dare forma e schema opportuni al contenuto del sogno: con l’aiuto di Sachs, che scrive il testo mentre il giovane lo canta, Walther riesce così a produrre alcune strofe di una “canzone da maestro”. Manca ancora da comporre un’ultima strofa, ma Walther è stanco: i due uomini si allontanano per prepararsi per la festa. Beckmesser, ancora pesto per la notte precedente, entra nella bottega. Vede il foglio con i versi della canzone, scritti nella calligrafia di Sachs, e conclude che anche il ciabattino aspiri alla mano di Eva e voglia partecipare alla gara. Sachs rientra nella stanza, e Beckmesser gli chiede dei versi. Ma Sachs dichiara di non essere interessato a gareggiare per Eva, anzi offre allo stupito Beckmesser di prendere i versi da lui scritti: addirittura, promette di non rivendicare mai la canzone come sua. Beckmesser si allontana in tutta fretta per prepararsi per la gara, entusiasta all’idea di poter usare versi scritti dal famoso Hans Sachs per la sua canzone. Venuta con la scusa che le sue scarpe nuove hanno bisogno di un ritocco, Eva arriva alla bottega in cerca di Walther. Sachs capisce che le scarpe vanno benissimo, ma finge di mettersi al lavoro su di esse. Mentre lavora, racconta a Eva di aver sentito una bellissima canzone, cui mancava solamente la fine. In quel momento entra Walther, splendidamente vestito per la gara, e canta l’ultima strofa della sua canzone: Eva piange di gioia al vederlo, e la coppia è colma di gratitudine verso Sachs, che ha insegnato a Walther la sua arte per amore della giovane. Eva chiede a Sachs di perdonarla per aver giocato con i suoi sentimenti, ma il calzolaio si schermisce, lamentando la sua sorte di anziano artigiano, poeta e vedovo. Alla fine, tuttavia, ammette che, nonostante i suoi sentimenti per Eva, vuole evitare la sorte di Re Marke (autocitazione di Wagner di un’altra sua opera, Tristano e Isotta: Re Marke è il marito di Isotta, che lo tradisce con suo nipote Tristano), e perciò dà ai due innamorati la sua benedizione. Sopraggiungono David e Magdalena. Sachs comunica loro che è stata composta una nuova canzone da maestro, cui, secondo le regole dei Maestri cantori, deve essere dato un nome. Poiché un apprendista non può fare da testimone a un battesimo, Sachs promuove David al rango di “compagno”, con il tradizionale schiaffo sulle orecchie. Battezza quindi la canzone l'”aria felice del sogno svelato del mattino” (Selige Morgentraum-Deutweise). Dopo aver riflettuto sulla loro buona sorte, il quintetto parte per andare alla festa. La festa di San Giovanni ha luogo nel prato vicino al fiume Pegnitz. Sfilano tutte le corporazioni cittadine, ciascuna con il proprio inno, e per ultimi i Maestri cantori. All’arrivo di Hans Sachs, il più amato fra questi, la folla intona il suo Lied più celebre. La gara inizia. Il primo concorrente è Beckmesser, che tenta di usare i versi cedutigli da Sachs. Ma egli non è riuscito a imparare una canzone non sua e non è in grado di adattare le parole a una melodia appropriata, e finisce per cantare in modo così impacciato da suscitare l’ilarità del pubblico. Prima di andarsene via pieno di rabbia, Beckmesser afferma che l’autore della canzone è Hans Sachs, ma questi nega: per dimostrarlo, chiama Walther a esibirsi.La canzone di Walther non rispetta le regole dei Maestri cantori, ma è così bella che tutti ne sono conquistati. Egli viene proclamato vincitore all’unanimità, e ottiene in premio la mano di Eva. I Maestri cantori vogliono nominarlo sul posto membro della corporazione, ma inizialmente egli rifiuta; Sachs interviene, consigliandogli di non offendere i Maestri, che, nonostante i loro difetti, hanno avuto a cuore la sopravvivenza dell’eccelsa arte tedesca anche in quegli anni turbolenti. Walther alla fine accetta, e nell’apoteosi generale la folla canta ancora una volta le lodi di Hans Sachs, l’amato Maestro Cantore di Norimberga.

