Mese: febbraio 2015

La cambiale di matrimonio

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★★★☆☆

Il talento precoce di Rossini nella sua prima farsa

La cambiale di matrimonio è la prima opera del pesarese a essere messa in scena, novembre 1810. Su libretto di Gaetano Rossi e tratta dalla commedia Il matrimonio per lettera di cambio di Camillo Federici, questa farsa rappresenta per Rossini una ghiotta occasione allorché l’impresario del San Moisè gli chiede di tamponare una falla aperta nella programmazione del teatro a seguito dell’improvvisa defezione di un compositore precedentemente impegnato. Si trattava di scrivere come quinto spettacolo della stagione un atto unico che il compositore completò in corsa contro il tempo, prassi che in seguito diventerà normalità nella sua carriera. La vicenda è assai semplice ma in grado di fornire lo spunto per gustose arie e concertati che rivelano appieno il talento precoce del diciottenne Rossini.

Sala nella casa di Tobia Mill. Norton e Clarina, servitori del ricco mercante inglese Tobia Mill, sono intenti a raccontarsi le ultime novità circa il futuro della figlia del padrone, la bella Fanny. I due devono separarsi quando il vecchio Mill entra nella stanza per studiare, senza grande successo, il mappamondo: le sue ridicole cognizioni geografiche non gli permettono di comprendere molto! Norton e Clarina rientrano recando un’importante lettera proveniente dal nuovo mondo; costretto malvolentieri a interrompere i suoi studi, Mill si rallegra ben presto nel vedere che la lettera è di Slook, il suo corrispondente coloniale in America. Nella lettera l’americano annuncia la sua venuta per ritirare la «mercanzia» indicata nella cambiale stipulata con Mill: questi legge all’esterrefatto Norton il documento con cui Slook, specificando le qualità richieste, gli ha commissionato una moglie. Si tratta di un affare di grande importanza e Mill, senza consultare l’interessata, ha già deciso che la «mercanzia» in questione sia proprio sua figlia Fanny. Invano Norton cerca di dissuaderlo; Mill concludendo l’affare intende maritare la figlia al ricco americano. Quando entrambi si sono allontanati, fanno il loro ingresso Fanny e il suo innamorato Edoardo Milfort. Non essendo Edoardo sufficientemente facoltoso, Fanny non ha mai confessato il suo legame al padre; i due attendono la venuta del ricco zio di Edoardo per confessare il loro amore. Norton, raggiunti i giovani, li mette subito al corrente degli intenti del padre; improvvisamente entra anche Mill e Norton giustifica la presenza del sospetto Edoardo presentandolo come il nuovo computista. Tranquillizzatosi, Mill affida alla figlia una lettera che ella dovrà consegnare al forestiero in arrivo. Si tratta di Slook: appena giunto, l’americano tenta goffamente di mostrare tutte le sue buone maniere «europee» senza peraltro dimenticare di essere un uomo aduso alla pratica «semplicità d’America». Rimasto finalmente solo con Fanny, Slook apprende dalla lettera che è proprio lei la fanciulla destinatagli da Mill come moglie. Fanny tenta di convincere Slook a ri-nunciare alla sua «mercanzia», quindi sopraggiunge Edoardo che intima all’americano di abbandonare i suoi intenti e di non fare parola di ciò al vecchio Mill: Slook, impaurito di vedersi «cavare gli occhi», si allontana con i due giovani senza comprendere la ragione di tanta collera. Clarina, preoccupata per la giovane Fanny che vorrebbe vedere felice, viene confortata da Norton, sicuro che il matrimonio con Slook andrà in fumo; il servo, appena ne ha l’occasione, insinua nella mente di Slook che il capitale da lui acquistato (la futura moglie) sia già ipotecato. Sempre più sconvolto, il povero Slook si reca da Mill per rinunciare all’affare ma come tutta risposta viene sfidato a duello: Mill, che si sente raggirato e offeso, si allontana. Dopo breve, Slook scopre il legame d’amore che unisce Edoardo a Fanny e, commosso dalle loro parole, propone di girare la cambiale di matrimonio ad Edoardo, nominandolo al tempo stesso suo erede; l’americano non può credere che in Europa un padre obblighi la propria figlia a sposarsi contro volontà. Fanny, nel ringraziarlo, esterna tutta la sua incontenibile gioia. Nel frattempo, Mill, che si sta preparando per il duello, viene colto da grande paura al pensiero dei possibili esiti della sfida: Slook, sopraggiunto e accortosi dei suoi timori, si prende beffa di lui finché tutti vengono ad interrompere la scena. Edoardo esibisce la cam-biale di matrimonio chiedendo soddisfazione, ma Mill, sorpreso, non vuole ancora saperne. Solo Slook riesce a convincerlo di acconsentire al matrimonio di Fanny con Edoardo, assicurandolo di aver nominato il giovane suo erede; così girata, la cambiale assicurerà felicità a tutti e in capo ad un anno frutterà un bel nipotino al vecchio Mill.

Interessante è la distinzione tra i due bassi della vicenda: “buffo caricato” per Tobia Mill e “buffo nobile” per Mr. Slook, con relative tessiture diverse e contrapposte. Nell’edizione del 2006 al Rossini Opera Festival Tobia Mill è un Paolo Bordogna non in serata e che fa un po’ rimpiangere l’Enzo Dara nella stessa parte quindici anni prima. Più a posto vocalmente invece lo Slook di Fabio Maria Capitanucci, anche lui scenicamente spassoso.

I due giovani duettano in «Tornami a dir che m’ami», che sarà letteralmente citato nel Don Pasquale di Donizetti. Fanny è una Desirée Rancatore un po’ stridula ma che svetta nelle agilità e negli acuti di «Ah nel sen di chi s’adora», un anticipo della cavatina di RosinaEdoardo è Saimir Pirgu, tenore albanese di piacevole presenza e bell’accento scelto a suo tempo da Claudio Abbado come Ferrando per il suo Così fan tutte di Ferrara.

L’orchestra Haydn di Bolzano e Trento è diretta con buon mestiere da Umberto Benedetti Michelangeli mentre l’impianto scenico e la regia si devono a un Luigi Squarzina in gran forma.

Le nozze di Figaro

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Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro

 ★★☆☆☆

Torino, Teatro Regio, 20 febbraio 2015

E questa sarebbe una “folle giornata”? (1)

È una giornata venata di mestizia, invece, quella con cui il Regio di Torino completa la trilogia dapontiana dopo il Così fan tutte (Franklin/Borrelli) del 2012 e il Don Giovanni (Hogwood/Placido-Borrelli) del 2013.

La direzione di Yutaka Sado è la principale causa del velo di spleen steso su questo meraviglioso congegno teatrale («Opera buffa in quattro atti» dice il libretto): colori spenti, dinamiche minime, tempi rilassatissimi, solenni se non estenuati, addirittura esasperanti o pericolosamente dilatati che permettono sì di assaporare ogni singola nota della partitura («che vanno bene per le pennellate malinconiche, ma non tengono il passo con la brillantezza e l’umorismo dominanti» come scrive Giorgio Pestelli), ma rischiano di mettere talora in difficoltà i cantanti.

Già, i cantanti…

Le donne prima. Susanna dal timbro venato di metallo e dalla dizione migliorabile quella di Ekaterina Bakanova, talora un po’ troppo soubrette. Delude la Contessa di Carmela Remigio, dal timbro senza luce se non addirittura sfibrato, affetta da eccessi di temperamento e complessivamente più sfiorita Rosina che Contessa. Meglio il Cherubino di Paola Gardina, corretta stilisticamente e dalla voce sopranile, ha la verve ma le manca un po’ la sensualità che si richiede al personaggio.

E veniamo agli uomini. Il Conte indicato in cartellone si è perso per strada (o meglio ha preferito un ingaggio più gratificante oltre oceano) e invece di Ildebrando D’Arcangelo (Figaro delle Nozze di Salisburgo e Milano) abbiamo Vito Priante, il Figaro del Barbiere torinese dell’anno scorso che già era piaciuto poco allora e come Conte quest’anno piace ancora meno: legnoso, poco espressivo, scenicamente impacciato.

