Mese: luglio 2015

Farnace

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★★☆☆☆

Allestimento semi-scenico e monco dell’opera di Vivaldi

Lo stesso Michael Talbot, il maggior studioso di Vivaldi, si dimostra ben contento di smentire le sue fosche previsioni. Nel suo saggio del 1978 scriveva infatti: «La deludente accoglienza toccata alle recenti produzioni teatrali dell’Olimpiade, della Fida Ninfa e della Griselda lascia pensare che una riesumazione delle opere vivaldiane nella loro forma originale difficilmente potrà avere successo». Trent’anni dopo invece lo studioso inglese sottolinea il gran numero di rappresentazioni in forma scenica: «Oggi non resta più una sola [opera del compositore veneziano] che qualcuno non abbia messo in scena da qualche parte». In effetti tra Europa e Australia sono parecchie le riprese delle venti opere rimasteci delle tante scritte dal prete rosso. Soprattutto all’estero. Non che in Italia manchino direttori specializzati nell’opera barocca: Rinaldo Alessandrini, Giovanni Antonini, Fabio Biondi, Ottavio Dantone, Alessando De Marchi, Diego Fasolis, Andrea Marcon, Federico Maria Sardelli (per citarne solo alcuni in stretto ordine alfabetico) sanno tener testa ai vari William Christie, Christopher Hogwood, René Jacobs, Marc Minkowski, Christophe Rousset e Jean-Christophe Spinosi. Ma il problema è che questi direttori italiani dirigono perlopiù oltralpe.

Un’eccezione è questo Farnace diretto da Federico Maria Sardelli, presentato al Maggio Musicale di Firenze nel 2013. L’anno prima l’opera di Vivaldi era andata in scena a Strasburgo con le invadenti coreografie di Lucinda Childs e la direzione di George Petrou (un altro giovane specialista della musica del Settecento) e una precedente edizione è quella su CD di Diego Fasolis (1), la migliore di tutte.

Del Farnace il compositore ha curato ben sette edizioni diverse. A ogni replica venivano fatte delle modifiche, così che abbiamo le seguenti diverse versioni: febbraio 1727 debutto al Sant’Angelo, Venezia; autunno 1727 ripresa al Sant’Angelo; 1730 Praga; 1731 Pavia; 1732 Mantova; 1737 Treviso; 1738 Ferrara. Solo le edizioni di Pavia e di Ferrara ci sono rimaste. (2)

Atto I. L’azione è ambientata nella città greca di Heracleia, durante la conquista romana dell’Anatolia. Farnace, re del Ponto, è il figlio e successore di Mitridate. È stato sconfitto in battaglia dai Romani ed è assediato a Heracleia, la sua ultima roccaforte. Per evitare che cada nelle mani dei suoi nemici, ordina a sua moglie, Tamiri, di uccidere il figlio e di suicidarsi. La madre di Tamiri, Berenice, regina di Cappadocia, odia Farnace e collude con il vincitore romano, Pompeo, per ucciderlo. Berenice e gli eserciti di Pompeo attaccano Heracleia, ma Farnace riesce a fuggire. Berenice impedisce a Tamiri di uccidere suo figlio e si suicida, come aveva ordinato Farnace. Ma l’arrivo delle truppe di Pompeo aggrava il clima di odio. Selinda, la sorella di Farnace, è tenuta prigioniera dal romano Aquilio che è innamorato di lei, così come Gilade, uno dei capitani di Berenice. Selinda gioca una contro l’altra nel tentativo di salvare suo fratello.
Atto II. La rivalità tra Gilade e Aquilio si intensifica, favorendo i piani di Selinda che in realtà intende respingerli entrambi favorendo suo fratello Farnace. Berenice ordina la cattura di Farnace che sta per suicidarsi credendo che sua moglie e suo figlio siano già morti. Ma Tamiri appare e gli impedisce di uccidersi. Berenice ordina la distruzione del luogo dove si trovava Farnace, ma lui riesce a nascondersi. Poi trova sua figlia, Tamiri, e suo nipote. Tamiri implora la madre di avere pietà, ma Berenice ripudia la figlia e prende il ragazzo con sé. Al palazzo reale, Selinda chiede aiuto a Gilade e, dopo aver ottenuto i suoi favori, offre questo aiuto a Farnace che era entrato clandestinamente nel luogo. Ma Farnace non accetta l’offerta. Gilade e Aquilio insistono con Berenice, difendendo la sopravvivenza del loro nipote ed erede. Ma la sua custodia è lasciata ad Aquilio per ordine di Pompeo.
Atto III. Sulla pianura di Heracleia, Berenice e Gilade sono raggiunti da Pompeo e Aquilio che guidano le truppe romane. Berenice chiede a Pompeo che il figlio di Farnace sia ucciso, offrendo al romano la metà del suo regno. Tamiri fa la stessa offerta in cambio della vita di suo figlio. Selinda ottiene da Gilade la promessa di uccidere Berenice nello stesso momento in cui ottiene da Aquilio la promessa di uccidere Pompeo. Aquilio e Farnace, travestito da guerriero, appaiono contemporaneamente a Pompeo con lo scopo di ucciderlo. L’azione fallisce e Pompeo interroga il guerriero che gli è apparso accanto senza sospettare che si tratti di Farnace. Berenice entra in scena e rivela l’identità di Farnace che viene arrestato e poi rilasciato da Gilade e Aquilio. Entrambi cercano di uccidere Berenice perché la considerano eccessivamente crudele. Ma la regina di Cappadocia viene salvata dal generale romano, che si mostra clemente. La clemenza di Pompeo convince Berenice a dimenticare il suo odio per Farnace e la regina, dicendo che la sua rabbia è placata, abbraccia Farnace come se fosse suo figlio. È il tradizionale lieto fine e tutti vengono risparmiati.