La storia di Hans Sachs, già oggetto di un lavoro di Lortzing, in Wagner è quella umanissima di un artista che cerca di conciliare l’arte con la vita e rinuncia alla fanciulla che ama in favore del giovane cavaliere. Il conflitto tra libera ispirazione e accademia era poi un tema ben noto al compositore e nel 1868 queste vicende avevano un che di autobiografico.

In breve si tratta di un outsider ribelle (Walther) che vuole vincere il suo premio (Eva) in una gara canora e viene allenato da un maturo maestro (Hans, anche lui innamorato di Eva) contro un pedante conservatore (Beckmesser). E questo per quasi cinque ore di musica

Nell’allestimento di Bayreuth sponsorizzato dalla Campbell (in bella mostra in scena a più riprese vengono utilizzate le lattine delle sue zuppe) ci si poteva aspettare che la pronipote facesse uno spettacolo che esaltasse la figura dell’avo, invece bisogna riconoscere che Katharina si è tenuta ben lontana da un’operazione di celebrazione, anzi il suo è quasi un feroce giudizio sull’opera di cui mette criticamente in luce aspetti non gradevoli, quali ad esempio la perorazione finale di Hans a mantenere l’arte germanica intatta da influenze straniere – idea sposata con convinzione da un frequentatore di Bayreuth negli anni ’20, tale Adolf Hitler.

Ma in tutta onestà il risultato non è ben riuscito e innumerevoli sono state le contestazioni rivolte alla regista alla fine dell’opera. La goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza degli spettatori è stata probabilmente il balletto dei mascheroni di cartapesta dei ‘grandi tedeschi’ (Bach, Schiller, Goethe, Dürer, Beethoven, Wagner stesso ecc.) in mutande e affetti da satiriasi oppure l’uomo nudo che esce dalla barella ricoperta di terra durante l’esibizione di Beckmesser oppure la pioggia di scarpe da ginnastica nel bailamme del finale secondo (quella in verità un’idea divertente) oppure il clima da «X Factor» della gara canora oppure… Beh, non sono mancati i momenti inutilmente provocatori di una messa in scena non banale, molto ricca di trovate, ma incoerente e spesso incomprensibile, un ‘Konzept’ interessante che però non è stato tradotto in una drammaturgia efficace.

Quella che è venuta a mancare completamente nello spettacolo è poi la ‘Personregie’, l’interazione fra i personaggi: qui nessuno si guarda se non in cagnesco e l’unico personaggio che dimostri un briciolo di umanità è quello di Hans. Gli interpreti non sembrano sempre convinti di quello che viene loro richiesto di fare, sono frastornati e probabilmente ne risente anche la loro prestazione vocale.

Franz Hawlata, Hans Sachs, è un ottimo attore ma la parte è troppo impegnativa per lui. La voce di Klaus Florian Vogt è particolare e può non piacere, ma svetta come Walther von Stolzing, mentre Michael Volle è un Sixtus Beckmesser eccellentemente caratterizzato. Modeste le voci femminili. Direzione pesante e senza colori di Sebastian Weigle.

La registrazione in blu-ray si riferisce alla ripresa dell’anno successivo, dopo alcuni cambiamenti di regia e dopo che molti dei dissensi si sono trasformati in applausi. Questa sembra essere una costante di Bayreuth: col tempo tutto viene digerito. Fu così per le regie di Wieland Wagner, poi con il Ring di Chéreau. Più recentemente anche i topi del Lohengrin di Neuenfels sembra siano stati ampiamente metabolizzati.

La passeggera

Passenger

★★★★☆

«Se l’eco delle loro voci si estingue, ci estingueremo anche noi»

Nel 1962 esce il romanzo Pasażerka di Zofia Posmyz, una scrittrice polacca nata a Cracovia nel ’32 che era sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau in cui era stata internata. Nel suo lavoro la Posmyz narra di una ex SS che quindici anni dopo la fine della guerra crede di riconoscere, in una passeggera del transatlantico su cui viaggia, una prigioniera che credeva morta. L’angoscioso riaffiorare dei ricordi costituisce la trama del romanzo che nel 1959 era stato trasmesso come il radiodramma La passeggera della cabina 45 dalla radio polacca.

Mieczysław Weinberg (anche Vainberg o Vaynberg), il musicista, nasce a Varsavia nel 1919. L’invasione tedesca del ’39 lo costringe a fuggire prima a Minsk e poi in Russia dove diventa amico di Šostakovič. Rimarrà in questo paese fino alla morte nel 1996 e riconosciuto come compositore russo a tutti gli effetti.