Ottimo interprete rossiniano, Mirko Palazzi qui delude invece nelle vesti di Figaro. Stilisticamente perfetto e con una voce leggera, non ha però dimostrato il brio e la simpatia che il suo personaggio dovrebbe avere, o meglio non ha trasmesso l’empatia che ci si aspetta. Per un confronto si veda il recente Figaro di un cantante da cui non ci si aspettava tanto, il russo Il’dar Abdrazakov e la sua eccezionale presenza scenica. Ma probabilmente è causa della regia che non ha avuto altrettanta cura della direzione attoriale dei personaggi.

Già, la regia…

De Le nozze di Figaro negli ultimi anni sono stati fatti importanti allestimenti da Jonathan Miller a David McVicar a Claus Guth, per non parlare di quello glorioso di Strehler, ripreso recentemente sia a Milano sia a Parigi.

Qui a Torino questa volta ci viene risparmiato Borrelli e abbiamo invece la regia di Elena Barbalich che, con le scene e i costumi di Tommaso Lagattolla, ricostruisce un Settecento che più Settecento di così non si può: strutture architettoniche che hanno come modelli le planches dell’Encyclopédie, ma realizzate con quello che sembra un brutto truciolato; costumi curatissimi che citano la pittura dell’epoca (sono già stati fatti altrove i nomi di Chardin, Liotard, Fragonard e Goya); tinte pastello spente e poudré per gli elementi di scena; grande uso di candele di cera.

Non mancano momenti visivamente suggestivi e si fa apprezzare l’uso degli elementi mobili, funzionali alla definizione dei vari ambienti, ma le luci hanno brutte ombre e devono essere corrette. Importuni sono poi i numerosi domestici indaffarati a spostare sedie, allestire tavoli, accendere e spegnere candele, che distraggono inutilmente l’attenzione dalla musica. Anche l’idea di per sé curiosa dei tre bambini figli della Contessa e affidati alle cure di Barbarina si scontra però con l’opportunità che la madre intoni in loro presenza la cavatina «Porgi, amor, qualche ristoro» rubando importanza all’ingresso in scena della Contessa, nel libretto ritardato all’inizio del secondo atto proprio per aumentarne l’effetto.

Una regia in conclusione senza idee che non si preoccupa del messaggio quasi rivoluzionario (siamo nel maggio del 1786!) della pièce di Beaumarchais (2), degli attriti fra le classi, delle istanze illuministiche o della crisi della civiltà settecentesca. Non pochi poi gli “errori”: perché il violino invece della chitarra (siamo pur sempre in Spagna!), gli stivali del giardiniere in casa, il tavolo da osteria per la cena dei nobili, il passaggio delle ore della “folle giornata”, Cherubino che scappa ancora con i vestiti di Madame…

Il fatto è che di questo capolavoro assoluto del teatro musicale di tutti i tempi si vorrebbe ogni volta veder mettere in luce o addirittura scoprire qualche nuova fulgente sfaccettatura. Cosa che non avviene in questa modestissima produzione torinese.

(1) Ricordiamo che il titolo originale della pièce di Beaumarchais è La folle journée, ou Le mariage de Figaro e non viceversa, mentre il primo lavoro del trittico si intitola Le barbier de Séville, ou La précaution inutile e l’ultimo L’autre Tartuffe, ou La mère coupable.

(2) Per preparare il lettore, Beaumarchais premette al testo una prefazione di ben 25 pagine (nell’edizione tascabile Garnier del 1964), conscio dell’impatto che avrebbe avuto il suo lavoro. Terminata nel 1778 e presentata alla Comédie-Française nel 1781, la commedia venne rappresentata solo nel 1784 per il veto iniziale del re Luigi XVI e ottenne il nulla osta  del censore solo dopo piccole modifiche del testo e grazie al tono divertente della commedia (guai si fosse trattato di una pièce drammatica!). Il tenente di polizia Lenoir, incaricato dell’esame, aveva osservato che la vivacità del lavoro «quoique approchant de ce qu’on nomme gaudriole [una facezia un po’ licenziosa, cioè], n’allait pas jusqu’à l’indécence» e concludeva che il lavora era «très propre à attirer à la Comédie beaucoup de spectateurs et, par conséquent, beaucoup de recettes». Fortuna vuole che Monsieur Lenoir fosse in un rapporto di estrema familiarità con i comédiens, ma soprattutto con le comédiennes

L’occasione fa il ladro

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★★★☆☆

Non solo a Pesaro si possono vedere chicche rossiniane

La ridente cittadina di Schwetzingen, a due passi da Heidelberg, ha un festival di musica che dal 1952 presenta opere contemporanee in prima mondiale (Sciarrino, Rihm, Henze, Egk…) così come rarità del passato (Legrenzi, Haydn, Paisiello, Händel…). Il suo delizioso e minuscolo teatro, inaugurato nel 1753 con Il figlio delle selve di Ignaz Holzbauer, ha ospitato tra il 1989 e il 1992 quattro delle cinque farse in un atto di Rossini, tutte dirette da Gianluigi Gelmetti e messe in scena da Michael Hampe. L’ultima è questa «burletta per musica di Luigi Previdali con musica del rinomato sig. maestro Rossini», tratta dalla commedia Le prétendu par hasard, ou L’occasion fait le nom di Scribe, «da presentarsi per la prima volta nel Teatro Giustiniani in San Moisè nell’autunno del 1812».

L’occasione fa il ladro, ossia Il cambio della valigia è uno dei suoi nove lavori che in poco più di due anni, dal debutto come diciottenne compositore con La cambiale di matrimonio nel novembre 1810 al Signor Bruschino nel gennaio 1813, fecero riempire le sale di quel circuito teatrale che aveva il suo centro proprio nel San Moisè veneziano e ramificazioni a Milano, Bologna, Ferrara e Roma.

Nella sinfonia introduttiva una sezione lenta precede lo scoppio di un temporale che deriva da La pietra del paragone e che finirà nel Barbiere. Una carrozza attraversa tra i lampi un paesaggio scuro e poi ci troviamo al riparo in una locanda dove un uomo mangia allegramente e il suo servo, impaurito dagli elementi scatenati, approfitta degli avanzi. Non ricorda la scena di un certo lavoro di Mozart? Come se non bastasse anche il motivo del personaggio in scena richiama quello del Commendatore al suo ingresso in casa di Don Giovanni, a dimostrare la profonda cultura musicale di Rossini.

Un doppio scambio di persone è il motore della vicenda. Il conte Alberto scambia la sua valigia con quella di Don Parmenione e quest’ultimo assume l’identità dell’altro per presentarsi alla promessa sposa di cui si è innamorato vedendone il ritratto. La suddetta Berenice cambia invece il suo ruolo con quella della cameriera Ernestina per testare l’incognito spasimante. Alla fine tutto finirà con un doppio matrimonio delle due felici coppie. Ah, il ritratto era poi quello della sorella del Conte Alberto portato in dono alla futura sposa.

Gian Luigi Gelmetti anche qui dimostra la sua perfetta adesione al dettato rossiniano che il cast asseconda solo in parte. Alessandro Corbelli, nella parte del servo Martino, è quello che esce con più onori: timbro, musicalità, vivacità, tutto è eccellente. Degli altri ricordiamo solo Monica Bacelli, Ernestina briosa, ma niente più.

Con un impianto scenico simile a quelle delle altre farse allestite qui, la regia di Hampe non fa altro che dirigere entrate e uscite dei vari personaggi.

Immagine in 4:3 e nessun extra.