Il terzo atto dell’opera nell’edizione del 1738 è andato perduto ed è generalmente rimpiazzato da quello della versione del 1731. Non in questa produzione fiorentina, affidata a Federico Maria Sardelli e Marco Gandini, perché il maestro Sardelli si dichiara «contrarissimo a questa pratica […] alla fine del secondo atto sentirete, ci siamo permessi io e il regista, un’integrazione fuori dalla musica. Finito l’atto con il duetto finale amoroso tra Selinda e Aquilio, c’è un piccolo recitativo parlato, quindi registrato e parlato, quello si capisce che è un corpo estraneo. Finito il frammento io finisco con un’aria della versione del 1727 del Farnace, “Gelido in ogni vena scorrer mi sento il sangue”, perché la ritenevo un’aria bellissima da fare ascoltare e poi lascia l’idea che il dramma, comunque, nella versione in cui lo facciamo rimane incompleto, rimane insoluto e Farnace rimane nel suo rimorso di aver fatto uccidere suo figlio». Sarà. Nonostante la bellezza di sette versioni qui non ne abbiamo una intera, ma solo due terzi. E come è stata inserita la sublime aria della versione del ’27, si poteva benissimo introdurre il terzo atto della versione del ’31 o tutti e due come fa Fasolis.

Veniamo così privati del «Sposa afflitta e madre offesa» di Berenice; del dolcissimo «Forse, o caro, in questi accenti» di Tamiri;  «Sorge l’irato nembo» di Farnace; «Son vaghi gl’allori» di Gilade; «Ti vantaste mio guerriero» di Selinda; del concitato quartetto «Io crudele?» e dell’ineffabile coretto finale «Coronata di gigli e di rose».

