Francesco Buti

L’Ercole amante

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Francesco Cavalli, L’Ercole amante

★★★★★

Parigi, Opéra Comique, 6 novembre 2019

(registrazione video)

L’ultima ingloriosa fatica di Ercole

«Così un giorno avverrà con più diletto, | che della Senna in su la riva altera | altro gallico Alcide arso d’affetto | giunga in pace a goder bellezza ibera». È in queste parole cantate da Bellezza ed Ercole nel finale dell’opera che si esplicita l’occasione di questo lavoro, ossia il matrimonio di Luigi XIV con l’infanta di Spagna Maria Teresa. Nel prologo il coro di fiumi aveva inneggiato al periodo di pace e ai «beati imenei | di Maria e di Luigi».

Sono note le vicissitudini della rappresentazione e il fatto che dopo la prima L’Ercole amante non vedesse più la scena fino a tempi moderni. “Tragedia” definisce il librettista Francesco Buti questa che per noi è una tragicommedia dell’ultima e fallita fatica di Ercole, quella cioè di conquistare Iole, la figlia del re Eutyro, che egli ha assassinato, e per di più è innamorata, ricambiata, del figlio di Ercole. Come già aveva già fatto David Alden alla Nederlandse Opera, qui all’Opéra Comique i registi Valerie Lesort e Christian Hecq allestiscono uno spettacolo barocco nel vero senso del termine, ricostruendo un lussureggiante apparato scenico con ingegnose macchine teatrali, costumi allegri e fantasiosi di Vanessa Sannino e discreti movimenti coreografici. La meraviglia e la sorpresa si susseguono in continuazione nella loro messa in scena improntata all’ironia, dove il “mostro” addomesticato da Ercole segue l’eroe con la sua clava in bocca come un cagnolino, lo strascico di Dejanira è un chilometrico fiume di lacrime, la mongolfiera di Giunone è fatta col pavone con cui prima era arrivata e il Sonno è un Bibendum che addormenta Ercole con i suoi effluvi corporei…

La scenografia di Laurent Peduzzi è costituita da una gradinata semicircolare che ricorda la cavea del Teatro all’Antica di Sabbioneta. Il colore bianco e la rigidità delle forme potrebbero richiamare un certo Pier Luigi Pizzi, qui sono invece luogo di mille sorprese con buchi e botole per ogni dove da cui spuntano dèi, cadaveri zombie, piante animate, le facce dorate dei coristi, colonne danzanti e quant’altro. Veri fuochi d’artificio e una pioggia di coriandoli dorati sullo sfondo dei pianeti e degli dèi sospesi per aria costituiscono la logica conclusione di una serata che non ha risparmiato sulle continue trovate sceniche.

A tanta meraviglia visiva corrisponde l’energica direzione musicale di Raphaël Pichon alla guida del suo ensemble Pygmalion, coro e orchestra di livelli eccellenti. I mezzi strumentali, inusitati per l’epoca, ricreano qui un universo sonoro cangiante, molto “francese”, con vividi contrasti di colore, come quando alla gaia danza degli zefiri seguono i funebri accordi della scena del sepolcro di Eutyro (IV, 6). Ma innumerevoli sono i momenti felici della lettura di Pichon: il trattamento madrigalistico del coro «Pronuba e casta dea» (V, 2), la infinita dolcezza del bellissimo duetto di Dejanira con Hyllo (III, 9), il terzetto con cui termina l’atto quarto «Una stille di speme | oh che mar di dolcezza!» (IV, 7), il quintetto finale, le tante pagine strumentali. Vari tagli portano a poco più di tre ore la durata della musica.

Sugli interpreti c’è la sicurezza di specialisti in questo repertorio: la Anna Bonitatibus della produzione di Bolton ritorna nel ruolo di Giunone con ironia e forte caratterizzazione; tra Giuseppina Bridelli, Dejanira «misera madre al largo pianto», e Francesca Aspromonte, divisa tra l’amore per il padre e il figlio di chi l’ha ucciso, non si sa chi più lodare per bellezza di timbro, proprietà stilistica, soavità della linea di canto; non è da meno Giulia Semenzato nelle tre parti di Venere, Bellezza, Cinzia seppure con una dizione poco comprensibile. Il controtenore Ray Chenez presta la sua voce un po’ esile al Paggio e timbro luminoso e squillo potente sono quelli di Krystian Adam, Hyllo. Gloriosamente baritonale, Nahuel di Pierro (Ercole) delinea il personaggio vanaglorioso e antipatico in cui si doveva rispecchiare la regalità di Luigi XIV. Nettuno ed Eutyro si avvalgono del registro basso di Luca Tittoto, come sempre stilisticamente esemplare. La parte comica di Licco è affidata a Dominique Visse sulle cui particolarità vocali c’è poco da aggiungere rispetto a quanto rilevato altre volte.

