Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais

Le nozze di Figaro

Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro

Vienna, Staatsoper, 17 marzo 2023

★★★★☆

(diretta streaming)

La folle journée di Barrie Kosky

Dopo il suo poco convincente Don Giovanni, Barrie Kosky ritorna al secondo capitolo della trilogia dapontiana alla Staatsoper viennese e il risultato è decisamente migliore: il carattere di situation comedy della pièce di Beaumarchais è più nelle corde del regista australiano del sulfureo «dramma giocoso» e qui infatti va esattamente a segno.

Questo è il terzo allestimento de Le nozze di Figaro da parte del regista e anche questa volta il titolo si conferma come  una perfetta opera buffa, una commedia umana di sublime fattura. Nella sua lettura non racconta un conflitto pre-rivoluzionario, la politica lascia il posto all’analisi di una rete di relazioni in cui è piuttosto il potere dell’erotismo a sconvolgere le gerarchie: la violenza domestica, le costrizioni e l’oppressione, la solitudine e l’abbandono, non sono estranei ai personaggi della casa del conte Almaviva. In abiti moderni (i favolosi anni ’70 ridisegnati da Victoria Behr), Kosky capisce che però il Settecento non può mancare: con i suoi boudoir, le alcove, i gabinetti, le stanze delle cameriere, i seggioloni, le tables habillées, le finestre che danno sul giardino, i padiglioni, la casa del Conte d’Almaviva se non un altro personaggio è comunque una presenza essenziale. La parete in boiserie in cui si inseriscono le porte che separano gli appartamenti dei nobili padroni dalle camere della servitù nel primo atto; la camera da letto della Contessa del secondo, insieme elegante e intima; il salone di ricevimento affrescato del terzo: tutto è impeccabilmente ricostruito dallo scenografo Rufus Didwiszus. Il giardino notturno del quarto atto è risolto invece à la Kosky: un doppio pavimento inclinato in cui si aprono botole da cui escono ed entrano i personaggi nel loro gioco a nascondino. Qui non contano più le differenze sociali: l’ambientazione astratta, con le piante dipinte sulla superficie in pendio, e la sua simbologia – le botole sono le insidie del gioco amoroso? – prende il posto del realismo della dimora rococò.

Il tutto fa da contenitore al mirabile gioco attoriale di interpreti giovani e spigliati. Nell’estetica del regista la presenza scenica è quasi più importante del saper cantare bene, il suo è vero teatro, non un concerto in costume. Fortunatamente qui le doti sceniche si accompagnano a buone doti canore, seppure in alcuni casi non pienamente mature. Il Conte ha un’indole impulsiva con tratti distruttivi e André Schuen dà a questo fratellino di Don Giovanni un carattere minacciosamente virile, un marchio di fuoco cattivo, ma è anche un ammaliatore con corde vocali avvolte in un velluto scuro che nella sua scena del terzo atto con recitativo e aria «Vedrò mentr’io sospiro» strappa gli applausi convinti del pubblico per l’aderenza al personaggio e l’autorità vocale. La Contessa di Hanna-Elisabeth Müller ha toni sontuosi e commoventi nella sua meravigliosa aria «Dove sono i bei momenti». Vivace come ci si aspetta è il Figaro di Peter Kellner e giustamente gender fluid il Cherubino di Patricia Nolz, presenza fisica e voce sexy. Il debutto nella parte di Susanna di Ying Fang è stato sfortunato: per un’infiammazione delle corde vocali ha mimato in scena ed è stata doppiata molto abilmente nell’intricato gioco di intrecci dei suoi interventi da Maria Nazarova nella buca orchestrale. A parte l’efficace Dottor Bartolo di Stefan Cerny e il comico Don Curzio di Andrea Giovannini alle prese con il suo spray per l’asma, il Don Basilio di Josh Lovell è troppo giovane e affetto da una pessima dizione e la Marcellina di Stephanie Houtzeel a tratti afona. Il direttore musicale Philippe Jordan sul podio dei Wiener Philharmoniker accompagna lui stesso i recitativi al fortepiano e modella i cambi di tempo e le dinamiche in modo ideale, dove tutto è trasparente e con i due finali pieni di colore e vivaci interventi strumentali.

I conclusione non si è trattato di una produzione memorabile, ma un esercizio di alto livello da parte di un metteur en scène che ha confermato anch ein questa occasione il suo straordinario senso del teatro.

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Il barbiere di Siviglia

   

foto © Andrea Macchia – Teatro Regio Torino

Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia

Torino, Teatro Regio, 24 gennaio 2023

★★★☆☆

Un Barbiere di facile presa sul pubblico inaugura la semi-stagione torinese

Non è vero che non ci sono più le mezze stagioni: c’è quella del Regio di Torino, ad esempio, che inizia a gennaio e terminerà in estate. Dopo commissariamento, pandemia e cambi al vertice della soprintendenza e della direzione artitstica, solo dal prossimo autunno si potrà parlare di una stagione regolare per il nostro sfortunato teatro.

Il titolo scelto per l’inaugurazione di questa semi-stagione gode di enorme popolarità ed è tra i dieci più presenti nei cartelloni dei teatri lirici negli ultimi anni. Solo in questo mese infatti in giro per il mondo si possono vedere ben 14 diverse produzioni de Il barbiere di Siviglia: Austria (Vienna), Bulgaria (Plovdiv), Germania (Berlino, Eisenach), Polonia (Poznań, Varsavia), Repubblica Ceca (Praga, Brno), Russia (Kazan’, Mosca) e anche Ucraina (Odessa), oltre ovviamente all’Italia (Bari, Torino).

I motivi per riproporre per l’ennesima volta un titolo così inflazionato dovrebbero essere l’originalità se non la eccezionalità dell’allestimento o l’eccellenza degli interpreti, ma nessuno dei due elementi sembra ritrovarsi nello spettacolo ora in scena, una coproduzione dell’Opéra Nationale du Rhin (Mulhouse, Strasbourg) e dell’Opéra di Rouen–Normandie risalente al 2018.