Il libretto de La Passeggera è di Aleksandr Medvedev e mescola testi in tedesco, inglese, polacco, francese, yiddish e russo. La première dell’opera prevista al Bolshoi nel 1968 non ebbe mai luogo e l’opera dovette attendere il 2006 per essere eseguita in forma di concerto a Mosca e il 2010 per essere finalmente messa in scena al Festival di Bregenz dedicato al prolifico ma misconosciuto compositore.

Atto I. Primo quadro. Anni ’60. Sulla nave. Anna Lisa Kretschmar (nata Franz) è in viaggio verso la sua futura destinazione in Sud America con suo marito, un potenziale ambasciatore. Lisa, ex guardia del campo di concentramento, crede di riconoscere in un’altra passeggera salita a bordo da un porto inglese l’ex prigioniera Martha a bordo e confessa a suo marito che all’epoca era un membro delle SS. Suo marito teme per la sua carriera e la sensazione di essere stato tradito, ma quando Anna gli chiede di perdonarlo, la consola: “Tutti hanno il diritto di dimenticare la guerra”.  Alla fine della scena, entrambi sono sollevati di apprendere che la straniera è una cittadina inglese. Secondo quadro. 1943, Auschwitz. I capi delle SS si lamentano della noia nel campo e della difficoltà di sbarazzarsi di tutti quei cadaveri. Si consolano con la certezza di soddisfare la volontà del Führer. La sorvegliante Lisa decide di rendere Martha la sua confidente al fine di facilitare il comando della sua squadra di prigioniere. Terzo quadro. La  baracca. Il coro delle detenute saluta un nuovo arrivo, Yvette da Digione. Altri vengono da Varsavia, Kiev, Zagabria, Praga, Minsk, Parigi. Una greca vuole morire. Martha non può confortarla. Una madre chiede a Dio la salvezza dei figli e la punizione dei suoi aguzzini. Un prigioniero chiede se anche i tedeschi hanno un dio e se è severo come il Kapo. Una donna viene brutalmente picchiata. Quando viene trovato un foglietto, Lisa costringe Martha a leggerlo per la traduzione. Martha la tradisce, dichiarando una lettera d’amore al posto di un messaggio segreto. Sulla nave. In una breve scena Lisa si lamenta con suo marito per questa frode, che di cui ha saputo in seguito. Walter tace.
Atto II. Quarto quadro. Rivista ad Auschwitz. Lisa requisisce i violini dei prigionieri. Viene selezionato un violino prezioso in modo che il comandante del campo di concentramento possa far suonare il suo valzer preferito da un occupante. Il musicista, che dovrebbe suonare lo strumento, risulta essere il fidanzato di Martha, Tadeusz, dal quale è stata separata due anni prima. Quando sono sorpresi da Lisa, questa mostra comprensione e consente loro di incontrarsi. Entra una donna che ha stato trovato il messaggio e si scopre che questo le è stato dato da Tadeusz. Quinto quadro. Nel laboratorio del campo di concentramento, Tadeusz riceve un altro messaggio. Tadeusz è impegnato a creare una madonna da campo a somiglianza di Martha. Quando Lisa si offre di consentire a Tadeusz un altro incontro con Martha, quest’ultimo rifiuta perché non vuole correre alcun rischio per Martha e non vuole essere in debito con Lisa. Sulla nave. Sempre in una breve scena, parla a suo marito di questo rifiuto: “Non voleva favori da parte mia, Walter! […] Sebbene sapesse che sarebbe stato condannato a morte, ha rifiutato. Erano tutti ciechi di odio … “. Sesto quadro. Baracca. Martha celebra il suo ventesimo compleanno nel campo di concentramento e inizia una grande aria in cui canta dell’onnipresenza della morte nel campo. Quando Lisa si presenta nella caserma, dice a Martha che Tadeusz si è rifiutato di incontrarla. Martha e i detenuti ritengono che questa decisione sia quella giusta. I prigionieri iniziano a parlarsi del tempo dopo la guerra con le lezioni di lingua. Katja canta del sole invernale. Lisa dice a Martha di aver segnalato il suo contatto proibito: “Vai al blocco, sai cosa intendo…”. Prima di ciò, tuttavia, potrà ascoltare Tadeusz nel concerto. “Questo sarà il mio ultimo regalo per te”. La scena termina con una preghiera a Dio  che termina “se esisti”. Settim quadro. La nave. Lisa scopre che la passeggera sconosciuta in cui crede di riconoscere Martha è polacca. Lisa giustifica il suo passato: “Ero una tedesca onesto. Sono orgogliosa di aver fatto il mio dovere. ” Suo marito conferma: “Era solo una guerra. È molto tempo fa. Ognuno ha il diritto di dimenticare la guerra… il tempo ha spazzato via tutto…”. Ottavo quadro. Concerto ad Auschwitz. Nel campo di concentramento, a Tadeusz viene chiesto di suonare il valzer e la sua condanna a morte gli viene rivelata: “Suona come fossi davanti a Dio il Signore. Lo incontrerai presto”. Invece del valzer Tadeusz suona la “Ciaccona” dalla Partita in re minore di Bach.  Le guardie delle SS rompono il violino e lo portano via dopo averlo picchiato brutalmente. Sulla nave. Lisa vince la sua paura e partecipa a una serata di ballo. La passeggera entra e consegna un biglietto all’orchestra con la sua richiesta di musica. L’orchestra suona il valzer preferito dal comandante. Epilogo. La vecchia Martha sul fiume. Martha è seduta lungo la riva del  fiume vicino a casa. Sono passati molti anni. Chiede dei suoi amici che sono stati uccisi: “Se un giorno l’eco delle loro voci si estingue, ci estingueremo anche noi”. Ricorda che lei e i suoi compagni detenuti avevano giurato di non perdonare mai i loro aguzzini.