 

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Orfeo

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Luigi Rossi, Orfeo

★★★★★

Nancy, Opéra National de Lorraine, 9 febbraio 2016

(video streaming)

L’altro Orfeo

Orfeo, la seconda delle due uniche opere di Luigi Rossi (l’altra è Il palazzo incantato dall’Orlando Furioso dell’Ariosto), si colloca tra L’Orfeo monteverdiano e quello gluckiano ed è la prima opera a essere messa in scena in Francia il 2 marzo 1647 nel nuovo Palais Royal per iniziativa del Mazzarino e alla presenza della reggente Anna d’Austria e del giovanissimo futuro re Luigi XIV. Il pubblico parigino assiste a uno spettacolo di un genere tutto nuovo arrivato dall’Italia in cui i personaggi si esprimono solo con il canto. Malgrado l’ostacolo della lingua, il libretto complesso e le sei ore di durata, sono tutti sedotti dai prodigi delle macchine, dalla grandiosità degli apparati «vari et magnifici», dalla rapidità dei cambiamenti di scena, dalle coreografie e dal virtuosismo dei cantanti.

41 anni dopo quello monteverdiano, il librettista Francesco Buti stravolge i canoni poetici del mito introducendo elementi farseschi e personaggi secondari, sovrannaturali o caricaturali, sviluppando le nozze dei due giovani in due atti e relegando al terzo le peripezie oltretombali seguite alla morte di Euridice.

Ridotto dalle originali sei a tre ore, il lavoro di Luigi Rossi viene ora presentato all’Opéra di Nancy. Sulle note di una passacaglia suonata da un’arpa barocca, Orfeo in abiti moderni è solo su un palcoscenico nudo e capiremo alla fine trattarsi di un flashback, così infatti terminerà l’opera. Subito dopo attacca la solenne sinfonia e la scena si affolla di altri personaggi: la mamma della sposa indaffarata con i preparativi della festa, la sposa stessa che si deve ancora finire di vestire e il padre che ripassa il discorso che farà alla cerimonia mentre arrivano altri eleganti invitati. Seguirà la festa di nozze con la vecchia zia ubriaca e gli interventi scherzosi del solito buontempone. Il serpente, qui portato dal rivale, farà il suo dovere e dopo aver tutti pianto la povera Euridice nella cassa ci si trasferisce nell’Ade.

La regista Jetske Mijnssen fa rivivere sotto i nostri occhi un’opera di 370 anni con un allestimento che traduce l’evento mitico in una vicenda moderna e azzera del tutto il significato encomiastico del potere sovrano annunciato nel prologo – qui sostituito dalla passacaglia strumentale di cui s’è detto – e nell’epilogo, anch’esso omesso, che sarebbe intonato da Mercurio che illustra la metafora per cui la lira di Orfeo è il giglio di Francia e Orfeo qui perde sì Euridice, ma la perdita è preludio alla sua immortalità, così come quella della sua lira, trasformata in costellazione.

Con decisi tagli, il direttore Raphaël Pichon e la regista concentrano l’azione sui personaggi principali e sulla loro vicenda. Si assiste dunque a un triangolo amoroso in cui grande importanza ha qui il ruolo di Aristeo, innamorato di Euridice, e la cui gelosia è il motore della catastrofe finale. È lui infatti che manda il serpente del cui veleno lui solo ha l’antidoto, ma che Euridice rifiuta perché fedele a Orfeo. Aristeo, che non lo aveva previsto, diventa pazzo e Orfeo scende agl’inferi. Il resto è noto.

Coprodotto con Versailles e Bordeaux lo spettacolo, di grande forza visiva ed eleganza, è suddiviso tra la festa per le nozze in color crema, la morte di Euridice in cui tutti vestono un luttuoso nero e la scena nell’Ade dai surrealistici costumi delle figure dell’oltretomba.

L’Ensemble Pygmalion utilizza strumenti antichi e sotto la sapiente mano di Pichon dipana le note che accompagnano questa vicenda cui danno voce ottimi interpreti. Orfeo qui ha meno spazio che in Monteverdi o in Gluck ma la voce dolente di Judith van Wanroij ne fa comunque un personaggio di grande intensità. Francesca Aspromonte è un’Euridice memorabile di grande bellezza sia scenica che vocale. Il mezzosoprano Giuseppina Bridelli completa efficacemente il trio come l’innamorato respinto Aristeo e nella selva degli altri ottimi comprimari segnaliamo la Venere/Proserpina di Giulia Semenzato, il Plutone di Luigi de Donato, la nutrice di Ray Chenez, uno dei tanti controtenori qui impegnati, il Satiro di Renato Dolcini e la vecchia di Dominique Visse.