Del regista Pierre-Emmanuel Rousseau si ricorda un Hänsel und Gretel suburbano e da incubo horror di due anni fa, sempre a Strasburgo. Ora il suo Barbiere ha le vesti più rassicuranti di un’ambientazione realistica nella Spagna ottocentesca dove la «forza» ha le uniformi della Guardia Civil e don Bartolo è un ricco borghese con servitori in polpe. L’ambiente unico, una grande stanza con cancelli, porte, finestre e balconi, serve sia come «piazza nella città di Siviglia» sia come «camera nella casa di don Bartolo». Le pareti sono rivestite di maioliche azzurre in basso, la parte alta è in rosso pompeiano. La stanza ha nel mezzo un impluvium, una vasca che raccoglie la pioggia proveniente da un foro circolare nel soffitto, non esattamente il caratteristico patio delle case dell’Andalusia, ma comunque piacevole da vedere e tale da permettere ai protagonisti di sguazzare con i piedi nell’acqua. Costumi e scenografie sono dello stesso Rousseau mentre le luci soffuse di Gilles Gentner diventano espressionistiche al momento dell’aria di don Basilio o del temporale quando si tingono di verde.

L’impianto registico tradizionale spinge verso una caratterizzazione dei personaggi più vicina al testo di Beaumarchais che al libretto di Sterbini: Figaro ad esempio è uno scapestrato donnaiolo che scappa a piedi nudi e in canottiera da una donna con cui ha passato la notte; quando si veste indossa una casacca da Arlecchino e si porta dietro una sacca con i suoi strumenti di lavoro nella quale all’occorrenza nasconde l’argenteria trafugata a don Bartolo – non solo è particolarmente sensibile «all’idea di quel metallo», ma anche ladruncolo se c’è l’occasione. L’avidità dell’oro è un elemento che, ben presente nel testo, è messo in ulteriore evidenza da Rousseau, il quale riempie la sua lettura registica con molte trovate, alcune argute, come quella della processione iniziale da cui si staccano i musicisti della serenata di Lindoro, altre gratuite e senza sbocco, come quando trasforma Rosina in Tosca e don Bartolo in Scarpia. La partenza in mongolfiera degli sposi nel finale è invece un’idea copiata tale e quale dalla produzione madrilena di Emilio Sagi del 2005. Le tante trovatine non sempre originali o di buon gusto trasformano la vicenda in uno spettacolo che incontra comunque i gusti del pubblico che abbocca alle gag, alle mossette di danza sul ritmo della musica, ai “trenini” dei personaggi e alla loro ipercinetica attività.

Nonostante un impianto chiuso su tre lati e in alto, la scena mette in evidenza l’acustica non felice del teatro: mentre il suono dell’orchestra arriva forte e chiaro alla mia sedicesima fila, le voci che non hanno una particolare proiezione si perdono quando il cantante non è in proscenio e nei concertati. È quello che succede col Figaro di John Chest, baritono americano di efficace presenza scenica ma la cui voce, dopo un piccolo incidente, sembra arrivare da dietro le quinte. Lo stesso avviene per la Rosina, qui mezzosoprano, di Josè Maria Lo Monaco, apprezzata interprete dalle precise agilità, dall’elegante fraseggio e dal bel timbro, ma la cui personalità vocale non svetta come dovrebbe. Tempi duri invece per i tenori di questa produzione colpiti dai mali di stagione: ne erano previsti due ma è stato necessario arruolarne un terzo, che però neanche lui si è rivelato in perfetta forma. Antonino Siragusa ha proiezione per farsi sentire con il suo timbro penetrante, ma gli acuti sono un po’ sforzati e i passaggi talora poco puliti, tanto che l’aria finale viene saggiamente saltata. Non manca di proiezione neppure la voce di don Basilio, ma Guido Loconsolo non è sufficientemente espressivo nonostante il regista lo presenti parodisticamente come una specie di Rasputin. Sbiadita infine la performance di Leonardo Galeazzi, un don Bartolo vocalmente poco convincente. Rocco Lia (Fiorello) e Irina Bogdanova (una rancorosa Berta che sputa nella minestra di Rosina e le strappa i capelli con la spazzola) completano il cast.

Diego Fasolis affronta la concertazione di questa partitura con la sua immensa competenza del repertorio sei-settecentesco e il Rossini che viene fuori dalla buca orchestrale è precisamente scandito nei tempi e nelle agogiche. I crescendi magari non sono trascinanti e il «caos organizzato» rilevato da Stendhal qui è soprattutto organizzato, tanto che a qualcuno del pubblico è piaciuta poco la sua direzione che però si rivela la più vicina possibile all’originale e si fa apprezzare per leggerezza e trasparenza. Orchestra e coro del teatro hanno fornito ottima prova.

Come s’è detto la maggior parte del pubblico ha reagito con calore, ma sembra che all’anteprima per gli under 30 l’entusiasmo sia stato incontenibile. È anche partita Regio Opera Pop, un’iniziativa per coinvolgere i giovani: il teatro quella sera è stato aperto a partire dalle 19 per un aperitivo e per un breve spettacolo a cura di Casa Fools, una compagnia teatrale torinese che ha inventato un podcast di successo per dare al pubblico giovanile le chiavi di lettura dello spettacolo a cui stavano per assistere. Ma non è finita lì: al termine, The Goodness Factory nel foyer ha inscenato Contrasti, il primo di cinque happening musicale in cui si mettono in relazione tra loro differenti generi musicali. Lodevole iniziativa per assicurare all’opera il pubblico di domani.

Il barbiere di Siviglia

Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia

★★★☆☆

Parigi, Opéra Bastille, 25 settembre 2014

(registrazione video)

Il barbiere del condominio

Questa produzione de Il barbiere di Siviglia di Damiano Michieletto era nata a Ginevra nel 2010 ed è del tutto diversa dalla sua precedente, ripresa recentemente a Firenze. Qui l’elemento dominante è la scenografia di Paolo Fantin: una strada della Siviglia di oggi su cui si affacciano un bar di quartiere e un condominio popolare di quattro piani. Oltre che alla Spagna di Almodóvar c’è anche l’atmosfera di un campiello veneziano in questa facciata punteggiata da finestre da cui si spia una varia umanità. Ruotando su sé stessa la struttura mostra le camere interne di una immensa casa di bambole – e qui semmai si pensa al Perec di La vie mode d’emploi! È risolto così con genialità il passaggio da esterno a interno.

