Le nozze di Figaro

Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro

★★★★☆

Salisburgo, Haus für Mozart, 12 agosto 2006

(registrazione video)

Da Ponte secondo Hitchcock

Mentre alla Scala di Milano viene ripreso il glorioso allestimento di Strehler del 1973, nello stesso anno (2006) a Salisburgo va in scena una nuova produzione de Le nozze di Figaro di Claus Guth, regista tedesco tra i più eminenti esponenti del contemporaneo Regietheater, con Nikolaus Harnoncourt alla guida dei gloriosi Wiener Philharmoniker. L’occasione è il 250° anniversario della nascita dell’illustre cittadino e se ne trarrà un DVD,  il 22° della collezione video completa delle opere di Mozart.

Harnoncourt dirige l’ouverture senza esagerare sui tempi, ma con toni cangianti e genuina verve – i tempi dilatati ritorneranno anche nell’opera, con pause cariche di tensione inespressa giustificate dalla sconvolgente lettura del regista. Il direttore stesso, consapevole che nulla di tradizionale è previsto in questa produzione, nelle interviste che hanno preceduto la prima ha premesso che la sua scelta sarebbe stati sì controversa, ma anche rivelatrice. Come è stato.

L’importanza dei recitativi per Harnoncourt è ben espressa dal fatto che il clavicembalo che li accompagna non è posizionato agli estremi dell’orchestra, come normalmente avviene, ma si trova esattamente nel mezzo, con la coda dello strumento che si incunea tra i violini e le tastiere proprio davanti al direttore, come se questi volesse controllare da vicino l’esecuzione del clavicembalista.

Si alza il sipario e ci troviamo nell’atrio di un palazzo neoclassico un po’ trasandato con una scalinata a tripla rampa che porta al piano nobile. Tre coppie sono cristallizzate in una posa fissa e dal finestrone di sinistra entra Cherubim, un’invenzione del regista: un giovane vestito alla marinara e acrobata provvisto di alucce di piume bianche che è l’esternalizzazione dell’eros motore della vicenda, una figura surreale che è spesso in scena per dare impulso ai personaggi e che nell’estesissimo e meraviglioso finale secondo traccia sulla parete il complesso diagramma dei rapporti su cui si fonda la vicenda.

Marcellina qui non è una vecchia megera, ma una piacente signora, forse un po’ troppo giovane per essere la madre di Figaro, e Bartolo un invalido che durante la sua aria cade dalla sedia a rotelle ed è poi vittima del battibecco tra Susanna e Marcellina sulla porta. Scopriremo che anche Don Curzio ha una menomazione, poiché non vedente. Barbarina e le villanelle sono invece delle lugubri educande che sarebbero di casa a Bly, l’ambiente del Giro di vite di Britten.

Durante «Non più andrai farfallone amoroso» Figaro si ricorda di essere stato barbiere e tira fuori le forbici per tagliare una ciocca di capelli a Cherubino, sfogandosi per chissà quali gelosie represse e maltrattando il ragazzo sadicamente assieme al Conte.

Nel secondo atto la camera della Contessa è un grande camerone spoglio e, come il resto del palazzo, col pavimento ingombro di foglie e corvi alla finestra. Non è l’unico particolare hitchcockiano di questo allestimento: la ripresa molto cinematografica di Brian Large (ben sette telecamere) ha una fotografia che richiama in maniera palese il mago del brivido quando riprende i personaggi dall’alto della scala o negli espressivi primi piani, nelle angolazioni sghembe o nelle ombre minacciose proiettate sui muri. Inquadrature negate al pubblico in sala.

Nel terzo atto siamo saliti di un piano dello scalone. Il momento dell’agnizione dei genitori di Figaro qui non ha nulla di comico, è quasi una tesa scena pirandelliana con un Don Curzio cieco che si appoggia alla ringhiera. Unico momento leggero il Cherubim su monociclo che piroetta fra i cantanti del sestetto spargendo piume. La festa per il matrimonio delle due coppie è poi uno stilizzato e rigido balletto con Bartolo che si accascia sui gradini per un attacco al cuore.

Il quarto atto inizia con un’aria di Barbarina in cui mai si sono uditi accenti così angosciati: la ragazza è visivamente turbata uscendo dalla camera del Conte. Scarmigliata, col rossetto sbavato, la camicetta fuori dalla gonna è evidente che quello che ha perduto nella stanza non è solo una spilla. Nella lettura di Guth l’erotismo è più esibito che accennato: la vestizione di Cherubino diventa un erotico gioco a tre mentre il Conte e la Contessa nel calore delle varie dispute si scambiano impetuose effusioni così come il Conte e Susanna furtivi baci appena sono soli.

Nella lettura di Guth non c’è spazio per giardini romantici al chiaro di luna. Il quadro finale si svolge sul pianerottolo, tra porte che si aprono e si chiudono su interni misteriosi. E i “pini del boschetto” sono ombre inquietanti al di là dei finestroni. Qui non c’è traccia di Settecento. È piuttosto uno psicodramma in bianco e nero e in abiti moderni (siamo nella prima metà del ‘900), angoscioso, quasi espressionista, più vicino alla cruda franchezza del testo di Beaumarchais che alla versione “edulcorata” dell’abate Da Ponte. Della commedia è rimasto ben poco, questo è quasi un dramma ibseniano in cui le coppie si lacerano con crudeltà e quando il Conte ritorna con un’ascia per aprire la porta del camerino di Susanna si teme realmente che possa usarla sulla moglie! Come Picasso fa con Velazquez, Guth fa della commedia di Beaumarchais “un’altra cosa”, certo non Le nozze da vedere come prima opera, ma una lettura stimolante e illuminante dell’eterno capolavoro di Mozart.

Un allestimento così particolare richiede degli interpreti altrettanto particolari: qui non c’è gioco galante da “civiltà della conversazione”, i rapporti interpersonali sono brutali e la voce dei cantanti si deve adattare a questa lettura. Ne sono un esempio Ildebrando d’Arcangelo, lo stesso Figaro di Milano, e Dorothea Röschmann, Contessa a Londra. Qui sembrano altre persone: introverso e turbato Figaro, sempre sull’orlo di una crisi di nervi la Contessa. Susanna, confusa e forse nascostamente invaghita del Conte, è un’Anna Netrebko perfetta per ricchezza vocale e presenza scenica. Il Cherubino un po’ maschiaccio, ma dalla sessualità tanto confusa quanto impellente, ha nella figura minuta e nella voce sopranile di Christine Schäfer l’interprete ideale. E poi il Conte psicotico e ossessionato dal sesso di Bo Skovhus, voce sfibrata, timbro aspro, vocalità spezzata e dizione stridente, ma così la sua è un’interpretazione perfettamente coerente con la lettura del regista. Anche il giardiniere Antonio ha perso i caratteri di macchietta comica per diventare qui una figura sinistra e turbata, quasi un vampiro dal nero mantello che si porti dietro un po’ della terra della sua tomba. Come nei personaggi minori la presenza scenica si affianca a una vocalità magari non “bella”, ma sempre coerente con l’idea registica.

«Diventa difficile, dopo Guth, ritornare a guardare alle Nozze con gli occhi disincantati di prima» afferma Giovanni Chiodi, «infatti, Michieletto a Venezia (2011) non ci ha pensato un istante a concentrare, tragicamente e crudamente, tutta l’azione sui tormenti interiori della Contessa. […] Il mal d’amore condurrà dritto al suicidio e da lì l’opera comincia, svolgendosi come in un flash-back, a rappresentare il disperato bisogno di essere amati.»

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