L’opulenta orchestra comprende molti strumenti a fiato, tra cui sei corni, quattro trombe e tre tromboni, e una folta percussione. Lo stile ricorda molto le opere di Šostakovič e il loro sarcasmo, evidente qui ad esempio nel sardonico terzetto delle SS del primo atto che si lamentano per la noia del lavoro e per la difficoltà di smaltire così tanti cadaveri ogni giorno. Musichette da ballo e canzonette si inseriscono nella trama orchestrale con effetto crudelmente straniante.

L’opera ha momenti di stanchezza accanto ad altri di grande intensità, come la scena del prigioniero Tadeusz, un violinista che deve suonare un allegro valzerino per i comandante del campo e che, in un moto di dignità che gli costerà la vita, intona invece la Ciaccona di Bach ripresa da tutta l’orchestra con effetto struggente. Il canto dei solisti è un declamato melodico che si appoggia agli interventi molto timbrici dell’orchestra e particolarmente toccanti sono i numerosi interventi corali.

La scena è divisa dal regista Pountney e dal suo scenografo Johan Engels in due parti: in alto abbiamo il bianco ponte di prima classe del transatlantico su cui Lisa Franz, ex guardia SS, cerca di sfuggire al suo passato assieme al marito Walter. In basso l’interno del lager con i binari dei carrelli che trasportano materiale e le baracche delle prigioniere. Tra queste c’è Martha, la più orgogliosa, la meno disposta a perdonare il male che le viene fatto. Sola consolazione per lei è aver ritrovato l’amato Tadeusz. Nel finale Martha diventa Zofia Posmyz che sola davanti al sipario abbassato riprende nella sua aria i versi di Paul Éluard citati.

Il giovane direttore Teodor Currentzis, di origine greca ma di formazione russa, dimostra notevole maturità alla testa dell’orchestra dei Wiener Philharmoniker. Molto intense le prestazioni di Michelle Breedt ed Elena Kelessidi, le rivali Lisa e Martha rispettivamente. Nel ruolo del marito il nostro Roberto Saccà. Tra i tanti altri bravi interpreti si nota per la sua altezza Richard Angas.

Ricca la confezione contenente un opuscolo con il libretto e varie note in quattro lingue (inglese, francese, tedesco e polacco) le stesse dei sottotitoli. Negli extra un interessante documentario.

L’Ercole amante

Ercole amante

★★★★★

Venezia a Parigi

Mettiamoci il cuore in pace: per vedere un’opera barocca italiana occorre varcare le Alpi. Non c’è nemmeno un teatro italiano in questo elenco di rappresentazioni degli ultimi anni (fonte: operabase.com): Monteverdi è stato allestito a Barcellona, Berlino, Amsterdam, Bruxelles, Madrid, Aix-en-Provence, Glyndebourne; Vivaldi a Parigi, Zurigo, Valencia, Copenhagen; Vinci a Parigi e Vienna; Galuppi ad Atene e Würzburg; Cavalli ancora Parigi, New York, Monaco, Cincinnati e ancora Amsterdam, da cui proviene questa produzione del 2009 della Nederlandse Opera con la regia di David Alden e la direzione musicale di Ivor Bolton.