Genoveva

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★★★★☆

La follia di Schumann e i pesci di Kušej

Chissà quale ossessione rappresenta per il regista Martin Kušej il pesce che mette all’inizio delle sue regie, per lo meno nel Fliegende Holländer di Amsterdam (ma lì almeno si giustificava come pesce spiaggiato dalla tempesta di mare descritta dalla musica) e qui nella Genoveva di Zurigo, l’unica opera per il teatro di Robert Schumann. Durante l’ouverture, dall’ampio slancio orchestrale e che ha trovato una sua vita autonoma nei programmi sinfonici, il sipario si alza su una stanza dal bianco abbagliante con quattro persone dall’equilibrio psichico evidentemente turbato e dal lavabo in fondo salta fuori, appunto, un pesce. Lo ritroveremo appeso alla parete nel secondo atto con le stesse quattro persone che non lasceranno mai la claustrofobica camera nemmeno quando il libretto li dà per assenti e lontani.

Tratto dal dramma Vita e morte della santa Genoveva di Ludwig Tieck (1800) e dalla tragedia Genoveva di Friederich Hebbel (1843), il libretto del compositore stesso e di Robert Reinick si rifà alla storia di Geneviève de Brabant, leggenda medievale ambientata nell’VIII secolo, ma basata sulla vita di Marie de Brabant, moglie di Luigi II Duca di Baviera (XIII secolo).

Atto primo. Sigfrido, conte di Brabante parte come cavaliere crociato sotto la guida di Carlo Martello contro i Saraceni. Incautamente il conte affida la moglie al giovane Golo, che ne è segretamente innamorato. Non reggendo al dolore della partenza Genoveva cade svenuta e Golo ne approfitta per baciarla. Sorpreso dalla sua vecchia nutrice Margaretha, ora maga a tempo pieno cacciata dal paese e smaniosa di vendicarsi del conte, prima vuole uccidere la vecchia, ma poi si unisce a lei nella speranza di realizzare il suo sogno d’amore.
Atto secondo. Genoveva è sola nella sua stanza e ascolta dei canti ingiuriosi che vengono da fuori. Arriva Golo con la scusa di annunciarle una vittoria dell’esercito franco. Assieme cantano una canzone, ma poi Golo le confessa di amarla e alle sue proposte indegne Genoveva lo apostrofa adeguatamente («Zurück, ehrloser Bastard!»). L’amore di Golo si tramuta in odio: con la complicità di Margaretha fa entrare i servi del conte dopo aver fatto nascondere il fido servo Drago in un’altra camera. I servi scambiano Drago per l’amante della donna, lo uccidono e Genoveva viene arrestata come adultera.
Atto terzo. Dopo la vittoria dei franchi, Siegfried è trattenuto a Strasburgo da una lieve ferita di guerra. È impaziente di poter tornare nel suo castello, ma Margaretha cerca di trattenerlo lontano da casa e gli parla di uno specchio magico attraverso il quale è possibile vedere le cose che sono successe nel passato. Sopraggiunge Golo che informa Siegfried del tradimento della moglie. Il conte si precipita la sera stessa a casa di Margaretha per poter avere tramite lo specchio magico le prove dell’infedeltà di Genoveva. La maga fa dunque apparire tre visioni ingannevoli: nella prima si vede il giardino del castello durante il giorno e in esso Genoveva che si intrattiene amichevolmente con Drago, nella seconda appare lo stesso giardino la sera con Drago e Genoveva che siedono soli. Alla terza visione (ambientata di notte) Siegfried si infuria e nel partire comanda a Golo di compiere la sua vendetta su Genoveva. A Margaretha rimasta sola appare però improvvisamente lo spirito del defunto Drago che, mostrandole i tormenti infernali, le impone di rivelare a Siegfried i suoi inganni.
Atto quarto. Genoveva è trascinata da Caspar e Balthasar attraverso un selvaggio territorio roccioso, dove la giovane dovrà essere giustiziata. Nella più cupa disperazione Genoveva rivolge alla Madonna una fervente preghiera. Giunge Golo e mostra alla donna la spada e l’anello di Siegfried, segno che il conte approva la condanna. Tenta poi nuovamente di stringere a sé Genoveva, promettendo di salvarle la vita in cambio del suo amore, ma costei rifiuta sdegnosamente. Golo perciò si allontana lasciando che siano Caspar e Baltasar a eseguire la sentenza. I due si apprestano dunque ad uccidere la giovane, ma si ode un suono di corno che annuncia l’arrivo di Siegfried, cui Margaretha ha rivelato tutti gli inganni. I due sposi si possono così finalmente riabbracciare.

L’opera debuttò a Lipsia nel 1850, ma dopo solo due repliche fu ritirata e le critiche negative ricevute giocarono un ruolo determinante nella decisione di Schumann di non scriverne un’altra.

«L’opera è un’unica grande sinfonia. Tutto il lavoro è costruito su una sottile rete di motivi che sono in gran parte derivati da un singolo motivo conduttore, il pio corale iniziale, che viene poi sottoposto a numerose variazioni […] diventando, in negativo, la pressione esercitata sulle masse, poi il ritratto, positivo, di Golo. Il motivo si trasferisce quindi su Genoveva e poi ancora, in una forma leggermente modificata, rappresenta Margaretha. Ciò significa naturalmente che esiste un forte legame tra i personaggi. […] In maniera molto sofisticata Schumann mantiene il motivo per tutti i protagonisti e usandolo in una molteplicità di combinazioni diverse non ne caratterizza uno in particolare, ma piuttosto le infinite distinte possibilità che possiamo cogliere in ogni personaggio.» (Nikolaus Harnoncourt)

Il maestro tedesco, che aveva già registrato su CD una Genoveva nel 1996, ritorna nel 2008 all’Opera di Zurigo con questa edizione affidata alla regia di Martin Kušej, la loro terza collaborazione dopo Don Giovanni Clemenza di Tito a Salisburgo.

Come sempre fulminante è l’osservazione di Franz Liszt: «delle opere degli ultimi cinquant’anni questa è la mia preferita (a parte Wagner, ovviamente), nonostante la sua mancanza di vitalità drammatica». L’ambientazione medievale, il coro iniziale, la presenza di una maga rimandano al Lohengrin. Per non parlare del personaggio di nome Siegfried, tutto fa di questo Schumann un modello di opera tedesca, proprio come quelle di Wagner, ma meno teatrale. “Dramma di anime” è stato definito questo suo lavoro e il regista Kušej ha buon gioco nel non voler rappresentare la storia in termini naturalistici dandone una sua personale lettura, come aveva già fatto con gli allestimenti dei drammi di Kleist e di Strindberg, cui sembra voler alludere questa produzione di Genoveva.

I quattro personaggi, in abiti dell’epoca di Schumann, sono come intrappolati in una scatola inondata di luce (allusione alla reclusione del compositore in un manicomio negli ultimi anni o alla società repressiva dell’Ottocento?), scatola dentro un’altra scatola buia in cui si muovono i personaggi secondari e il coro, tutti sporchi di fuliggine. Un lavandino con specchio («lo specchio magico» di Margaretha), una poltrona Biedermeier e una porta che si apre su un’altra porta costituiscono gli unici elementi di scena. In questo ambiente non sorprende che i personaggi abbiano atteggiamenti compulsivi e sguardi allucinati che la eccezionale regia video e la cristallina definizione dell’immagine mettono pienamente in risalto.

Harnoncourt dirige la partitura mettendo ben in evidenza le tensioni drammatiche e le dissonanze che avevano colpito i primi ascoltatori per la loro modernità di linguaggio ed esalta le cesure tra un pezzo e l’altro con delle pause di silenzio che ben si accompagnano alla drammaturgia rarefatta e cerebrale della messa in scena.

Cantanti/attori di eccezione sono Juliane Banse, Shawn Mathey, Martin Gauntner e Alfred Muff nei rispettivi ruoli di Genoveva, Golo, Siegfried e Drago. Il ruolo di Margaretha sembra sostenuto da un cantante maschio en travesti e con la voce in un acido falsetto, ma dopo aver controllato sulla locandina si scopre trattarsi invece del mezzosoprano Cornelia Kallisch che sottolinea così la malvagia indolenza del personaggio.

Nessun bonus nel disco e sottotitoli anche in italiano.