Il ruolo del protagonista titolare ai tempi di Vivaldi è stato ricoperto di volta in volta da un soprano, da un tenore e da un castrato. Qui abbiamo il mezzosoprano Mary-Ellen Nesi, che nelle altre edizioni impersonava invece la sua acerrima nemica Berenice. In abito da sera e senza alcun segno maschile che la distingua dalle altre donne, così come Gilade, ci introduce in una vicenda quasi tutta al femminile. Mary-Ellen Nesi è più convincente altrove come Berenice: il volume di voce non è sempre adeguato nelle arie di furore e si scontra con quello di Tamiri, una Sonia Prina perfettamente a suo agio in questo repertorio, grande attrice e interprete di grande musicalità. Il Gilade di Roberta Mameli è gratificato da un pezzo di bravura «Quell’usignolo che innamorato» (autoimprestito dall’Oracolo in Messenia) in cui il soprano romano ha saputo eccellere nelle agilità e nei colori di quest’aria imitativa, e di un altro stupefacente pezzo, «Nell’intimo del petto», con due corni obbligati per cui Vivaldi ha scritto queste dettagliate e inusuali istruzioni: «Questo pedale [di sol] deve essere tenuto senza interruzione e i due corni dovranno suonarlo sempre in unisono e piano per permettere di prendere fiato di tanto in tanto». La vendicativa suocera di Farnace, Berenice, ha avuto in Delphine Galou un’interprete convincente. Infine, Loriana Castellano, Selinda, pur privata della deliziosa «Al vezzeggiar di un volto» dell’atto primo, si è immersa totalmente nella parte della principessa in catene col suo bel timbro chiaro e la dolce articolazione delle frasi. Sono invece le voci maschili il punto debole della produzione e fanno rimpiangere quelle delle altre due edizioni citate, sì anche di quella di Juan Sancho… Pompeo poco musicale e dal timbro nasale è quello di Emanuele d’Aguanno; Aquilio sfocato se non addirittura sfiatato nelle note centrali quello di Magnus Staveland.

Per essere onesti sulla confezione sarebbe stato bene indicare che la rappresentazione è in forma semi-scenica: i cantanti hanno abiti che non fanno riferimento né al ruolo né al sesso dei personaggi, cantano perlopiù davanti a un leggio mentre il coro è in buca in abito da sera e con lo spartito in mano. I carrelli con tubi fluorescenti e fari che accecano gli spettatori e le inutili proiezioni con molta generosità si possono definire una scenografia. Il tutto è dettato dalle note vicissitudine economiche dell’ente fiorentino, ma allora perché ingaggiare ben cinque diverse persone (eccole: Marco Gandini, Valerio Tiberi, Italo Grassi, Simona Morresi, Virginio Levrio) per questa non-messa-in-scena? (3).

Nonostante la verve di Sardelli l’orchestra del teatro fiorentino non può competere con degli specialisti della musica d’epoca come i Barocchisti di Fasolis o il Concerto Köln di Petrou e in più punti il colore orchestrale e l’intonazione degli strumenti risultano deboli o prevaricanti sulle voci. Esemplare la differenza di suono dell’ultima aria con quei gelidi trasalimenti tra l’orchestra dei Barocchisti (con un Cenčić superlativo) e questa del Comunale.

151 minuti di musica in due tracce audio. Nessun extra nella confezione.

(1) Ecco la distribuzione nelle tre edizioni citate:
direttore        Diego Fasolis        George Petrou       F. Maria Sardelli
Farnace         Max E. Cenčić        Max E. Cenčić       Mary-Ellen Nesi
Tamiri            Ruxandra Donose  Ruxandra Donose  Sonia Prina
Berenice        Mary-Ellen Nesi      Mary-Ellen Nesi     Delphine Galou
Selinda          Ann Hallenberg       Carol Garcia        Loriana Castellano
Gilade            Karina Gauvin        Vivica Genaux       Roberta Mameli
Pompeo         Daniel Behle         Juan Sancho         Eman. D’Aguanno
Aquilio           E. Gonzalez Toro  E. Gonzalez Toro   Magnus Staveland

(2) Nella versione di Venezia del 1727 la sequenza di arie è la seguente:
Atto primo
Ricordati che sei (Farnace)
Combattono quest’alma (Tamiri)
Dell’Eusino (coro)
Su campioni, su guerrieri (coro)
Nell’intimo del petto (Gilade)
Begl’occhi io penserò (Aquilio)
Al vezzeggiar d’un volto (Selinda)
Da quel ferro, ch’ha svenato (Berenice)
Se si nasconde (Pompeo)
Non trova mai riposo (Tamiri)
Atto secondo
Lascia di sospirar (Gilade e Aquilio)
Mi sento nel petto (Aquilio)
Langue misero quel valore (Berenice)
Arsa da rai cocenti (Gilade)
Perdona, o figlio amato (Farnace)
Dividere, o giusti dèi (Tamiri)
Spogli pur l’ingiusta Roma (Farnace)
Leon feroce, che avvinto freme (Pompeo)
Pensando allo sposo (Berenice)
Io sento nel petto (Aquilio e Selinda)
Atto terzo
Giuliva rimbomba (coro)
Sposa afflitta e madre offesa (Berenice)
Forse, o caro, in questi accenti (Tamiri)
Sorge l’irato nembo (Farnace)
Son vaghi gl’allori (Gilade)
Ti vantasti mio guerriero (Selinda)
Io crudel? Giusto rigore (insieme)
Furie dell’Erebo (Aquilio)
Coronata di gigli e di rose (coro)