È questa rotazione, addirittura vorticosa nel finale primo, e la concitazione su e giù per scale e corridoi a restituire visivamente la frenesia musicale di questo capolavoro. La regia di Michieletto è piena di gustosi particolari, come i muratori che costruiscono il muro solo minacciato nel libretto da Bartolo il quale fa poi sigillare con il nastro le finestre, o la calunnia di Basilio, un vero e proprio volantinaggio diffamatorio nei confronti del Conte. Nelle stanze senza la facciata vediamo al piano terreno la portineria, la stanza di lavoro di Bartolo con i suoi faldoni, Rosina nella sua stanzetta da adolescente con il poster di Johnny Depp sul muro e i peluche sul letto. Al primo piano la cucina e il tinello; al secondo Figaro fa la messa in piega a una cliente e Berta riceve il suo stagionato amante. Ai balconi c’è chi stende i panni, che poi ritira frettolosamente all’arrivo del temporale, fuma una sigaretta, inveisce contro i rumorosi passanti o semplicemente osserva il traffico di auto, moto e biciclette. Nella ripresa video il regista utilizza spesso lo split screen per concentrare l’attenzione sulle diverse scene che procedono in parallelo. In questo Michieletto si dimostra un maestro nel gestire l’azione e la recitazione di cantanti e figuranti, tutto sempre sul ritmo della musica.

Musica che però con la bacchetta di Carlo Montanaro non ha quel brio che si vorrebbe: certi tempi sono esasperatamente lenti, ci sono continui rallentandi, i crescendi risultano mosci e non sempre a fuoco sono i concitati ensemble. La musica difetta nella brillantezza e anche il temporale manca di efficacia. Neppure gli interpreti si fanno notare per particolare eccellenza. Simpatico e di vivace presenza scenica è il Figaro di Dalibor Jenis, che però sul piano vocale evidenza fiati corti, difficoltà con la dizione e rigide agilità. Però suona la chitarra nella serenata del primo atto! Come Lindoro/Conte d’Almaviva René Barbera inizia maluccio con un’intonazione vagante e agilità imprecise. Poi migliora, ma per prudenza rinuncia saggiamente al rondò finale «Cessa di più resistere». Il tenore messicano punta tutto sugli acuti e il pubblico abbocca. Il mezzo soprano Karine Deshayes è poco sonora nei registri medio e basso – si sentono quasi solo gli acuti – ed è un peccato perché sulla carta sarebbe una buona Rosina. Orlin Anastassov delinea un Basilio efficace ma certo non memorabile. Tiago Matos come Fiorello e Cornelia Oncioiu quale spassosa Berta invaghita di Figaro completano una distribuzione nel complesso deludente e infatti nelle successive riprese della produzione all’Opéra Bastille verranno tutti rimpiazzati ad eccezione di Carlo Lepore, bella voce di basso e punta di diamante del cast come espressivo Bartolo.

In tono con la lettura del regista il finale: i due novelli sposi partono a bordo di una moto nuova fiammante, lei con un giubbotto di pelle (gustosi come sempre i costumi di Silvia Aymonino) appena recapitato da un corriere Amazon.

Il barbiere di Siviglia

Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia

★★★☆☆

Vienna, Staatsoper, 28 settembre 2021

(video streaming)

Da Beaumarchais al teatro delle marionette: un nuovo Barbiere a Vienna

La Staatsoper di Vienna non ha mai fatto mistero delle sue scelte conservatrici, per cui non c’è da stupirsi se solo ora mette in scena un Barbiere di Siviglia che non abbia la firma di Günther Rennert la cui produzione è stata utilizzata per 55 anni!

Debutta sul podio del primo teatro austriaco Michele Mariotti, che avrebbe dovuto dirigere Guillaume Tell e Un ballo in maschera l’anno scorso, ma entrambi i titoli furono annullati per la pandemia da Covid-19. Il barbiere di Siviglia è anche l’opera con cui Mariotti ha fatto il suo debutto professionale nel 2005 e parlando dell’opera afferma che «è il ponte ideale tra la Commedia dell’Arte e l’Opera Buffa, eppure non si identifica con nessuna delle due, segnandone anzi il superamento. Per questo siamo di fronte a un capolavoro che continua ancora a sorprenderci. […] Se L’italiana in Algeri è un’opera buffa sotto ogni punto di vista, e Cenerentola è un’opera di mezzo carattere, di grande eleganza e profondità, Il barbiere è caratterizzato da un materiale musicale e drammaturgico assolutamente eterogeneo. Non è un’opera buffa dall’inizio alla fine: basti pensare alla cattiveria dell’aria di Bartolo espressa da una sorta di rap ante litteram, o alla viscida e sinistra aria di Basilio in cui si organizza la distruzione di una persona. È un’opera che alterna momenti buffi e assurdi, nei quali si ride, ad altri appunto violenti, neri, malinconici o profondamente amorosi».

Non la deve aver pensato così il regista Herbert Frisch, che punta invece sulla realizzazione di personaggi meccanicamente marionettistici, dalla gestualità e dalla mimica esasperata. Nella totale assenza di mobili e oggetti di scena – anche i vari biglietti sono soltanto mimati – il gioco recitativo viene esaltato dalla sua scenografia astratta con pannelli semitrasparenti colorati in un caleidoscopio in continuo movimento, dai costumi settecenteschi di Victoria Behr e dalle parrucche torreggianti. I continui ammiccamenti al pubblico sono un espediente teatrale che funziona la prima volta, poi viene a noia e qui viene sfruttato anche troppe volte. L’umorismo di un grande attore come Paolo Bordogna, che dà il meglio quando può lavorare di sottrazione, qui è caricato dal regista di gag, smorfie e mossette al limite del sopportabile, mentre tutti gli interpreti sono spesso impegnati in saltelli e passetti di danza. Per buona misura è onnipresente poi anche un mimo. Frisch sembra voler recuperare con mezzi moderni i lazzi e i cachinni di una tradizione interpretativa che si pensava morta e sepolta e di cui non si sentiva da tempo la necessità: il suo umorismo sopra le righe è quanto di più distante dall’umorismo rossiniano e perpetua, soprattutto nel pubblico d’oltralpe, l’immagine di un compositore buffo a oltranza. Il risultato è che sono soltanto gli spettatori viennesi a ridere e lo spettacolo sembra molto più lungo di quanto sia.

Per fortuna su tutto un altro livello si situa la realizzazione musicale. In occasione della sua esecuzione alla Metropolitan Opera House nel 2014, il “New York Times” così aveva scritto: «Mariotti dirige l’orchestra in un’esecuzione scrupolosa e infiammata, mettendo in evidenza la sua cura per i più piccoli dettagli: ora un leggero risalto alla linea nervosa della viola, ora lo straniante effetto dato dal suono teso di un roboante violoncello a suggerire la tempesta del secondo atto…». Lo stesso si può ripetere per l’attuale performance viennese: fin dalla sinfonia, dove Mariotti si concede qualche pausa in più per preparare con più efficacia  l’incontenibile crescendo, la ricerca strumentale è sovrana. E non solo nel temporale, il momento sinfonico dell’opera, ma nella concertazione delle voci: basti ad esempio la nitidezza degli archi che commentano il terzetto del secondo atto o l’esattezza dei tempi piegati alla teatralità della vicenda.