Opera voluta da Mazzarino per festeggiare le nozze del ventiquattrenne re con l’infanta di Spagna Maria Teresa e nello stesso tempo glorificare la casa di Francia, a causa dell’incendio del teatro in cui era previsto il debutto nel 1659, Ercole amante poté andare in scena solo nel 1662 nella nuova grandiosa Salle des Machines innalzata alle Tuileries con Cavalli stesso a dirigerla e il re in scena come danzatore. Nata per un’occasione così particolare, l’opera non fu mai più ripresa se non in tempi recenti.

Tratto dalla mitologia e dalle Trachinie di Sofocle, la vicenda narra della non eroica fatica di Ercole di sedurre la bella Iole scatenando nell’ordine: la gelosia della consorte Deianira; l’angoscia del figlio Hyllo amante corrisposto di Iole; la vendetta dello spirito di Eutyro (Eurito in Sofocle) che ha ucciso e infine l’ira della dea Giunone protettrice degli amori coniugali. Ecco la vicenda nelle parole stesse del librettista Francesco Buti.

«Avendo Ercole soggiogata l’Eocalia, Hyllo figlio di lui, e Iole figlia del vinto re Eutyro arsero di reciproco affetto, e non molto dopo innamoratosi della medesima anche Ercole la chiese per moglie al di lei padre, che non consapevole ancora dell’impegno di essa con Hyllo la promise, e informatone poi la negò, onde il semideo offeso di ciò l’uccise, che però tanto più divenuta Iole avversa al rifiutato amante, Venere come di lui amica, desiderosa di rendergliela propizia, e diffidando poter per ciò disporre di Cupido a sua voglia, ha ricorso a gl’incanti, a che Giuno altrettanto contraria studiosamente s’oppone; tra gli avvenimenti della qual gara avvistosi Ercole della rivalità del figlio, e insospettito (benché a torto) che questi gl’insidiasse alla vita, risolve di porlo a morte, ma sopraggiunta Deianira madre di lui, che per ministero della fama era stata a tal luogo tratta dalla gelosia si frappone per salvarlo senza però ottenere altro, che di accomunar a sé stessa un sì gran pericolo, onde Iole non scorgendo a ciò altro riparo, si risolve di dare all’infuriato eroe (purché perdoni ad Hyllo) qualche speranza di piegarsi ad amarlo, ad intuito di che Ercole sospendendo l’esecuzione de’ suoi sdegni, manda (per assicurarsi dalla gelosia) il figlio prigioniero in una torre sul mare, e ordina (per liberarsi dalle contrarietà) che la moglie torni in Calidonia, quindi mostrandosi ogn’or più determinato, quando non ottenga le bramate nozze, di vendicarsene atrocemente contro Hyllo, riduce Iole alla necessità d’acconsentir più tosto a quelle, che di soffrir lo scempio di questi, il quale ricevuta di ciò novella, si precipita avanti a gli occhi della madre, (che andava per consolarlo) disperato nel mare, ma comparsa l’ombra d’Eutyro alla figlia, e con più ragioni, e particolarmente con la già seguita sommersione di Hyllo, dissuadendola dal maritarsi con Ercole, vien suggerito alla gelosa moglie da Licco suo servo, che con la veste lasciatagli già da Nesso Centauro, avrebbe ella potuto annichilare nello spirito del marito ogn’altro affetto ch’il suo; onde Iole più ripugnante che mai di maritarsi con Ercole, appigliandosi anch’essa a simile speranza, si carica di applicare a suo tempo un tal rimedio, dal cui contatto cagionate poi nel semideo furiose smanie, che lo portano a gettarsi nelle fiamme, si scopre essere stato il di lui figlio salvato in vita da Nettuno per opera di Giunone, dalla quale venendo appresso manifestato, come Ercole in vece di ardersi era stato da Giove trasportato al cielo, e quivi sposato alla Bellezza, e che così libero dalle passioni umane, consentendo egli al matrimonio d’Hyllo, e Iole, aveva ottenuto alle sue felicità il consenso della medesima dèa, seguono parimente le nozze tra li due amanti».