(3) D’altronde anche per le Variazioni Goldberg di Bach eseguite al pianoforte da Ramin Bahrami alternate agli Esercizi di stile di Raymond Quenau letti da Filippo Timi al Regio di Torino due anni fa furono impiegate una regista (l’attore si doveva alzare dalla sedia e andare al leggio) e una costumista (Timi era in canottiera e mutande)…

  • Farnace, Petrou/Childs, Strasburgo, 24 maggio 2012
  • Farnace, Fasolis/Gayral, Venezia, 2 luglio 2021
  • Farnace, Sardelli/Bellussi, Piacenza, 10 aprile 2022

Le Roi Arthus

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Ernest Chausson, Le Roi Arthus

★★★☆☆

Parigi, Opéra Bastille, 2 giugno 2015

(live streaming)

Re Artù all’IKEA

Quattro anni dopo la morte del compositore e un anno dopo il Pelléas et Mélisande, alla Monnaie di Bruxelles venne rappresentata nel 1903 Le Roi Arthus di Ernest Chausson, in un allestimento in stile liberty con i costumi disegnati dal pittore simbolista belga Fernand Khnopff. Dopo il successo iniziale l’opera divenne però una rarità nei cartelloni lirici. Su libretto del compositore stesso, allievo di Massenet e di Franck, la vicenda appartiene come il Tristan alle leggende celtiche e al ciclo dei poemi arturiani del XII secolo. Il compositore ci aveva lavorato fin dal 1886, unico suo lavoro per le scene, che però non poté vedere realizzato poiché nel 1899 Chausson morì in un incidente in bicicletta.

Tre interpreti di grido e un regista “controverso” sono stati scritturati all’Opéra Bastille per riproporre quest’opera che praticamente debutta in Francia oltre un secolo dopo. I costumi di Khnopff sono diventati abiti da lavoro di boscaioli con Arthus e Merlin che indossano lo stesso cardigan a trecce. Nelle scene di Paul Brown gli interni liberty hanno lasciato il posto a un ambiente IKEA con tavolino basso, fotografia in cornicetta d’argento e libri finti sugli scaffali e Genièvre è portata in scena sopra un orrendo divano due posti in similpelle (che per fortuna andrà a fuoco alla fine) mentre canta all’amato Lancelot le alate parole:

«Messier Lancelot, le glaive n’est plus roi / quand le chant des harpes s’éveille. / Recevez de mes mains cette coupe vermeille […] Et ne dédaignez pas les paroles ailées des Bardes / chantant vos combats. / Leurs hymnes légers comme les nuages / Mènent à l’immortalité / Et votre nom au plus lointain des âges / Ne survivra que si les Bardes l’ont chanté!».

Il fatto è che la «coupe vermeille» è un bicchiere in plastica rossa! Lo scarto tra quello che si ascolta e quello che si vede è enorme e non aiuta ad apprezzare questo tentativo del compositore francese di rinnovare l’opera dopo Wagner – «il faut nous déwagnériser» era il suo mantra mentre ammetteva che «il y a surtout cet affreux Wagner qui me bouche toutes les voies» – tentativo che riuscirà invece al suo amico Debussy, col Pelléas appunto.

L’amore impossibile in Pelléas lo ritroviamo anche qui tra Lancelot e Genièvre, così come l’ossessione tutta decadente per i capelli – la donna qui si uccide strangolandosi con le sue trecce. Ma nella lettura di Graham Vick i funesti amori si sono irrimediabilmente imborghesiti: Genièvre e Lancelot sono dei Tristano e Isotta in tinello che nei momenti d’estasi si rotolano sull’aiuola del cortile. Che il regista abbia poi completamente ignorato l’aspetto simbolico e decadente, che è consustanziale all’opera di Chausson, non ha reso un buon servizio alla comprensione e al godimento delle 3h 40min di questo raro lavoro e quasi si rimpiange l’esecuzione in forma concertistica con cui Le Roi Arthus è stato eseguito fino a ieri assieme all’altro suo Poème de l’amour et de la mer per canto e orchestra op. 19, quello sì presente nei cartelloni sinfonici.