Juan Diego Flórez, in una delle sempre meno frequenti apparizioni in scena, non accusa stanchezze e la sua performance è a livello di quelle di anni fa, sia che si lanci nel lirismo della sua serenata all’inizio dell’opera, o nelle prodigiose agilità del rondò finale che, tra l’altro, sempre più raramente si ascolta. A fianco ha la Rosina sicura nelle colorature e dal bel timbro mezzospranile di Vasilisa Beržanskaia, che in una estesa versione dell’aria de L’inutil precauzione nella ripresa sfoggia gustose variazioni. Nel ruolo del titolo il baritono canadese Étienne Dupuis senza strafare – è il più contenuto dal lato recitativo – incanta per l’eleganza del porgere, la bellezza del timbro e la impeccabile dizione. Il suo è uno dei migliori Figaro sentiti negli ultimi anni. Di Bordogna s’è detto, forse sono un po’ troppo parlati i suoi interventi. Basilio gioviale, anche troppo e perde la sua carica di malvagità, quello di Il’dar Abdrazakov, ed è lui che sembra divertirsi di più in scena. Di buon livello gli interpreti delle parti secondarie: Aurora Marthens (Berta) Stefan Astakhov (Fiorello).

Lo streaming dello spettacolo è disponibile sulla rete di ARTE.

Il barbiere di Siviglia

mini_©A.Anceschi-0331Foto ©Alfredo Anceschi

Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia

★★★☆☆

Reggio Emilia, Teatro Municipale Romolo Valli, 28 marzo 2021

(video streaming)

Tra Dada e Lewis Carroll

Eseguito e registrato a marzo ma trasmesso solo ora in streaming, ecco un altro Barbiere di Siviglia senza pubblico dopo quelli recenti di Piacenza (Nägele/De Tomasi), di Verona (Ciampa/Maestrini) e Roma di Gatti/Martone. Qui al Valli di Reggio Emilia le cose sono fatte senza i mezzi tecnici e finanziari della capitale e si sopperisce con la fantasia e l’entusiasmo giovanile, quelli del direttore Leonardo Sini e del regista Fabio Cherstich, entrambi poco più che trentenni.

Il primo affronta con slancio la partitura dandone una lettura rompicollo che rende bene il tono surreale dell’opera, uno spirito che è esaltato dal regista con un allestimento antinaturalista e coloratissimo. Leonardo Sini rende con sapienza i suoni legati, le agilità fluide e l’attenzione alla parola cantata senza sovrastarla con l’orchestra, esattamente come dichiara nel programma di sala. Falcidiati i recitativi e cassato il rondò di Almaviva, la folle journée di Reggio Emilia scorre con fluidità ma con buchi nella drammaturgia, il tutto per risparmiare un quarto d’ora. Cast omogeneo e spigliato, ma vocalmente senza particolari eccellenze, certo non quella di César Cortés (Almaviva) tenorino di grazia, né di Michela Antenucci (Rosina, qui un soprano) agile ma dalla voce un po’ arida. Elegante e tutt’altro che caricaturale è il Don Bartolo di Pablo Ruiz e collaudato il Figaro di Simone Del Savio. Guido Loconsolo dà vita a un diabolico Don Basilio, Ana Victoria Pitts è una Berta di temperamento. Il Fiorello/Ufficiale di Alex Martini completa la folla dei personaggi ai quali si aggiunge l’Ambrogio del mimo Julien Lambert con le sue innumerevoli gag.

Nell’allestimento di Cherstich le scene di Nicolas Bovey creano un mondo pop con figure ritagliate dai fumetti dove un cartello stradale indica la città andalusa senza connotarla con particolari elementi folclorici o toponomastici. Dichiara il regista: «Mi sono immaginato lo spettacolo come un grande ingranaggio ad orologeria, una spazio vuoto che di scena in scena si riempie di immagini ed elementi che niente abbiano a che fare con la Spagna della tradizione: unica concessione un Figaro torero e scatenato». Ecco quindi che, a parte qualche incursione in platea, l’azione si svolge regolarmente sul palcoscenico nudo  in cui è montato un binario circolare su cui viaggiano vari elementi mentre altri oggetti praticabili scendono dall’alto, compreso un pianoforte a coda. I costumi di Arthur Arbesser sono eterogenei e generalmente contemporanei, con l’eccezione di Almaviva, in parrucca incipriata e abito settecentesco prima di travestirsi come da copione. Se nella Turandot di Bologna Cherstich aveva puntato tutto sulla video grafica, qui dimostra più fiducia nei vecchi mezzi del teatro: Basilio esce da una botola del pavimento con la faccia dipinta di rosso e con un teschio-Pinocchio in mano, Don Alonso da un confessionale capovolto e con un corvo sul braccio, Berta si attacca alla bottiglia dentro un frigorifero, Don Bartolo invece della barba si fa fare un salasso immerso nella vasca da bagno come Marat…

La ripresa video fatica a dar conto di tutte le trovate della regia, ma soprattutto quella che manca è la reazione del pubblico. Ancora per poco, si spera.

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Il barbiere di Siviglia

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Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia

★★★☆☆

Oslo, Operahuset, 20 dicembre 2020

(registrazione video)

Il barbiere di Oslo: prequel del Figaro mozartiano

L’infallibile congegno teatrale di Beaumarchais/Sterbini/Rossini mantiene la sua efficacia e vis comica anche tra i fiordi: nell’iceberg di cemento e cristallo che si getta nell’acqua dell’Indre Oslofjord, il teatro dell’opera della capitale norvegese, viene messo in scena il più famoso prequel della storia dell’opera. Nella sua lettura de Il barbiere di Siviglia la regista Jetske Mijnssen fa presagire quanto succederà ne Le nozze di Figaro: tanto darsi da fare del Conte, quando poi già subito cerca svaghi al di fuori della sua Rosina, ora Contessa d’Almaviva, nelle cameriere di Don Bartolo – una delle quali ha destato l’interesse, corrisposto, di Figaro. La sua Susanna?