Ercole nel testo di Francesco Buti per Cavalli non è un personaggio simpatico e non si ferma davanti a nulla per assecondare i suoi furiosi umori. Alla fine è assalito dagli spiriti di tutti quelli a cui ha fatto un torto e soccombe solo quando gli viene fatta indossare la camicia avvelenata del centauro Nesso.

Strano testo per celebrare un matrimonio! Nei divertenti documentari allegati come extra nei due dischi lo stesso regista si chiede se il cardinale Mazzarino avesse mai letto il libretto che non solo mette in burla gli amori di corte

… per questa corte ogn’or volare
si vede un sì gran numero d’amori,
che non abbiamo a fare,
che ne vengan di fuori.
Ama Hyllo Iole riamato, e l’ama
Ercole assai malvisto, ama Nicandro
Licori, e questa Oreste, e Oreste Olinda,
e Olinda, e Celia scaltre
aman le gemme, e l’oro,
e Niso, ed Alidoro aman cent’altre.

ma a più riprese si fa beffe dei vincoli matrimoniali. Ma il tema di fondo era l’invincibilità erculea del monarca francese e tanto bastò a renderla adatta alla bisogna.

La regia di Alden qui è meno irriverente di altre volte e si adatta con naturalezza allo spettacolo barocco fatto di sorpresa e meraviglia fino all’eccesso. Superlativi i costumi: nel prologo l’infanta Maria Teresa sembra uscita dal famoso quadro di Velázquez e Luigi XIV da quello di Rigaud, per poi assumere le fattezze di un Rambo ipertrofico quando veste le attillate brache di pelle, il giubbotto leopardato, la cintura da campione di wrestling e la catenona d’oro sui pettorali gonfi di un Ercole dal testosterone facile.

Non meno strepitosi sono i costumi (di Constance Hoffman) degli altri personaggi e colorate le scenografie di Paul Steinberg con gustosi particolari quali la statua d’oro di Giunone incombente sui personaggi, i pesci e l’attinia radiocomandati del quadro marino, le bare della scena agli inferi. Come nella prima rappresentazione sono state inserite le danze scritte da Lully, qui con le ironiche coreografie di Jonathan Lunn. Quest’opera sembra quindi celebrare il passaggio dal glorioso recitar cantando dell’opera italiana alla tragédie lyrique francese con il testimone che passa da Venezia a Parigi.

Nel ruolo del titolo Luca Pisaroni, aitante e autoironico, si conferma come l’eccelso basso-baritono che conoscevamo e tratteggia un Ercole ora eroico ora regalmente elegante, ora brutalmente arrogante ora lirico amante, sfoderando tutte le tinte della sua prodigiosa vocalità e dizione perfetta. La moglie Deianira è un’ottima Anna Maria Panzarella, dal timbro magnifico e dall’intensità interpretativa che ricorda la compianta Cathy Berberian – e non le si potrebbe fare complimento maggiore. La nobiltà della sua regalità offesa emerge con abbagliante evidenza nel suo lamento del quarto atto, scena altrettanto ammirabile del lamento della perduta Arianna monteverdiana. Anche il quartetto «Dall’occaso agl’Eoi» ha un profumo madrigalistico che sembra arrivare direttamente dai libri del maestro cremonese. Giunone glamour, nobilmente sdegnata, ma anche dea perfida è quella di Anna Bonitatibus, perfetta nei furori come nei lamenti lirici. Come Iole Veronica Cangemi conferma l’impressione avuta da altre sue interpretazioni: voce eterogenea nei vari registri, non perfetta dizione (diamine, non è argentina e quindi mezza italiana?) e una dose di affettazione, qui forse più tollerabile. Tra le voci maschili si confermano eccellenti interpreti Tim Mead e Umberto Chiummo, mentre riserve si possono avanzare per Jeremy Ovenden e Mark Tucker. Una sorpresa invece gli acuti e la presenza scenica di Marlin Miller, un Licco impertinente e libidinoso.

Sul podio un ispirato e instancabile Ivor Bolton magnificamente assecondato dagli strumentisti dello scintillante e duttile Concerto Köln ci fa dimenticare che sono oltre quattro ore di musica.

Œdipus Rex

Oedipus rex

★★★★★

Intensa versione dell’opera-oratorio di Stravinskij

Il debutto di Œdipus Rex al Théâtre Sarah Bernhardt nel 1927 avvenne in forma di concerto, ma già l’anno successivo veniva presentata in forma scenica, come in questo caso.