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L’Ercole amante

Ercole amante

★★★★★

Venezia a Parigi

Mettiamoci il cuore in pace: per vedere un’opera barocca italiana occorre varcare le Alpi. Non c’è nemmeno un teatro italiano in questo elenco di rappresentazioni degli ultimi anni (fonte: operabase.com): Monteverdi è stato allestito a Barcellona, Berlino, Amsterdam, Bruxelles, Madrid, Aix-en-Provence, Glyndebourne; Vivaldi a Parigi, Zurigo, Valencia, Copenhagen; Vinci a Parigi e Vienna; Galuppi ad Atene e Würzburg; Cavalli ancora Parigi, New York, Monaco, Cincinnati e ancora Amsterdam, da cui proviene questa produzione del 2009 della Nederlandse Opera con la regia di David Alden e la direzione musicale di Ivor Bolton.

Opera voluta da Mazzarino per festeggiare le nozze del ventiquattrenne re con l’infanta di Spagna Maria Teresa e nello stesso tempo glorificare la casa di Francia, a causa dell’incendio del teatro in cui era previsto il debutto nel 1659, Ercole amante poté andare in scena solo nel 1662 nella nuova grandiosa Salle des Machines innalzata alle Tuileries con Cavalli stesso a dirigerla e il re in scena come danzatore. Nata per un’occasione così particolare, l’opera non fu mai più ripresa se non in tempi recenti.

Tratto dalla mitologia e dalle Trachinie di Sofocle, la vicenda narra della non eroica fatica di Ercole di sedurre la bella Iole scatenando nell’ordine: la gelosia della consorte Deianira; l’angoscia del figlio Hyllo amante corrisposto di Iole; la vendetta dello spirito di Eutyro (Eurito in Sofocle) che ha ucciso e infine l’ira della dea Giunone protettrice degli amori coniugali. Ecco la vicenda nelle parole stesse del librettista Francesco Buti.

«Avendo Ercole soggiogata l’Eocalia, Hyllo figlio di lui, e Iole figlia del vinto re Eutyro arsero di reciproco affetto, e non molto dopo innamoratosi della medesima anche Ercole la chiese per moglie al di lei padre, che non consapevole ancora dell’impegno di essa con Hyllo la promise, e informatone poi la negò, onde il semideo offeso di ciò l’uccise, che però tanto più divenuta Iole avversa al rifiutato amante, Venere come di lui amica, desiderosa di rendergliela propizia, e diffidando poter per ciò disporre di Cupido a sua voglia, ha ricorso a gl’incanti, a che Giuno altrettanto contraria studiosamente s’oppone; tra gli avvenimenti della qual gara avvistosi Ercole della rivalità del figlio, e insospettito (benché a torto) che questi gl’insidiasse alla vita, risolve di porlo a morte, ma sopraggiunta Deianira madre di lui, che per ministero della fama era stata a tal luogo tratta dalla gelosia si frappone per salvarlo senza però ottenere altro, che di accomunar a sé stessa un sì gran pericolo, onde Iole non scorgendo a ciò altro riparo, si risolve di dare all’infuriato eroe (purché perdoni ad Hyllo) qualche speranza di piegarsi ad amarlo, ad intuito di che Ercole sospendendo l’esecuzione de’ suoi sdegni, manda (per assicurarsi dalla gelosia) il figlio prigioniero in una torre sul mare, e ordina (per liberarsi dalle contrarietà) che la moglie torni in Calidonia, quindi mostrandosi ogn’or più determinato, quando non ottenga le bramate nozze, di vendicarsene atrocemente contro Hyllo, riduce Iole alla necessità d’acconsentir più tosto a quelle, che di soffrir lo scempio di questi, il quale ricevuta di ciò novella, si precipita avanti a gli occhi della madre, (che andava per consolarlo) disperato nel mare, ma comparsa l’ombra d’Eutyro alla figlia, e con più ragioni, e particolarmente con la già seguita sommersione di Hyllo, dissuadendola dal maritarsi con Ercole, vien suggerito alla gelosa moglie da Licco suo servo, che con la veste lasciatagli già da Nesso Centauro, avrebbe ella potuto annichilare nello spirito del marito ogn’altro affetto ch’il suo; onde Iole più ripugnante che mai di maritarsi con Ercole, appigliandosi anch’essa a simile speranza, si carica di applicare a suo tempo un tal rimedio, dal cui contatto cagionate poi nel semideo furiose smanie, che lo portano a gettarsi nelle fiamme, si scopre essere stato il di lui figlio salvato in vita da Nettuno per opera di Giunone, dalla quale venendo appresso manifestato, come Ercole in vece di ardersi era stato da Giove trasportato al cielo, e quivi sposato alla Bellezza, e che così libero dalle passioni umane, consentendo egli al matrimonio d’Hyllo, e Iole, aveva ottenuto alle sue felicità il consenso della medesima dèa, seguono parimente le nozze tra li due amanti».