Nell’impianto scenico di Herbert Murauer, su una struttura rotante si erge una parete rivestita di pannelli di legno, un enorme armadio quattro-stagioni con i cassetti che diventano scale, gli sportelli che si trasformano in finestre, le ante in balconi. La vicenda si trasferisce da Siviglia in un ambiente molto nordico e l’epoca è la nostra, ma senza eccessive connotazioni: non ci sono telefonini e tablet, ma si fuma parecchio. Il Conte/Lindoro ha una predilezione non solo per i travestimenti, ma anche per lo spogliarsi in scena rimanendo in mutande: all’inizio quando viene privato degli abiti per pagare la serenata e poi per dimostrare chi è sotto le vesti della poliziotta. Se travestimento ha da essere, deve aver pensato la regista, che travestimento sia: perché non da donna, allora.

L’umorismo viene accentuato da piccoli particolari, come il Don Alonso con lo stesso cardigan abbottonato male di un Don Basilio biondo e occhialuto che gira per la casa di Don Bartolo come un ospite appena tollerato. Ma sta soprattutto nella disinvolta recitazione dei giovani interpreti che lasciano da parte i cliché cui ci ha abituato questa opera, anche troppo rappresentata al di qua delle Alpi. Le troppe produzioni l’hanno in certa misura usurata e il vederla attraverso gli occhi di artisti molto lontani dalla nostra mentalità non può che essere utile.

Il ritmo teatrale trova amabile riscontro nella direzione precisa e senza eccessi di Tobias Ringborg alla guida della Norske Opera Orchestra che concerta cantanti non memorabili ma di buon mestiere, tra cui spicca la Rosina volitiva di Angela Bower dal bel timbro luminoso di mezzosoprano e dalle sicure agilità. Un conte un po’ guascone e senza mezze tinte è quello di Jack Swanson. Canta sempre tutto troppo forte, ma dimostra grande sicurezza e non delude nel rondò finale – che si debba venire a Oslo per poterlo sentire questo pezzo spesso tagliato è assurdo! Hubert Zapiór è un Figaro vivace, modernamente plausibile e simpatico. Qualche problema con la dizione è evidente soprattutto per il Don Bartolo di David Stout mentre Clive Bayley delinea un Don Basilio svagatamente surreale e per niente luciferino come si è spesso visto fare.

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Il barbiere di Siviglia

Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia

★★★☆☆

Lugano, LAC, 3 settembre 2018

(live streaming)

Il barbiere della Svizzera

Lugano Arte e Cultura è un centro culturale della città del Canton Ticino aperto al pubblico nel 2015. Il centro ospita il Museo d’Arte della Svizzera Italiana (MASI) e una versatile sala teatrale di 1000 posti con acustica modulabile secondo le esigenze. Dopo le prime stagioni teatrali e concertistiche la sala si è aperta ora all’opera unendo nello sforzo produttivo Lugano Musica, Lugano in Scena, la Radiotelevisione della Svizzera Italiana e la Fondazione Rossini di Pesaro che ha prestato gli spartiti originali dell’edizione critica curata da Alberto Zedda de Il barbiere di Siviglia.

Il risultato è uno spettacolo che sfrutta le celebrazioni dell’anno rossiniano (150 anni dalla morte) per puntare a un titolo di sicuro successo. La parte musicale è affidata a una formazione storicamente informata come “I barocchisti”, qui autoribattezzati “I classicisti”, e al suo direttore e fondatore Diego Fasolis, che a Lugano è di casa. Con l’uso di strumenti ottocenteschi e la scelta di un diapason a 430 Hz, la probabile frequenza utilizzata ai tempi di Rossini, si è potuto così restituire un Barbiere vicino a quello che si faceva all’epoca della sua composizione. La musica che ne deriva è caratterizzato da limpidezza e leggerezza di suono, timbri strumentali inediti (per la presenza di tre chitarre) e fioriture e improvvisazioni che però talora allentano il ritmo. Dilatati sono anche i tempi dei recitativi, mentre eseguiti con grande brillantezza e vivacità risultano i vorticosi concertati. Due gli strumenti a tastiera (un cembalo e un fortepiano) stereofonicamente piazzati ai lati opposti della buca orchestrale per realizzare gli accompagnamenti dei recitativi assieme alle corde ora percosse ora pizzicate, “alla spagnola”.

Solo in parte quello che si vede in scena risponde alle proposte innovative del Maestro Fasolis, rifugiandosi la regia di Carmelo Rifici in una collaudata tradizione, con i figuranti che saltellano sulle note puntate dell’ouverture. Le mossettine i passettini saranno una costante per tutto lo spettacolo. Le parrucche e i costumi settecenteschi di Margherita Baldoni sono senza particolare originalità. La scena è spesso affollata di figuranti in corsa e di idee inutili, come la “sirena” dorata che esce dalla fontana al momento di «All’idea di quel metallo» per suggerire a Figaro il travestimento da soldato ubriaco per poi dimenarsi con mosse da disco dance. Anche la casa di Rosina è assurdamente affollata di monache saltellanti e al tutto si deve aggiungere il tormentone dell’addormentato Ambrogio e della starnutente Berta tra un continuo spostamento di mobili e strutture luminose pop. La scenografia di Guido Buganza propone un grande ambiente piastrellato di azulejos fino al soffitto mentre alcune trovate sembrano fatte apposta per dimostrare le capacità tecniche del teatro, come l’apparizione dal pavimento della “Forza” nel finale primo. A tutto questo si aggiunge una regia video con frequenti riprese zenitali che aumentano il senso di mal di mare.

Vocalmente fresco e scenicamente dinamico è il Figaro di Giorgio Caoduro, si capisce che Rosina ne subisca una certa seduzione. Il baritono di Monfalcone è anche l’unico che realizzi i recitativi con gusto ed espressività. Specialista di questo repertorio, Edgardo Rocha è un Conte d’Almaviva stilisticamente appropriato che gratifica il pubblico delle agilità del rondò finale spesso ingiustamente tagliato, qui eseguito in modo un po’ routinier, forse facilitato dall’intonazione più bassa di quasi un quarto di tono che mitiga l’eventuale asprezza degli acuti. Il mezzosoprano Lucia Cirillo (Rosina) ha suoni un po’ fissi ed è in difficoltà nel registro basso. La cantante latita nel brio che cerca di compensare con un’affettata recitazione. Riccardo Novaro (Don Bartolo) è tutt’altro che «vecchio rimbambito», sembra invece un elegante e azzimato damerino e così il personaggio rimane poco caratterizzato seppure vocalmente elegante. Lo stesso succede per il Don Basilio di Ugo Guagliardo che però ne «La calunnia» realizza i trilli che è raro ascoltare. Alessandra Palomba dà carattere a Berta e si esibisce in avventurose variazioni nella sua aria, mentre il Fiorello di Yiannis Vassilakis è un bravo chitarrista, ma come cantante se la deve vedere con un temporaneo attacco di raucedine, o così si spera sia avvenuto.