Il libretto di Jean Cocteau, tratto dall’omonima tragedia di Sofocle, venne tradotto in un latino costellato di arcaismi da Jean Daniélou. L’uso della lingua è stato giustificato dal compositore per dare al lavoro un tono arcaico e sottolineare la tragedia dell’impotenza umana di fronte al fato ineluttabile.

I tebani sono afflitti dalla peste che gli dèi hanno inviato loro perché la città ospita un assassino, l’uccisore del re Laio. L’attuale re Edipo ne ha sposato la moglie Giocasta, la quale non vuole credere agli oracoli che avevano predetto che Laio sarebbe stato ucciso da suo figlio all’incrocio di tre strade, poiché lei sa che suo figlio è morto. Tiresia rivela però che è la madre di Edipo, salvato da un pastore sulle montagne dove era stato abbandonato, e che lo stesso Edipo ha ucciso un vecchio a un trivio. Il re di Tebe ha quindi ammazzato suo padre e sposato la madre. Sconvolta dalla rivelazione Giocasta si uccide ed Edipo si acceca e si autoesilia.

La brusca virata di Stravinskij verso il neoclassicismo avveniva dopo la composizione dei noti balletti in cui il compositore si era affermato come musicista d’avanguardia ben saldo però nella scrittura tonale in contrapposizione al rivale Schönberg.

In Œdipus Rex i personaggi non dialogano tra loro, ma piuttosto espongono la propria vicenda in maniera antirappresentativa, come raccontata da un estraneo. Nei due atti l’azione è ripartita nei consueti numeri chiusi dell’opera – arie, cori, anche un duetto – secondo un principio di stilizzazione che si rivela nella vocalità modellata ora su stili settecenteschi ora su prosodie arcaicizzanti.

Un narratore introduce e collega le varie scene con i suoi interventi parlati e nel prologo ci comunica che stiamo per «ascoltare una versione in latino di Edipo Re. Per evitare di affaticarvi l’udito e la memoria (…) vi anticiperò i momenti salienti del dramma di Sofocle». In questa versione il narratore è un’attrice giapponese in abiti tradizionali e la sua furente recitazione aggiunge una giusta nota di estraneità alla rappresentazione.

Siamo infatti al Saito Kinen Festival di Matsumoto nel 1992 e l’orchestra è diretta con la solita cura per i particolari da Seiji Ozawa. La regista cinematografica Julie Taymor firma la regia – la sua prima regia d’opera – di questa affascinante versione del mito, George Tsypin le scene, Emy Wada le maschere. Gli abitanti di Tebe sono ricoperti di terra come le statue dell’esercito cinese di Xi’an e i personaggi principali hanno mani di terracotta e la testa sormontata da una maschera stilizzata che si rifà sia alla scultura cicladica sia all’antica scultura giapponese Haniwa. Le maschere senza occhi e bocca sottolineano l’impotenza dei personaggi di fronte alle forze del fato e danno loro una dimensione più grande del reale facendone in tal modo delle icone monumentali. Allo stesso tempo lasciano il viso scoperto ai cantanti, esigenza imprescindibile di cui alcuni registi non sembrano talora essere consapevoli.

L’idea di fondo dei costumi e della scenografia è il deterioramento, la corruzione che intacca i sudditi di Edipo. Così la pioggia finale significherà la loro purificazione. I movimenti sono lenti e ieratici e si fa uso di marionette e pupazzi per sottolineare ancora di più l’impotenza umana.

Interpreti di gran lusso per i personaggi di Edipo (Philip Langridge), Giocasta (Jessye Norman) e Creonte (un giovane e già autorevole Bryn Terfel).

Il danzatore giapponese di butoh Min Tanaka è l’Edipo che si è accecato e che sceglie la strada dell’esilio. Liberato dagli strati di terra che lo rendevano un pupazzo rigido, si allontana nudo sotto la pioggia che finalmente libera la città dalla pestilenza.

Nei documentari contenuti negli extra interviste con la regista, lo scenografo, il direttore e la Norman che parlano della loro esperienza di dodici anni prima, infatti ci son voluti più di dieci anni perché fosse pubblicata la registrazione in digitale di questo notevole spettacolo che ha avuto solo due rappresentazioni. Qualità da video VHS e una sola traccia audio.