Moïse et Pharaon

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★★★☆☆

Un Mosè tra grand-opéra e santino oleografico

Nel 1827 Rossini, ormai di casa a Parigi e con alle spalle il successo del Siège de Corinthe ricavato dal Maometto II, si prepara al riadattamento del suo Mosè in Egitto affidandone la cura a Luigi Balochi e a Étienne de Jouy, il librettista della Vestale di Spontini. Moïse et Pharaon ou Le passage de la Mer Rouge debutta quello stesso anno all’Opéra con grande successo anche grazie a un cast eccezionale soprattutto per le parti maschili, ossia con Nicolas Levasseur (Moïse) e Adolphe Nourrit (Aménophis).

Da allora l’“oratorio” di Napoli è stato soppiantato dal “melodramma sacro” di Parigi, in Italia nella versione ritmica di Calisto Bassi e col titolo Mosè tout court. La revisione ha aggiunto un intero atto ai tre esistenti da far precedere al primo originario e un intervento coreografico, immancabile nei teatri parigini, su musica prestata da Bianca e Falliero. (1)

Senza le costrizioni del tempo quaresimale, il lavoro perde i caratteri oratoriali per acquisire quelli di un grand-opéra, con le sue arie solistiche e i balletti. Con una diversa ripartizione dei numeri musicali del Mosè in Egitto, nel Moïse anche i nomi dei personaggi vengono cambiati: ovviamente Mosè diventa Moïse e Faraone Pharaon, ma il fratello di Mosè qui è Éliézer; Amaltea, moglie di Faraone, si chiama Sinaïde; Osiride, figlio di Faraone, Aménophis; Elcìa, fanciulla ebrea, Anaï e Mambre, alto sacerdote, Osiride.

Atto primo. Nel campo dei Madianiti, presso Menfi. Si ode il lamento del popolo ebraico prigioniero in Egitto e le promesse di liberazione di Moïse. Sopraggiunge Éliézer, che racconta come Pharaon, cedendo non solo alle sue minacce, ma anche alle preghiere della regina Sinaïde, si sia finalmente convinto di lasciar partire gli Ebrei. Mentre tutto il popolo festeggia, Anaï viene raggiunta da Aménophis e i due giovani manifestano tutto il loro dolore per l’imminente separazione. Aménophis, deciso a tutto pur di non perdere la donna amata, comunica a Moïse la revoca dell’ordine del padre: per tutta risposta, Moïse fa scendere una fitta tenebra su tutto l’Egitto.
Atto secondo. Dopo una nuova promessa di liberazione da parte di Pharaon, Moïse acconsente a far tornare la luce del giorno. Nei progetti del re ci sono anche le nozze del figlio con la principessa d’Assiria: è lo stesso Pharaon a comunicare la notizia a uno sgomento Aménophis, che la madre Sinaïde tenta invano di consolare.
Atto terzo. Il popolo egizio innalza una grande preghiera di ringraziamento a Isis. Sopraggiunge Moïse con tutti i suoi, reclamando da Pharaon il rispetto delle promesse. Osiride, gran sacerdote, pretende però che gli Ebrei rendano omaggio a Isis: subito dopo lo sdegnoso rifiuto di Moïse, Aufide reca la notizia che le acque del Nilo si sono arrossate di sangue. Moïse, al termine di un aspro scontro con Osiride, stende il braccio verso l’altare di Isis e immediatamente tutti i fuochi votivi si spengono; Pharaon comanda che gli Ebrei siano allontanati in catene da Menfi.
Atto quarto. Nel deserto, sulle rive del mar Rosso. Aménophis riconduce Anaï presso il suo popolo; il principe offre alla giovane la salvezza per tutti gli Ebrei in cambio del suo amore, per il quale è disposto anche a rinunciare al trono. Sopraggiunge Moïse, che mette di fronte Anaï alla scelta tra l’amore e la legge di Dio; Anaï rinuncia ad Aménophis e quest’ultimo, sconvolto dall’ira, annuncia che l’esercito egiziano, al comando di Pharaon, sta marciando contro gli Ebrei. Dopo aver rivolto una preghiera a Dio, Moïse stende il braccio e le acque del mare si aprono davanti a lui, permettendo il passaggio del popolo ebraico, per richiudersi immediatamente quando nel varco si precipitano Pharaon e Aménophis con il loro esercito. Gli Ebrei innalzano quindi un inno di ringraziamento a Dio.

Registrato al Teatro degli Arcimboldi per l’inaugurazione della stagione 2003-2004, Luca Ronconi costruisce un grandioso santino oleografico che rifugge da ogni tentativo di attualizzazione (mancano ancora otto anni al controverso allestimento del Mosè in Egitto di Graham Vick a Pesaro) o di discussione sul ruolo delle religioni. In un’intervista apparsa sul Corriere della Sera il 29 novembre 2003 Ronconi dice testualmente: «Quest’opera, che ha al suo centro l’elemento religioso, non deve diventare la storia di un prestigiatore. E soprattutto non sarebbe stato proprio il caso attualizzarla. Se negli anni passati è stato possibile e legittimo contrapporre ebrei a palestinesi, farlo oggi lo considererei offensivo, visto il momento storico, molto più drammatico e molto più serio di quanto sia una pur serissima rappresentazione teatrale», ossia una cosa è il teatro e un’altra il mondo reale. Il regista conferma anche qui la sua concezione: un’idea piuttosto ristretta ed esteriore del teatro visto nella sua spettacolarità decorativa del tutto refrattaria alle istanze della contemporaneità.

Il sipario si apre su un paesaggio desertico di rocce e sabbia con colonne e al fondo un grande organo barocco che si dividerà in due per trasformarsi nei troni del faraone e della consorte nel secondo atto, quello delle tenebre (ma qui i personaggi sono in piena luce ed è un po’ ridicolo l’Aménophis che si muove a tastoni in una scena perfettamente illuminata). Nel terzo atto siamo in una sorta di cattedrale invasa dalla sabbia e nel quarto il popolo eletto esce da una caverna verso un mare minaccioso ma immobile che si aprirà sollevando verso l’alto le sue onde rocciose. La scenografia di Gianni Quaranta è quella già usata all’Opéra di Parigi nel 1983 (ma nel programma si legge “Nuova produzione”…).

Per Il’dar Abdrazakov il Mosè declamatorio stavolta non è uno dei suoi ruoli migliori e il profeta ne esce un po’ sbiadito. Anche Erwin Schrott è sacrificato nel ruolo limitato di Pharaon. Meglio il reparto femminile: Sonia Ganassi espone le sue qualità belcantistiche nella parte di Sinaïde (mentre deluderà come Elcìa nel Mosè di Pesaro) e Anaï di classe qui è invece quella di Barbara Frittoli.

Giuseppe Filianoti nella parte dell’antipatico e maschilista Aménophis (che qui non viene colpito dal fulmine a metà opera, ma crepa con tutto l’esercito nelle acque del Mar Rosso nel finale) rifulge vocalmente negli acuti e nel fraseggio, ma non riesce a decidersi su quale interpretazione vuole impostare il suo personaggio, che porge con un certo distacco.

Muti dirige mettendo in luce gli aspetti innovativi dell’opera di Rossini e nella preghiera finale dilata i tempi della perorazione con una solennità raramente udita e che chiaramente riecheggia altri famosi cori verdiani. A proposito, ci siamo sempre lamentati che le traduzioni in italiano dei versi delle opere fossero di livello inferiore all’originale, ma la cosa vale anche all’inverso: la preghiera di Mosè dal poetico «Dal tuo stellato soglio» diventa qui il molto prosaico «Des cieux où tu résides». Anche foneticamente si passa dai suoni aperti delle vocali italiane aa quelli chiusi di e, u del francese. Una bella differenza.

Il balletto – oggetto avulso dalla vicenda, ma è proprio quello che voleva il pubblico parigino dell’epoca – è affidato a un Micha van Hoecke (Mischa nella confezione dei due DVD della ArtHaus) che fa gesticolare la stagionata Luciana Savigliano e lo scultoreo Roberto Bolle in gonnellino. Abbastanza banali anche i costumi di Carlo Diappi, tutto oro e crema quelli degli egizi mentre gli ebrei si devono accontentare di varie sfumature di grigio scuro.