Le nozze di Figaro

Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro

★★★☆☆

Milano, Teatro alla Scala, 9 febbraio 2006

(registrazione video)

Ripresa della gloriosa regia di Strehler

Nata a Parigi nel 1973 all’Opéra-Comique, questa produzione al suo debutto vide la defezione del regista triestino per incomprensioni avute durante le prove con il maestro Solti (due bei caratterini tutti e due!). Nel 1981 l’allestimento venne riproposto a Milano e da allora è andato in scena altre otto volte, di cui sei volte con la direzione di Riccardo Muti. Ancora nel 2012 spetta al giovane Andrea Battistoni far rivivere in musica il capolavoro mozartiano, ma questa è invece la versione 2006 con in buca Gérard Korsten. Il 2006 è infatti l’anno mozartiano (250 anni dalla nascita) e alla Scala si vuole rendere così omaggio all’illustre salisburghese.

Le scene di Ezio Frigerio non hanno perso nulla della loro eleganza, i toni rosati dell’ocra dominano le prospettive degli interni e un luminosissimo giallo oro gli elegantissimi costumi della Squarciapino, mentre la regia, ripresa da Marina Bianchi, è sempre arguta, vivace, fedelissima al libretto e dai movimenti precisi come un orologio e si conferma ancora perfettamente funzionale. È piena di particolari rivelatori della cura della messa in scena: Antonio il giardiniere entra in camera scalzo (per non sporcare ha lasciato fuori gli zoccoli incrostati di fango); Cherubino esce dalla camera di Susanna vestito da uomo, non più con i vestiti da donna che gli erano stati fatti indossare (ha avuto tutto il tempo di cambiarsi); Bartolo è più che sconcertato alla notizia di essere padre di Figaro, anzi di Raffaello, e di dover sposare Marcellina…

«La già mirabolante complessità della drammaturgia di Beaumarchais», scrive Ugo Malasoma, «viene arricchita dalla vorticosa musica d’azione approntata da Mozart, la cui arte regna con assoluta sovranità soprattutto nei concertati, come si evince anche dalla messa in scena di questa sera, ripresa dello spettacolo di Strehler del 1981, ormai vista e rivista, che si rifà al concetto del teatrino all’italiana in cui viene riprodotto il Settecento mozartiano, con le immagini di quella precisa società, che mostra tutte le rughe, politiche e di “costume” e il suo prossimo disfacimento. Attenta è la ripresa registica di Marina Bianchi, tutta tesa ad esaltare la naturalezza della recitazione, in cui emerge Susanna, oggetto del desiderio, che muove la commedia e l’intrigo. Non è infatti la soubrettina scaltra e ammiccante ma una donna sincera, sentimentale, che nel quarto atto, nell’aria “delle rose” dimostra tutta la sua natura sensuale rendendo la notte un luogo invidiabile di unione tra uomo e donna. Figaro abbandona la tirata “politica” contro i privilegi dei nobili – quinto atto della commedia di Beaumarchais – annacquandola con il cedimento alla gelosia, più umana e meno simbolica, nell’aria del quarto atto: “Aprite un po’ quegli occhi”. In Mozart appare un personaggio positivo e a suo modo “rivoluzionario” – vedi quando batte gli abiti appesi del padrone mentre canta “se vuol ballare, signor Contino” – ma risulta così grazie comunque a Susanna che, svelandogli subito le intenzioni del Conte, lo pone in condizione di lottare “da uomo a uomo”, quasi su un piano di parità con la nobiltà, piano poi ribadito dall’agnizione nel sestetto del terzo atto».

Si leva il sipario e la luce naturale di tre alte finestre illumina la spoglia stanza che il Conte ha destinato ai novelli sposi, una Susanna e un Figaro perfetti sia scenicamente sia vocalmente. Deliziosa Diana Damrau e virile Ildebrando d’Arcangelo che nella sortita di «Se vuol ballare signor Contino» con la sua voce profonda e sonora ha un inusitato tono minaccioso che mette subito in evidenza l’attrito di classe che il librettista aveva cercato di attenuare rispetto all’originale di Beaumarchais: «Ah! monseigneur! mon cher monseigneur! vous voulez m’en donner… à garder! […] Me crottant, m’échinant pour la gloire de votre famille; vous daignant concourir à l’accroissement de la mienne! Quelle douce réciprocité! Mais, monseigneur, il y a de l’abus.» Quanto distanti siamo dagli stereotipi dei caratteri della commedia del Settecento prima di Mozart.

Entra Cherubino, una Monica Bacelli fisicamente piuttosto lontana dal modello efebico del «bricconcello» e anche vocalmente non convincente, né aiutata qui dalla direzione senza grazia di Korsten.

Seducente e ironico il Conte di Pietro Spagnoli è autorevole, elegante e la voce molto più chiara di quella di Figaro lo rende giustamente insinuante, ma può non piacere.

Con l’entrata in scena all’inizio del secondo atto della Contessa si completa la presentazione dei cinque protagonisti principali. Nella sontuosa camera da letto della padrona (qui anche scenograficamente sono rispettate le differenze sociali) la Contessa è illuminata da una calda luce pomeridiana (siamo alla seconda parte della folle giornata) che entra dai finestroni che danno sul giardino. La sua aria stenta a commuoverci e anche in seguito Marcella Orsatti Talamanca si dimostra una Contessa non molto nobile, con atteggiamenti troppo marcati e una vocalità modesta.

Il terzo atto si apre su una prospettiva architettonica molto profonda. Il sole si è ancora più abbassato sull’orizzonte e il Conte elegantissimo al clavicembalo tenta di sedurre Susanna, ma quando si accorge di essere stato ingannato fa uscire tutto il suo arrogante potere. È qui che il timbro scolorato di Spagnoli più mostra la corda. Il coro di villanelle è stucchevole come il solito, ma il finale d’atto ha tempi esattissimi.