Gloriana

Gloriana

★★★☆☆

Long live the Queen

Nel 2013 la Royal Opera House (ROH) celebra il centenario della nascita di Benjamin Britten con questa riedizione dell’opera che nel 1953 il compositore inglese scrisse in onore dell’incoronazione di Elisabetta II, di cui ricorre quindi il sessantesimo anno di regno.

La vicenda di Elisabetta I e del conte di Essex, che conosciamo molto romanzata dal Roberto Devereux di Donizetti, viene ripresa dal librettista William Plomer dal saggio del 1928 di Lytton Strachey Elisabeth and Essex: A Tragic History. ‘Gloriana’ era l’epiteto con cui veniva chiamata la grande monarca del XVI secolo.

Gloriana è l’unica opera a sfondo storico di Britten, ma all’interno della vicenda pubblica la vicenda privata della regina e del suo giovane favorito offrono temi più consoni all’autore di Peter Grimes e del Giro di vite. Elisabetta firmerà la condanna di Robert in preda allo stesso tormentato conflitto tra dovere e sentimento che assilla il capitano Vere in Billy Budd ma che ritroviamo anche nel Don Carlos di Verdi.

La prima dell’opera non fu un grande successo: il pubblico che affollava la ROH, in gran parte formato da membri della casa reale e dignitari, si aspettava una convenzionale e giubilante celebrazione della monarchia inglese e invece si trovò ad assistere ad una fosca vicenda che termina in maniera pessimistica con una vecchia regina amareggiata che contempla la morte. Per di più una regina che si innamora di un uomo molto più giovane di lei, un tema abbastanza imbarazzante all’epoca. I guanti indossati dai presenti attutirono ancora di più i tepidi applausi, non mancò chi ribattezzò l’opera “Boriana” (bore=noia in inglese) e il lavoro scomparve dal repertorio del Covent Garden.

Anche se non la più ispirata delle opere di Britten, la musica è comunque di grandissimo livello. L’ambientazione della vicenda porta il compositore a evocare atmosfere timbriche e armoniche dell’epoca Tudor, ma queste non rimangono semplici citazioni, anzi si integrano perfettamente nel tessuto dell’opera secondo la sua peculiare estetica musicale. Così è per la declamazione che guarda a Purcell, le ballate e le canzoni al liuto a Dowland. Le danze di corte del secondo atto (marcia, pavana, gagliarda, moresca, volta e courante) avranno vita propria nei repertori delle orchestre sinfoniche.

La messa in scena di Richard Jones colloca la vicenda in una di quelle “coronation hall” che i devoti sudditi nel 1953 erigevano per allestire ingenue rappresentazioni teatrali celebranti il glorioso passato della casa regnante. Vediamo quindi la giovane regina benignamente assistere a una di queste rappresentazioni e davanti a lei passano tutti i suoi predecessori in ordine inverso, da Giorgio VI a Giorgio V a Edoardo VII giù giù fino a Giacomo I, successore di Elisabetta I.

Le attività dietro le quinte sono a vista e ciò serve a evidenziare i due livelli dell’allestimento: la cornice dello spettacolo amatoriale e la vicenda storica rappresentata. Come la musica anche i costumi appartengono alle due epoche e assieme agli abiti cinquecenteschi spuntano tailleur anni ’50. È questo connubio tra sfarzo regale e nostalgia per un’Inghilterra che stava ancora riprendendosi dalla guerra a costituire l’aspetto più toccante dello spettacolo.

La regia è curatissima, ma sembra fintamente semplice e riesce a coordinare un numero cospicuo di persone, compreso un coro di ragazzini i quali tra una scena e l’altra diventano simpatiche ‘didascalie’.

Il direttore Paul Daniel è quanto di meglio ci si possa aspettare per mettere in evidenza le ricchezze orchestrali del lavoro. Gli interpreti vocali sono tutti di buon livello. Citiamo soltanto per brevità l’ambizioso e giovanile Essex di Toby Spence, il lord Mountjoy di Mark Stone, le ladies di Kate Royal e Patricia Bardon. Nel ruolo eponimo il soprano Susan Bullock non si risparmia scenicamente (impressionante la scena senza parrucca e senza trucco), ma manca di regalità nel gesto e la voce, non omogenea, denuncia affaticamento.

Ottima ripresa video di Robin Lough. Come bonus due documentari sull’allestimento dell’opera e su Britten.