Inesistente la direzione sui cantanti, Ronconi si concentra sulla scena finale, con l’apertura delle acque del Mar Rosso realizzata con mezzi non molto dissimili da quelli della prima del Mosè a Napoli il 5 marzo 1818. Questa volta agli Arcimboldi di Milano il meccanismo però ha funzionato.

(1) Ecco la struttura delle due versioni:

Mosè in Egitto, Napoli, 1818
Atto I
1 Introduzione Ah, chi ne aita?
2 Scena e quintetto Eterno! Immenso! Incomprensibil Dio!
3 Duetto Osiride-Elcìa Ah, se puoi così lasciarmi
4 Aria Faraone A rispettarmi apprenda (composta da Michele Carafa)
5 Inno con cori All’etra, al ciel
6 Duetto Elcìa-Amenofi Tutto mi ride intorno!
7 Finale Che narri?
Atto II
8 Duetto Osiride-Faraone Parlar, spiegar non posso
9 Aria Amaltea con coro La pace mia smarrita (ripresa dal Ciro in Babilonia)
10 Duetto Elcìa-Osiride Dove mi guidi?
10a Quartetto Mi manca la voce
11 Aria Mosè Tu di ceppi (composta da un collaboratore ignoto di Rossini)
12 Coro Se a mitigar tue cure
13 Finale Porgi la destra amata
Atto III
14 Preghiera Dal tuo stellato soglio
15 Coro finale

Moïse et Pharaon, Parigi, 1827
Atto I
1 Preludio (nuovo, in parte ripreso da Armida)
2 Coro Dieu puissant (nuovo, in parte ripreso da Armida)
3 Duetto Anaï-Aménophis Ah, si je perds l’obiet que j’aime (in Mosè in Egitto: 3)
4 Marcia e coro Jour de gloire (5)
5 Duetto Anaï-Marie Dieu, dans ce jour prospère (6)
6 Finale Quel delire! (7)
Atto II
7 Introduzione Désastre affreux! (1)
8 Invocazione e quintetto Arbitre supreme (2)
9 Duetto Aménophis-Pharaon Cruel moment! Que faire? (8)
10 Aria Sinaïde Ah, d’une tendre mère (13)
Atto III
11 Marcia e coro Reine des cieux (da Bianca e Falliero) e Ballabili (nuovo, in parte ripreso da Armida)
12 Finale (nuovo, in parte in Mosè in Egitto 10a)
Atto IV
13 Recitativo e duetto Anaï-Aménophis Où me conduisez-vous? (10)
14 Aria Anaï Quelle affreuse destinée! (nuovo)
15 Preghiera Des cieux où tu résides (14)
16 Finale (nuovo, in parte in Mosè in Egitto 15)
17 Cantico finale (nuovo)

I Capuleti e i Montecchi

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Vincenzo Bellini, I Capuleti e i Montecchi

Parigi, Opéra Bastille, 15 giugno 2008

(registrazione video)

Molto Bellini, poco Shakespeare

«Negli ultimi giorni del 1829 Bellini si trovava a Venezia per curare l’allestimento del Pirata, che sarebbe andato in scena alla Fenice, con gli opportuni adattamenti, ai primi del gennaio 1830. Come terza opera della stagione, il teatro veneziano aveva programmato un nuovo lavoro di Pacini. Ma non appena fu chiaro che quest’ultimo, oberato di lavoro, non avrebbe tenuto fede all’impegno, la presidenza del teatro, l’impresario e l’intera città si diedero a pregare Bellini perché scrivesse lui un’opera al posto del collega inadempiente. Il compositore fu dapprima riluttante, non amando lavorare assillato dalla fretta e nutrendo forti timori che il poco tempo a disposizione avrebbe portato a un insuccesso; ma finì per cedere alle pressioni. Convocato a Venezia Romani, compositore e librettista convennero di utilizzare nuovamente il libretto che lo stesso Romani aveva scritto, pochi anni prima, per Nicola Vaccai (Giulietta e Romeo, Milano 1825), rimaneggiandolo e mutandone il titolo. Il libretto si prestava perfettamente alla compagnia di canto scritturata dalla Fenice per quella stagione: compagnia nella quale primeggiava il mezzosoprano Giuditta Grisi, cui Bellini affidò la parte di Romeo. Assegnando il ruolo del giovane amoroso a una donna in abiti maschili, il compositore si inseriva in una tradizione di lunga data, che in quegli anni non era ancora avvertita come antiquata, nonostante fosse ormai prossima a cadere in disuso. […] Il finale dell’opera è assolutamente degno di nota: tutto in stile declamato, in un’alternanza continua tra recitativo accompagnato e arioso, presta la massima attenzione ai trapassi psicologici dei personaggi in scena e raggiunge vette d’alto patetismo. Per la sua novità, il finale sconcertò una parte del pubblico ed ebbe un’accoglienza controversa. Se a tutto ciò si unisce il fatto che esso poco si presta ad assecondare le velleità esibizionistiche di una primadonna, si comprende perché ben presto (a partire dalle rappresentazioni di Firenze nel 1831) si affermasse la consuetudine di eseguire l’opera belliniana sostituendone il finale con quello, più tradizionale, dell’opera scritta da Vaccai». (Claudio Toscani)

Atto primo. A Verona nel XIII secolo. La città è dilaniata dalla lotta che oppone la famiglia dei Capuleti, guelfi, a quella dei Montecchi, ghibellini. Capellio, principale esponente dei Capuleti, ha chiamato i suoi a raccolta per esortarli alla lotta contro la fazione avversaria: informa gli astanti che i Montecchi, sostenuti dall’amicizia di Ezzelino, hanno per capo Romeo, l’odiato uccisore di suo figlio, e che questi sta per inviare un ambasciatore con proposte di pace. Lorenzo, contro il parere generale, consiglia di ricevere e ascoltare il messaggero. Capo della fazione guelfa è Tebaldo, che promette di vendicare col sangue di Romeo (“È serbata a questo acciaro”) l’uccisione del figlio di Capellio. Quest’ultimo gli offre in sposa la figlia Giulietta: le nozze si celebreranno la sera stessa. Lorenzo, che conosce il segreto legame della fanciulla con Romeo Montecchi, sconsiglia il matrimonio accampando il pretesto della malattia di Giulietta. Tebaldo si dichiara pronto a rinunciare alle nozze, se dovessero costare una sola lacrima alla fanciulla; ma Capellio lo rassicura che Giulietta sarà eternamente devota a chi vendicherà il fratello ucciso. Giunge, intanto, l’ambasciatore dei Montecchi con proposte di pace: questi non è altri che Romeo, rientrato in Verona sotto mentite spoglie. Propone che la pace sia suggellata dalle nozze tra Romeo e Giulietta (“Se Romeo t’uccise un figlio”); ma Capellio e i suoi rifiutano sdegnati, rinnovando anzi i loro propositi bellicosi. Intanto Giulietta, sola nei suoi appartamenti, ha appreso la decisione paterna: compiange la sua sorte e invoca l’amato Romeo, che crede lontano (“Oh, quante volte, oh, quante”). Lorenzo le rivela che il giovane è tornato in città, in incognito, e lo introduce per un uscio segreto nella stanza di Giulietta. Romeo si getta nelle braccia dell’amata; alla sua proposta di fuggire con lui (“Sì, fuggire: a noi non resta”), la giovane rifiuta in nome del dovere e dell’obbedienza filiale. Romeo cerca inutilmente di persuaderla; poi, al risuonare della musica nuziale, si fa convincere ad allontanarsi e a mettersi in salvo. Nel palazzo di Capellio dame e cavalieri festeggiano le imminenti nozze di Giulietta con Tebaldo. Romeo, introdottosi tra i convitati in abiti guelfi, confida a Lorenzo che nel frattempo mille ghibellini armati sono penetrati in Verona, pronti a cogliere di sorpresa gli avversari. Lorenzo cerca invano di convincerlo ad allontanarsi da Verona e a rinunciare ai suoi propositi. S’ode un tumulto: un gruppo di Capuleti è assalito da alcuni Montecchi in armi; i convitati fuggono, Romeo corre ad unirsi ai suoi. Mentre si spegne il clamore, giunge Giulietta in abito da sposa, in ansia per l’esito dello scontro. Romeo la raggiunge e cerca nuovamente di convincerla a seguirlo; ma irrompono Tebaldo e Capellio, alla testa dei guelfi armati. Romeo, riconosciuto, riesce a sottrarsi all’ira dei nemici solo grazie all’intervento dei suoi.
Atto secondo. Giulietta è sola nei suoi appartamenti: la battaglia è ripresa e la fanciulla attende, in ansia, che Lorenzo le comunichi l’esito dello scontro. Apprende che Romeo è salvo, ma che una minaccia incombe su di lei: l’indomani sarà condotta al castello di Tebaldo e costretta alle nozze. Lorenzo le consiglia allora uno stratagemma: le consegna un filtro in grado di simulare la morte, che la fanciulla beve dopo qualche esitazione (“Morte io non temo, il sai”). Giunge Capellio, che impone alla figlia di ritirarsi e di prepararsi alle nozze. Giulietta scongiura il padre di abbracciarla; questi è turbato, ma mette a tacere i propri rimorsi. Manda a cercare Tebaldo e gli ordina di sorvegliare Lorenzo, di cui comincia a diffidare. In una via di Verona, intanto, Romeo – allarmato dalla mancanza di notizie – è in cerca di Lorenzo. S’imbatte in Tebaldo, che lo sfida a duello (“Stolto, a un sol mio grido”); ma sul punto di battersi, i due rivali sono trattenuti da una musica funebre: è il corteo che accompagna alla tomba Giulietta, creduta morta da tutti. Romeo e Tebaldo si abbandonano alla disperazione. Nel luogo in cui è sepolta Giulietta giunge Romeo, con seguito di Montecchi; fa aprire la tomba e parla, in delirio, all’amata. Ordina ai suoi di allontanarsi, invoca nuovamente la salma di Giulietta (“Deh, tu, bell’anima”) e si avvelena. Giulietta si risveglia, pronunciando il nome di Romeo: scorge il giovane ai piedi del sepolcro e pensa l’abbia raggiunta perché avvertito da Lorenzo. Appresa la terribile verità, i due amanti si stringono in un ultimo abbraccio; Romeo muore e Giulietta cade riversa sul suo corpo. Giungono i seguaci di Romeo, inseguiti da Capellio e dai suoi: di fronte alla tragica scena, Capellio sente ricadere su di sé tutte le conseguenze dell’odio tra le due fazioni nemiche.