Al quarto atto la notte è finalmente calata e nel giardino, un romantico Fragonard, ha luogo la schermaglia degli scambi di coppie. La scena di Barbarina qui non ha la magia che dovrebbe avere e sono ripristinate le arie di Marcellina «Il capro e la capretta» e di Don Basilio «In quegl’anni in cui val poco» per puro scrupolo filologico, non certo per farci apprezzare le vocalità dei rispettivi cantanti. Il problema infatti è che gli interpreti minori sono piuttosto deboli.

P.S. Questo il post su facebook di Elvio Giudici alla ripresa nel giugno 2021 della produzione scaligera: «Non facevo parte dell’eletta compagnia presente alle Nozze di Figaro scaligere, ci vado martedì [22 giugno]. Ho letto col consueto interesse i post di Francesco [Maria Colombo] e di Alberto [Mattioli]. Né l’uno né l’altro (malditos imberbi giovincelli) erano spettatori della sua nascita, mentre io sì con Giancarlo (Versailles 1973, stavamo assieme da due anni). Mi viene quindi spontaneo avanzare un paio di considerazioni in quanto testimone diretto. Il Settecento, certo; la questione sociale, certo. Un po’ più dubbioso sul sostenere essere una moderna forzatura quell’erotismo che invece secondo me letteralmente intride tutta l’opera. Poi, certo, intendiamoci sul come lo si debba comunicare gestualmente. Però Mila, che non era propriamente un gaudente, di “Deh vieni non tardar” diede la definizione “aria a luci rosse”. Sacrosanta. E sempre Visconti, chiudeva il prim’atto non con Cherubino che marcia giulivo, bensì che guarda melanconicamente eccitato Figaro che salta sul tavolo da stiro e bacia eroticamente Susanna palpandola dappertutto. Erano Bruscantini e Sciutti: e chi se li è mai dimenticati. Anche tralasciando le considerazioni che la scena del “Se vuol ballare” Strehler la riprese paro paro da Visconti, che la realizzò molto meglio (Figaro lucida gli stivali usando lo sputo, li butta da un lato, fa per andarsene ma capisce che non può – non ancora? – li riprende, risputa ma lucida con rabbiosa lena) al pari della regia tutta: a parte questo, la vera, sconvolgente rivoluzione di Strehler – in questo superiore a Visconti – stava da un’altra parte. I recitativi. Che erano RECITATI, sillaba su sillaba. La Freni mi ha raccontato in dettaglio lo stupore generale e la fatica immane di DUE MESI ININTERROTTI di prove, lei più di tutti perché Susanna è quasi sempre in scena. Fate un esperimento: ascoltate di fila tre o quattro incisioni viennesi antecedenti: i recitativi sono identici, veloci, asettici, squisitamente e viennesemente insipidi, con gli stessi identici ammicchi. Poi subito dopo ascoltate l’incisione Colin Davis, dove Mirella recita i recitativi “di Strehler” appresi poco prima, che capisci immediatamente quanto siano “di Mozart”, diffidate delle imitazioni. Ricordo bene l’entrata della Freni nel cast delle Nozze dirette da Karajan a Salisburgo, subito dopo i fatti di Parigi: mascelle pendule ovunque. Ovvio che, come tutte le Rivoluzioni vincenti, tempo tre anni dalle recite parigine che occuparono le cronache musicali per mesi, la tradizione viennese delle Seefried & C era finita in soffitta assieme ai carillon della trisavola. E quando le Nozze approdarono alla Scala, tanti, troppi anni dopo, ormai sembravano “normali “ in fatto di recitativi (che comunque erano peggio, manierati all’inverosimile dopo la marinatura in salsa Muti). Coi “suoi” recitativi, Strehler ridiede un teatro autentico alla sublime macchina sonora mozartiana. Grande, immenso merito. Ma sono passati quasi cinquant’anni. Oggi non “frizzano” più e restano solo le caccole gestuali intellettual-chic targate (inequivocabilmente) Piccolo Teatro. Oggi, nelle Nozze, a me del Settecento importa assolutamente niente se non per la mia personale e indefettibile preferenza nei confronti dell’Illuminismo rispetto al Romanticismo. Oggi non ci vedo il Settecento (c’è, sono d’accordo; ma non mi interessa vederlo): ci vedo l’uomo. Noi. Io. Vedo il motore drammaturgico nell’inesausta febbre di vivere, nella quale la voglia di “farlo” convive con la frustrazione oppure la lancinante melanconia di chi non lo fa o non lo può fare più. E l’Uomo, sempre quello è, con le sue pulsioni basilari. Quindi sì, la sento come Alberto. La drammaturgia autentica delle Nozze, quella cui la musica si piega docilissimamente perché la postula, OGGI lo spettacolo di Strehler la sfiora soltanto, mentre l’hanno fatta toccare con mano Guth o McVicar. Ma raramente, molto molto raramente, m’è parso di contemplare dappresso il cuore di Mozart come quando la Contessa di Michieletto intonava “Dove sono i bei momenti” illudendosi nell’Andante di ballare nella penombra della sua camera da letto languidamente allacciata al Conte, salvo scoprirsi sola allo scoppiare dell’Allegro, mentre fa buio e fuori piove. Ormai i recitativi “di Strehler” sono pressoché ovunque “di Mozart“. Il pudibondo spogliarsi dietro un paravento (elegante, ci mancherebbe) di Cherubino, donna nella parte di uomo che davanti a due donne si traveste da donna: questo invece non è Mozart, è il ritorno del biscuit viennese con la cipria e la boccuccia a cuore. Grazie no».

Il barbiere di Siviglia

Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia

★★★★★

Roma, Teatro dell’Opera, 5 dicembre 2020

(video streaming)

bandiera francese.jpg Ici la version française

Fare di necessità virtù, anzi eccellenza

Due giorni prima di Milano, anche la capitale inaugura la sua stagione lirica in un periodo terribilmente inclemente per i teatri. A differenza della Scala però, l’Opera di Roma non rinuncia a mettere in scena un’opera, anzi la sua opera, quella che 204 anni fa al teatro di Torre Argentina fece scatenare il pubblico (o forse solo una parte, ma particolarmente accesa) al debutto di quella che diventerà tra le più popolari negli anni a venire. Il barbiere di Siviglia è dunque in programma al Costanzi senza pubblico in una versione che, lo diciamo subito, si è rivelata una gran bella sorpresa per l’abilità del regista Mario Martone di fare di necessità virtù trovando una soluzione teatralmente geniale.