Philippe Jordan, figlio di quell’Armin Jordan che incise per la prima volta l’opera su disco nel 1986, fa una lettura più impressionista che wagneriana della partitura mettendone magistralmente in luce le preziosità orchestrali soprattutto negli ampi interludi sinfonici, la parte migliore dello spettacolo…

Sophie Koch, Genièvre, Thomas Hampson, Arthus e Roberto Alagna, Lancelot partono tutti e tre con fatica all’inizio, ma poi nel corso dell’opera diventano più convincenti nei loro estenuanti ruoli. La Koch rivela molto bene con la sua vocalità intensa, ma senza eccessi, la complessità del suo personaggio. Thomas Hanson non è di lingua madre francese, ma riesce magnificamente a incidere nella parola la figura, anch’essa dalle molte sfaccettature, del re. Alagna, a suo agio nella lingua, sfoggia il bel timbro della voce e la facilità degli acuti.

Ottimo anche il resto del cast tra cui ricordiamo il Mordred di Alexandre Duhamel, il fedele scudiero Lyonnel di Stanislas de Barbeyrac e il breve ma intenso ruolo di Allan, François Lis.

Die lustigen Weiber von Windsor (Le allegre comari di Windsor)

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Otto Nicolai, Die lustigen Weiber von Windsor

★★★☆☆

Liegi, Théâtre Royal,5 febbraio 2015

(live streaming)

Falstaff quasi senza Falstaff

Fin dall’ouverture si sente il debito nei confronti di Mendelssohn di questo compositore che viene in Italia per imparare a scrivere un’opera tedesca. La citazione poi dall’Oberon del coro delle fate rimanda invece a Weber mentre altrove si sentono i toni del romanticismo tedesco. Ciononostante Nicolai si rivela un musicista originale in questa sua opera comico-fantastica, tratta da Shakespeare 44 anni prima del Falstaff verdiano, ma che a modo suo spiana la strada da una parte al teatro di Richard Strauss e dall’altra all’operetta di Offenbach.

In coproduzione con Losanna, l’Opéra Royal de Wallonie-Liège mette in scena questo lavoro negletto al di fuori della Germania. L’allestimento di David Hermann trasforma la vicenda in una sit-com televisiva attualizzando le figure: le due donne si scambiano le lettere di Falstaff in un bar, ci sono automobili, telefonini. Il regista farcisce la vicenda di trovate divertenti e introduce un nuovo personaggio, lo psicoterapeuta delle coppie in crisi, che ha le macchie di Rorschach come tappezzeria nello studio e che parla francese in quest’unica opera scritta in tedesco da Nicolai. I suoi dialoghi sostituiscono quelli originali del libretto di Hermann von Mosenthal.

L’attualizzazione della vicenda – d’altronde anche Nicolai aveva attualizzato al suo tempo (l’opera debutta nel 1849 a pochi mesi dalla sua scomparsa) la storia cinquecentesca della corte dei re Enrico IV ed Enrico V – teatralmente funziona, ma si perdono ovviamente allusioni e ambiguità nella trasposizione alla nostra epoca così poco innocente: l’incontro di Frau Fluth con Falstaff è esplicitamente consumato nel letto del marito geloso e la moglie più che del molesto ciccione sembra volersi vendicare così del marito. Il regista non risolve la scena clou in cui Falstaff si nasconde nella cesta del bucato prima di essere gettato nel Tamigi. Qui semplicemente sparisce come per magia mentre le domestiche portano via un vaso cinese in cui sono state nascoste le mutande dell’uomo. Un bell’esempio di sineddoche, però…

La successiva scena dell’osteria, in cui Falstaff si lamenta del bagno nell’acqua gelida del fiume, non solo è ambientata in una specie di manicomio, ma è l’allucinato Herr Fluth che ha chiesto aiuto allo psicoterapeuta dopo la scenata della moglie. Fino a questo momento Falstaff non si è ancora mostrato: l’abbiamo intravisto dietro le cortine del letto e anche ora nel duetto con Fluth rimane celato dietro un velo, come il fantasma che infesta la mente del marito geloso. Falstaff si presenta poi finalmente, ma travestito da donna prima e infine come fauno per la scena finale. D’altronde non è lui il personaggio principale qui, sono le due donne e i loro maneggi.