La presenza in questa produzione di artisti appartenenti a case discografiche diverse e/o problemi sindacali non hanno permesso la registrazione per un DVD di questo allestimento parigino che è stato ripreso più volte in Italia con interpreti diversi. Non che manchino registrazioni video dell’opera di Bellini (Frizza a San Francisco dirige Cabell e DiDonato nell’allestimento di Boussard con i costumi di Christian Lacroix; Acocella al festival di Martina Franca è con Ciofi e Polito e la regia di Krief), ma l’accoppiata DiDonato-Netrebko si poteva avere solo dal vivo alla Bastille di Parigi. Della cantante russa, incinta di alcuni mesi, non si può non ammirare la potenza vocale, il timbro sontuoso, la tecnica magistrale, la luminosità del registro acuto. Al massimo si può notare una certa mancanza di leggerezza e freschezza, doti che ci si aspetterebbe dal personaggio di Giulietta. Ma averne di cantanti così!

Del Romeo di Joyce DiDonato si apprezza sì l’omogeneità di registro, la proiezione delle noti gravi, la perfetta dizione, ma soprattutto la totale incarnazione col personaggio: ogni gesto, ogni parola (ah, i recitativi!)  ha senso ed è credibile. Da adolescente gradasso che sfida la parte avversaria a innamorato pieno di ardore ad amante disperato, non c’è momento in cui la cantante americana sia meno convincente ed emozionante. Teobaldo di lusso è quello di Matthew Polenzani, perfettamente a suo agio come belcantista. Mikhail Petrenko e Giovanni Battista Parodi (Lorenzo e Capellio) completano l’eccellente cast .

La regia di Carsen era nata nel 1996, «una regia che non ha la forte impronta di altre produzioni del canadese ma che ha il pregio di narrare chiaramente la storia, facendo trasparire la claustrofobicità della vicenda, che ha unica via di uscita nella morte. Michael Levine crea un impianto scenico minimalista e funzionale, alte mura rivestite di pannelli rossi che scuriscono nel nero verso l’alto a denotare una invalicabilità che è in primis nella mente e nel cuore. Le pareti divisorie, nel finale del primo atto, al momento dello scontro fra Capuleti e Montecchi, sono montate su di una piattaforma girevole per cambiare gli squarci visivi con l’aiuto delle luci azzeccate di Davy Cunningham. Solo due colori, il rosso e il nero, per esemplificare in modo immediato una vicenda di amore e odio, abnegazione e passione, sangue e morte. Scarni arredi di sapore monastico annegati in un ambiente sviluppato in altezza, un lungo tavolo schiacciato contro il sipario schizzato di sangue, un piccolo lettino sormontato da una croce, una cassapanca dove Giuletta custodisce il suo abito, poche sedie. Lungo una prospettiva obliqua vaga Giulietta fra sedie rovesciate e cadaveri guelfi e ghibellini, che si rialzeranno al rallentatore in una danza macabra dominata dal clarino quando la giovane si affloscerà a terra come un fiore reciso per effetto della pozione (ecco il Carsen che ci aspettiamo). Il sepolcro è un rettangolo disegnato sul pavimento dalla luce che filtra da un vano scale, una tomba che Romeo non osa avvicinare lasciando sgorgare dall’oscurità un lamento intimo e disperato; poi oltrepasserà la linea d’ombra per spirare sull’altare di luce insieme a Giulietta.» (Francesco Rapaccioni e Ilaria Bellini)

La dicotomia di colori si estende anche ai costumi: dal rosso per i guelfi Capuleti e dal nero per i ghibellini Montecchi solo si stacca il bianco di Giulietta, estranea e vittima dell’odio delle due casate, ma neanche la sua morte e quella di Romeo pongono fine al conflitto nella regia di Carsen.

Durante la pimpante sinfonia, che Pidò dirige come se si trattasse di Rossini, i Capuleti entrano in scena e prendono ognuno una spada conficcata in proscenio per salire poi per una ripida scala. La stessa scala la ritroveremo di nuovo alla fine, ma stavolta per scendere alla tomba di Giulietta (un cambio di prospettiva che il regista canadese riprenderà nel suo ultimo Flauto magico).

Una registrazione di fortuna dello spettacolo è al momento disponibile su youtube, sicuramente la prova generale giacché Pidò è in jeans e t-shirt.

Aida

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★★★☆☆

Lucianone l’egiziano

Il debutto al Cairo è spiegato dall’occasione per la composizione di Aida: l’inaugurazione del nuovo Teatro dell’Opera (1870). Ma la guerra franco-prussiana impedì che costumi e scene partissero da Parigi, così il teatro fu inaugurato dal Rigoletto. Quando nel dicembre dell’anno seguente fu finalmente presentata, su libretto di Antonio Ghislanzoni, l’opera iniziò quel successo che ancora oggi ha tra il pubblico: secondo operabase.com nelle ultime cinque stagioni è la terza opera di Verdi più rappresentata nel mondo dopo La Traviata (tenacemente al primo posto assoluto) e Rigoletto.