Il teatro intero – il palcoscenico, le quinte, la platea, i palchi, i corridoi dei retropalchi, i passaggi di servizio – tutto diventa spazio scenico, un set a totale disposizione della vitalità dei personaggi e della fisicità degli interpreti. Unico elemento aggiunto è la selva di corde che corrono da un palco all’altro inglobando la platea come in una ragnatela che imprigiona sì la ragazza («tutto è disposta a fare | per rompere le sue catene la sventurata Rosina») quando siamo in casa di Don Bartolo, ma anche il teatro stesso, prigioniero di questa pandemia. Le corde verranno tagliate nel finale in un gesto liberatorio bene-augurante e carico di emozione da parte di tutti i partecipanti, cantanti, orchestrali, tecnici e aiuti di palcoscenico: dopo questi momenti dolorosi l’arte tornerà a liberarci.

Tutto fa teatro nella regia di Martone: la «febbre scarlattina» di Don Basilio (e tutti a infilarsi di nuovo la mascherina mentre Gatti dal podio gliela misura col termoscanner…), l’esilarante lezione di canto o la spruzzata di igienizzante sulle tele cerate di Figaro e Almaviva. Alcuni momenti hanno anche una punta di ironica amarezza, come quando Fiorello guarda sconsolato il teatro deserto e questa volta le sue parole  «Nessun qui sta, | che i nostri canti | possa turbar» assumono un triste significato. Esemplare è poi la scena del temporale, realizzata in maniera magistrale, dove lo scatenarsi degli elementi riflette lo stato d’animo di Rosina sola e smarrita nella grande platea, nel mentre le telecamere riprendono i “rumoristi” della pioggia, del vento, del tuono sulle loro macchine che sono rimaste le stesse dagli inizi delle prime rappresentazioni teatrali, e in orchestra gli strumenti sublimano in musica i rumori della natura. Prima avevamo visto le sarte cambiare i costumi a vista: nella regia di Martone i vari piani della realtà e della finzione, del teatro-teatro e del cinema (il video della corsa in moto dell’arrivo di Figaro in teatro, i filmati in bianco e nero con le prime del passato affollate con la Lollobrigida, la Magnani, la Callas, la Pampanini, Schuberth…), di ieri e della nostra attualità, si intrecciano felicemente. I bei costumi di Anna Biagiotti, che rilegge quelli d’epoca, le luci di Pasquale Mari, tutto concorre a creare uno spettacolo visivamente armonioso che sembra in ogni istante affermare un irriducibile amore per il teatro in tutti i suoi aspetti. Per di più Martone pensa alla sua regia teatrale in funzione di quella televisiva, che realizza egli stesso, e il risultato è ineccepibile e trascinante arrivando a  reinventare il concetto di film-opera.

Se ci si fermasse all’aspetto visivo già sarebbe un successo, ma le eccellenze nella parte musicale fanno di questo uno spettacolo a suo modo quasi unico. Daniele Gatti dipana con grande sensibilità e tempi sempre azzeccatissimi una partitura resa con grande affetto per Rossini e la sua musica. Gatti concerta abilmente un cast che è a dir poco eccezionale. Già si sapeva che con Alessandro Corbelli e Alex Esposito avremmo avuto un Don Bartolo e un Don Basilio di riferimento, ma le aspettative sono state superate, se possibile. Per presenza vocale (fraseggio, espressività, incisività) e scenica (dove finisce il cantante e dove inizia l’attore? Con Corbelli ed Esposito non ha senso farsi questa domanda, essendo entrambi, pur nella diversa personalità, la felice fusione di tutti e due i ruoli), i due interpreti hanno superato sé stessi e ci rimarranno sempre nella mente la mimica di un torvo Bartolo su sedia a rotelle (che non gli impedisce però di intrufolarsi in cabina di regia per ostacolare la fuga dei due giovani!) e un Basilio mai caricaturale ma straordinariamente definito.

Il giovane baritono polacco Andrzej Filończyk è un vivace Figaro dalla bella linea vocale e altrettanto giovane è l’Almaviva del tenore russo Ruzil Gatin, che conferma la buona impressione ricevuta nello stesso ruolo a Firenze poco più di un mese fa, anche se qui sembra in una forma meno smagliante e neanche questa volta gli viene offerta la possibilità di emergere ulteriormente nel rondò finale, qui omesso. Il mezzosoprano russo Vasilisa Beržanskaia (anche lei nella produzione fiorentina di fine ottobre) è una frizzante Rosina di sorprendente maturità, dal timbro particolare e dal gran temperamento, che esibisce precise agilità. Di ottimo livello anche Roberto Lorenzi (un Fiorello di lusso), Patrizia Biccirè (simpatica Berta) e gli altri.

Questa volta alla fine non c’è il solito angosciante silenzio: si sente il brusio dei cantanti che ritornano nei camerini, dei professori d’orchestra che si alzano e raccolgono i loro strumenti, dei tecnici che lasciano il palcoscencio commentando tra di loro. È il teatro che continua a vivere, anche nelle avversità. Quella di Martone è stata una lezione preziosa:  le attuali limitazioni possono suggerirci ulteriori stimoli creativi se li sappiamo cogliere.

Lo spettacolo sarà ritrasmesso il 31 dicembre su Rai5, ma chi se lo fosse perso lo può rivedere su RAI Play subito senza aspettare San Silvestro.

Aggiornamento. Lo spettacolo è stato scelto dalla critica musicale del Premio Abbiati come il migliore spettacolo del 2020.

Il barbiere di Siviglia

Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia

★★★☆☆

Florence, Teatro del Maggio Musicale, 23 October 2020

 Qui la versione italiana

Damiano Michieletto’s youthful Barbiere returns to Florence

When in 1816 an opera was announced, based on the same subject of Giovanni Paisiello’s Il barbiere di Siviglia, many regarded it as an act of arrogance and outrageous pride against the most revered composer of the time. The tactic of giving it a different title was little use: when on 20th February the stage of the Teatro di Torre Argentina saw the debut of Almaviva, o sia L’inutile precauzione (Almaviva, or The Useless Precaution), the performance was the target of stormy protests by supporters of the old master. Nevertheless, the second performance was a success and the following ones triumphant, a triumph lasting until today, making Gioachino Rossini’s Il barbiere di Siviglia the opera buffa par excellence and one of the most beloved by the public…

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