Ercole nel testo di Francesco Buti per Cavalli non è un personaggio simpatico e non si ferma davanti a nulla per assecondare i suoi furiosi umori. Alla fine è assalito dagli spiriti di tutti quelli a cui ha fatto un torto e soccombe solo quando gli viene fatta indossare la camicia avvelenata del centauro Nesso.

Strano testo per celebrare un matrimonio! Nei divertenti documentari allegati come extra nei due dischi lo stesso regista si chiede se il cardinale Mazzarino avesse mai letto il libretto che non solo mette in burla gli amori di corte

… per questa corte ogn’or volare
si vede un sì gran numero d’amori,
che non abbiamo a fare,
che ne vengan di fuori.
Ama Hyllo Iole riamato, e l’ama
Ercole assai malvisto, ama Nicandro
Licori, e questa Oreste, e Oreste Olinda,
e Olinda, e Celia scaltre
aman le gemme, e l’oro,
e Niso, ed Alidoro aman cent’altre.

ma a più riprese si fa beffe dei vincoli matrimoniali. Ma il tema di fondo era l’invincibilità erculea del monarca francese e tanto bastò a renderla adatta alla bisogna.

La regia di Alden qui è meno irriverente di altre volte e si adatta con naturalezza allo spettacolo barocco fatto di sorpresa e meraviglia fino all’eccesso. Superlativi i costumi: nel prologo l’infanta Maria Teresa sembra uscita dal famoso quadro di Velázquez e Luigi XIV da quello di Rigaud, per poi assumere le fattezze di un Rambo ipertrofico quando veste le attillate brache di pelle, il giubbotto leopardato, la cintura da campione di wrestling e la catenona d’oro sui pettorali gonfi di un Ercole dal testosterone facile.

Non meno strepitosi sono i costumi (di Constance Hoffman) degli altri personaggi e colorate le scenografie di Paul Steinberg con gustosi particolari quali la statua d’oro di Giunone incombente sui personaggi, i pesci e l’attinia radiocomandati del quadro marino, le bare della scena agli inferi. Come nella prima rappresentazione sono state inserite le danze scritte da Lully, qui con le ironiche coreografie di Jonathan Lunn. Quest’opera sembra quindi celebrare il passaggio dal glorioso recitar cantando dell’opera italiana alla tragédie lyrique francese con il testimone che passa da Venezia a Parigi.

Nel ruolo del titolo Luca Pisaroni, aitante e autoironico, si conferma come l’eccelso basso-baritono che conoscevamo e tratteggia un Ercole ora eroico ora regalmente elegante, ora brutalmente arrogante ora lirico amante, sfoderando tutte le tinte della sua prodigiosa vocalità e dizione perfetta. La moglie Deianira è un’ottima Anna Maria Panzarella, dal timbro magnifico e dall’intensità interpretativa che ricorda la compianta Cathy Berberian – e non le si potrebbe fare complimento maggiore. La nobiltà della sua regalità offesa emerge con abbagliante evidenza nel suo lamento del quarto atto, scena altrettanto ammirabile del lamento della perduta Arianna monteverdiana. Anche il quartetto «Dall’occaso agl’Eoi» ha un profumo madrigalistico che sembra arrivare direttamente dai libri del maestro cremonese. Giunone glamour, nobilmente sdegnata, ma anche dea perfida è quella di Anna Bonitatibus, perfetta nei furori come nei lamenti lirici. Come Iole Veronica Cangemi conferma l’impressione avuta da altre sue interpretazioni: voce eterogenea nei vari registri, non perfetta dizione (diamine, non è argentina e quindi mezza italiana?) e una dose di affettazione, qui forse più tollerabile. Tra le voci maschili si confermano eccellenti interpreti Tim Mead e Umberto Chiummo, mentre riserve si possono avanzare per Jeremy Ovenden e Mark Tucker. Una sorpresa invece gli acuti e la presenza scenica di Marlin Miller, un Licco impertinente e libidinoso.

Sul podio un ispirato e instancabile Ivor Bolton magnificamente assecondato dagli strumentisti dello scintillante e duttile Concerto Köln ci fa dimenticare che sono oltre quattro ore di musica.