Atto I. Scena prima. Grande sala del palazzo del re a Menfi. Ai lati, statue monumentali e arbusti in fiore; sullo sfondo, palazzi, templi e piramidi. Ramfis, capo dei sacerdoti, condivide con Radamès, valoroso capitano dell’esercito faraonico, i timori di una nuova invasione degli Etiopi. Già Iside ha nominato il condottiero delle truppe reali, e presto il re ne rivelerà il nome. Radamès sogna di essere il prescelto, per ritornare dall’impresa cinto di allori e per ridare trono e patria alla donna che, riamato, ama: Aida, figlia del re d’Etiopia, caduta in mani egiziane. Ma di Radamès è invaghita anche la figlia del re d’Egitto, Amneris, che sospetta nella schiava una umiliante rivale e cerca di scoprire, attraverso abili sondaggi, la temuta verità: ad Aida rivolge subdole parole di affetto, a Radamès sguardi insieme innamorati e indagatori. Un messaggero porta intanto la notizia che orde etiopi, guidate dal loro monarca Amonasro, hanno varcato i confini e marciano su Tebe. È la guerra. Al cospetto delle guardie, dei capitani, dei ministri e dei sacerdoti, il re annuncia il nome dell’eroe designato: Radamès. Esultano i presenti, ma non Aida che, combattuta tra l’amore per il padre e la passione insana per il più temibile dei nemici, chiede aiuto ai numi, osservata a distanza dall’accorta Amneris. Scena seconda. Interno del tempio di Vulcano. Fra danze mistiche e invocazioni agli dèi, in una fuga di colonne che si perde nelle tenebre, Radamès, il capo velato d’argento, riceve da Ramfis la spada che lo consacra capo dell’esercito egiziano.
Atto II. Scena prima. Una stanza dell’appartamento di Amneris. Assistita dalle ancelle, mentre piccoli schiavi mori danzano per lei, la principessa si prepara a festeggiare la vittoria degli Egiziani. E quando entra Aida, non resiste alla tentazione di un duello con la rivale. Mostra rispetto per il suo dolore; poi, con l’astuta finzione della morte di Radamès sul campo di battaglia, la induce a mettere a nudo il suo cuore e glielo trafigge. Immediate minacce seguono l’ingenua confessione di Aida, e la schiava è costretta a implorare perdono. Scena seconda. Le trombe della vittoria richiamano la popolazione alla cerimonia del trionfo. La folla si accalca alle porte di Tebe. Il re, con il suo seguito di ministri, sacerdoti, capitani, flabelliferi e portainsegne, siede sul trono con la figlia Amneris. Sfilano i carri di guerra, i vasi sacri, le statue degli dèi; un gruppo di danzatrici porta i tesori dei vinti. Tra le ovazioni del popolo, fa il suo ingresso Radamès. Amneris lo incorona con il serto dei vincitori, il re promette solennemente di soddisfare ogni suo desiderio. Con la generosità degli eroi il condottiero chiede che siano radunati i prigionieri e domanda per loro vita e libertà, non sapendo che tra di essi si nasconde Amonasro. Unendosi in coro alle parole di Radamès, tutti implorano clemenza. Anche l’implacabile Ramfis è costretto a mutare giudizio; a garanzia della pace convince però il sovrano a trattenere in ostaggio Aida e un guerriero, in realtà Amonasro, che giura di avere sepolto il re degli Etiopi. Si compie, anche se solo in parte, la volontà di Radamès, e i prigionieri vengono liberati. Ma un altro premio, indesiderato quanto irrinunciabile, attende l’eroe egiziano: la mano di Amneris, che gioisce della vittoria amorosa, mentre Aida piange il proprio destino e Amonasro giura vendetta.
Atto III. Le acque quiete del Nilo, rocce di granito tra palmizi frondosi, il tempio di Iside che si staglia contro il cielo stellato. Una barca approda silenziosa sulle rive sacre. Guidata dal gran sacerdote, Amneris leva preghiere alla dea perché protegga le sue nozze imminenti. Ma quella notte, sulle stesse sponde, Aida attende Radamès, rimpiangendo la patria perduta. Amonasro però precede il nemico e, prima con sollecitazioni, poi con minacce, convince la figlia a tradire l’amante per salvare il suo popolo. Una nuova guerra si profila all’orizzonte, gli Etiopi sono pronti ad attaccare gli Egiziani, con ogni mezzo, anche con l’inganno. Per questo Aida dovrà farsi rivelare dall’ignaro Radamès i piani di battaglia dell’esercito faraonico. Oppressa dall’angoscia, la schiava incontra l’innamorato simulando serenità, sogna con lui una fuga d’amore e ottiene le informazioni richieste dal padre. Non pago, Amonasro esce dal nascondiglio dove ha ascoltato ogni parola, si presenta a Radamès come il re degli Etiopi e cerca di conquistare il disperato condottiero alla causa etiope. Ma Amneris, spia infaticabile, denuncia il complotto ai sacerdoti e alle guardie. Grazie all’aiuto di Radamès, Amonasro e Aida riescono a fuggire, mentre il giovane si consegna a Ramfis, rassegnato a pagare la propria colpa.
Atto IV. Scena prima. Una sala maestosa nel palazzo del re d’Egitto, sulla sinistra la porta che conduce ai sotterranei delle sentenze. Combattuta tra il risentimento e l’amore, Amneris ordina che le sia condotto il prigioniero. Vuole salvare, con la vita dell’uomo che ama, la sua stessa felicità, il matrimonio a lungo sospirato. Ma Radamès è ormai deciso a non opporsi al destino, né intende più nascondere i sentimenti che lo legano ad Aida. Al centro dei suoi pensieri ora non c’è che lei, la schiava liberata, sopravvissuta alla battaglia dove è morto suo padre e prossima a ricongiungersi con il suo popolo. I sacerdoti sono già pronti a giustiziare il traditore; Amneris maledice sé stessa e la gelosia che non ha saputo reprimere: si dispera, implora pietà per l’innocente Radamès. Ma il condottiero non si discolpa e la sentenza capitale viene pronunciata. Scena seconda. Al piano superiore, il tempio splendente d’oro e di luce di Vulcano; sotto, la cripta in cui Radamès sta per essere murato. I sacerdoti chiudono il sotterraneo, Radamès pronuncia per l’ultima volta il nome di Aida e, come in sogno, la donna gli appare. Non è una visione, Aida è venuta a morire con lui. Gli innamorati si abbracciano e si congedano, uniti e senza rimpianti, dal mondo crudele che li ha condannati. Sopra di loro Amneris, vestita a lutto, prega sulla tomba dell’amato, invocando la pace.

Il debutto nel 1981 alla War Memorial Opera House di San Francisco di Luciano Pavarotti nella parte di Radames è il motivo principale della scelta di questa tra la dozzina di registrazioni video esistenti del terzultimo capolavoro verdiano.

Con la sua voce solare, il magnifico timbro, gli acuti facilissimi e la chiara dizione, Pavarotti è fenomenale. Però neanche lui riesce a rendere come è esattamente scritto il finale di “Celeste Aida”, dove tutto è in piano o pianissimo e «sempre dolcissimo»: dal «parlante» con tre p di «il tuo bel cielo» all’«animando» di «sul crin posarti», alla forcella fino al forte sulle parole «ergerti un trono», per poi ritornare subito dopo al pianissimo con addirittura quattro p di «vicino al sol», per riprendere e spegnersi, «diminuendo, morendo», sul tremolo dei sei violini divisi, in un pianissimo con due p sul si. Qui invece l’acuto, come avviene quasi sempre, è sparato forte. Così è vocalmente più facile e di maggior presa sul pubblico, ma non rispetta quello che sta scritto in partitura (come invece fanno quasi solo Helge Rosvaenge e Jonas Kauffman). Chiedere poi a Pavarotti di recitare o anche solo di muoversi in scena è un’impresa impossibile.

Margaret Price, Aida ben in carne e bianchissima nonostante il nerissimo padre, ha voce ben appoggiata in tutti i registri e sa dosare tutte le mezzevoci e i chiaroscuri richiesti dalla sua parte. Temibile rivale dal punto di visto estetico è qui la bella Stefania Toczyska, Amneris vocalmente sicura e dal bellissimo timbro di vero mezzosoprano. Ramfis di gran lusso è quello di Kurt Rydl, nobile e incisivo allo stesso tempo, mentre Simon Estes decide di dimostrare tutta la sua energia vocale, ma così il suo selvaggio Amonasro è berciato dall’inizio alla fine, il che non evita comunque al pubblico un delirio di applausi.

Sul podio García Navarro dirige con un’apprezzabile misura. Alla stessa non sono improntate invece la regia e le scenografie in carta stagnola di Sam Wanamaker che ricreano un Egitto che rende filologiche e sobrie le rivisitazioni hollywoodiane degli anni ’30-’40. Citiamo solo le colonne che si spostano per fare entrare il faraone su un’imponente scalinata tra gli applausi a scena aperta (ah, il pubblico americano…). Ci sono levrieri ma niente cavalli né elefanti e i soliti interminabili cortei fatti con le stesse comparse che girano in tondo.

Immagine in 4:3 e una sola traccia audio ovviamente.

  • Aida, Stefanelli/Zeffirelli, Busseto, 27 gennaio 2001
  • Aida, Noseda/Friedkin, Torino, 20 ottobre 2015
  • Aida, Muti/Neshat, Salisburgo, 6 agosto 2017
  • Aida, Mariotti/de Beere, Parigi, 18 febbraio 2021
  • Aida, Mariotti/Livermore, Roma, 31 gennaio 2023
  • Aida, Rustioni/Michieletto, Monaco di Baviera, 1 giugno 2023
  • Aida, Armiliato/Poda, Verona, 16 giugno 2023

Manon Lescaut

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★★☆☆☆

Un Carsen non ispirato

Il musicista Ruggero Leoncavallo, il verista Marco Praga, il giornalista Domenico Oliva, i librettisti Luigi Illica e Giuseppe Adami, il compositore stesso e pure l’editore Ricordi avevano tutti messo le mani su quel testo che fin dal 1889 aveva solleticato la vena di Puccini dopo il parziale insuccesso della sua seconda opera, Edgar. Impegnato con il rifacimento di quest’ultima, Puccini termina la sua nuova opera solo a fine 1892 e Manon Lescaut è pronta al debutto per il carnevale del 1893 al Teatro Regio di Torino dove ottiene un successo clamoroso. L’opera avrà poi molte revisioni in seguito ai ripensamenti dell’autore.

Nonostante la fortuna della Manon di Massenet (1884) tratta dallo stesso romanzo dell’abbé Prévost e l’esistenza di un’altra Manon Lescaut di Auber (1856), Puccini si era incaponito a fare la ‘sua’ Manon. E in effetti il suo è un prodotto molto originale, già molto pucciniano, addirittura iper-pucciniano, con quelle arie liricamente struggenti e quella straziante, quasi insopportabile scena della morte in diretta di Manon che confina con la morbosità se non addirittura con il sadismo in musica. Vero però che il compositore lucchese infonde nella partitura gioielli musicali di cui non si finisce mai di scoprire il valore. Valga per tutti l’intermezzo tra il secondo e il terzo atto. In Manon Lescaut Puccini è poi il primo compositore italiano a misurarsi con l’idea wagneriana delle reminiscenze motiviche (motivi conduttori), «ritorni logici» li definisce in una sua lettera del 1896. Già all’indomani della prima il critico Giovanni Pozza parla di un «dramma musicale […] intessuto di melodie senza contorsioni artificiose, che s’inseguono e ritornano naturalmente come lo vogliono l’azione, il concetto, o la simmetria del pezzo».

L’articolato romanzo di Prévost era stato sintetizzato dai librettisti di Massenet in sei quadri (cinque atti), ma qui in Puccini abbiamo solo quattro flash, quasi sequenze cinematografiche, che hanno bisogno di didascalie per collegare la vicenda da uno all’altro.

L’atto primo, come in Massenet, si svolge ad Amiens davanti alla locanda del cambio di cavalli. Da una carrozza scendono Manon Lescaut e il fratello. La ragazza è destinata al convento, ma quando incontra il cavaliere Des Grieux i giovani si innamorano e fuggono con la carrozza che il ricco Geronte aveva approntato per rapire la ragazza e portarla con sé a Parigi con la complicità del fratello. Geronte vuole vendetta, ma Lescaut lo rassicura sul fatto che Manon non sopporterà a lungo la vita modesta che Des Grieux le può offrire.
Infatti nel secondo atto, saltato a piè pari il romantico ma breve ménage idillico fra i due giovani (che in Massenet ci regala i meravigliosi momenti di «Adieu, notre petite table» o «En fermant les yeux»), qui siamo nel ricco boudoir di Geronte dove Manon si annoia ai madrigali e ai balli che le impone il ricco protettore e «tra quelle trine morbide» pensa con nostalgia agli slanci passionali che le regalava il giovane Des Grieux. Ed è lui stesso a irrompere ora nel salotto del rivale e a risvegliare nella ragazza i non sopiti sentimenti. I due si abbracciano, ma vengono scoperti dal vecchio che accusa Manon del furto dei gioielli che l’incauta ragazza non aveva resistito a raccattare prima della fuga.
Nel terzo atto Manon è dunque nel carcere di Le Havre in attesa di essere imbarcata per il Nuovo Mondo. Lescaut organizza una fuga per evitarle la deportazione, ma il piano fallisce e Des Grieux per non lasciar andare via sola la ragazza si fa imbarcare come mozzo sulla stessa nave. Qui finiva l’opera di Massenet, Puccini invece non ci risparmia la straziante morte di Manon nel deserto del quarto atto.

Si erano dunque messi addirittura in sette (nell’edizione a stampa di Ricordi è riportato infatti «testi di autori vari» mentre altrove è indicato «di anonimo»), ma il libretto che ne è uscito fuori è uno dei più raffazzonati, con quelle stucchevolezze ‘setteciuento’ (il «senso dell’antico» lo definisce bonariamente Emanuele d’Angelo) che le regie moderne evitano come la peste – vedi l’ultima di Jonathan Kent a Londra e prima ancora quella di Graham Vick vista a Venezia. Ma così l’ambientazione moderna fa a pugni con i cocchi, gli ostieri, i tricorni, i calamistri, la cerussa, il minio, la giunchiglia ecc. citati nel libretto.

Nel 1991 alla Vlaamse Opera di Anversa Robert Carsen, reduce dal trionfo internazionale del suo Mefistofele, non casca in questa trappola dell’attualizzazione e il suo è un iper-settecento che però a sua volta non è scevro di contraddizioni.

All’inizio vediamo in scena un gioioso carnevale in cui si scherza sui temi della giovinezza e dell’amore. L’alto muro claustrofobico di fondo è dipinto come un cielo di Magritte (siamo in Belgio, no? A Torino lo avremmo definito invece un cielo di Antonio Carena…). L’improbabile pavimento a specchio (le scene e i decoratissimi costumi sono di Anthony Ward) è più adatto alla ricca sala dorata in cui si svolge il secondo atto. Ma la stessa sala dorata ce la ritroviamo nel terzo, la prigione di Le Havre, e infine, ridotta a detriti, anche nel quarto, quello del deserto. Le disgraziate che sono imbarcate per il viaggio transoceanico salgono con i loro dorati costumi ingombranti di crinoline, che non devono essere però troppo di impaccio giacché Manon non ci rinuncia neanche nel deserto. L’imbarco dei due giovani avviene sotto una ironica pioggia di monetine d’oro lanciate da una folla di damine che esibiscono un’altissima parrucca sormontata da un veliero dorato. Quando si dice: non farsi mancare niente… Ancora impregnato di quello spirito camp che nel Mefistofele aveva funzionato perfettamente, qui Carsen soffre di un accumulo di idee non necessarie e si capisce che non crede molto all’opera. Altrove la sua adesione alla musica si è dimostrata molto più convinta.

Il direttore Silvio Varviso conduce con polso l’orchestra coprendo però talora i cantanti. E pensare che di voce i due interpreti principali ne hanno da vendere: sia Miriam Gauci che Antonio Ordóñez esibiscono potenza e squillo invidiabili. La prima ha ripreso il ruolo molte altre volte e il secondo è passato sempre più spesso a cantare zarzuelas. Da dimenticare il Lescaut di Jan Dankaert, mentre in Geronte abbiamo un Jules Bastin classe 1933 ancora in piena forma.

Immagine in 4:3 e voci fastidiosamente riverberate.