La direzione di Christian Zacharias (pianista prestato al podio) manca spesso di leggerezza, mentre in scena gli interpreti si danno un gran da fare per vivacizzare la vicenda: gli ottimi Anneke Luyten e Werner Van Mechelen sono i coniugi Fluth, Franz Hawlata il fantasmatico Sir John Falstaff, Sophie Junker e Davide Giusti i giovani contrastati amanti Anna e Fenton.

The Servant

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Marco Tutino, The Servant

★★★★☆

Lugo (Ravenna), Teatro Rossini, 5 maggio 2011

(registrazione video)

Padroni e servi dal cinema alla scena lirica

Portato sugli schermi cinematografici nel 1963 da Joseph Losey con la sceneggiatura di Harold Pinter e la mitica interpretazione di Dirk Bogarde, la storia di The Servant è quella dell’inaspettata inversione dei rapporti di potere tra padrone e servo nell’Inghilterra del secondo dopoguerra ancora dominata dalla rigida suddivisione in classi sociali. Il racconto del 1948 di Robin Maugham, nipote del più famoso Robert Somerset Maugham, narra della vera storia di un ancor giovane ufficiale in pensione la cui vita viene sconvolta dal maggiordomo.

Il nobile Tony viene a Londra affidando le cure della casa al domestico Hugo Barrett, che sembra fidato ed efficiente, ma non piace alla ragazza di Tony, Susan, che gli chiede di mandarlo via. Quando Barrett porta Vera, che presenta come sua nipote, a lavorare nella casa, Tony ha una breve relazione con la nuova ragazza. Dopo un viaggio di alcuni giorni, tornando a casa Tony scopre Barrett e Vera nella sua stessa stanza da letto. Sono immediatamente licenziati e anche Susan lo lascia. Tony incontra in seguito Barrett in un pub e lo riassume, ma è il domestico ora a imporre le sue condizioni e i ruoli di servo e padrone vengono ribaltati.

Dodicesima delle sue opere liriche, The Servant di Marco Tutino è del 2008. Atto unico di un’ora e mezza con sole quattro voci e uno smilzo organico strumentale (quintetto d’archi, pianoforte e percussioni) dopo diversi allestimenti a Macerata, nella Repubblica Ceca e in Ungheria è stato recuperato dal Lugo Opera Festival al teatro Rossini il 5 maggio 2011 con la direzione di Francesco Cilluffo, la regia di Rosetta Cucchi e le scene di Tiziano Santi.

Nella versione di Tutino Vera e Susan diventano Mabel e Sally e la latente attrazione omosessuale tra i due uomini viene esplicitamente espressa.

«Anime perse in un interno. […] Più che una storia è un intreccio di psicologie e di relazioni. […] L’ambiente è spiccatamente claustrofobico, una pedana è lo spazio circoscritto in cui si muovono i personaggi, le pareti sono cupe, un grande specchio centrale riflette e lascia trasparire chi sta dietro, le porte sono orbite scavate nel buio, un letto di candida seta e bianchi cuscini si colorerà di nero di pari passo con la dissoluzione della personalità interiore del padrone fino al quadro più angoscioso, in cui lo spettatore assiste all’auto-imprigionamento dei protagonisti, chiusi dentro lacci che essi stessi hanno fissato segnando il perimetro del loro destino. […] La sessualità è uno degli strumenti più efficaci di sudditanza psicologica, come dimostra ampiamente quest’opera, con visioni al limite del disturbante. L’effetto-deriva è lampante e l’icona finale con una solitaria e perdente Sally da un lato e dall’altro lato il terzetto dominato dall’incombenza di Barrett non lascia nessuna speranza. Il destino che la musica annuncia fin dalle prime battute si è compiuto. […] Della scrittura musicale colpisce l’ossessività del ritmo e del suono, la drammatizzazione strumentale espressa dall’ensemble limitato a soli sette strumenti sui quali spiccano la profondità del contrabbasso e il lamento degli archi, mantenendo un sottofondo pervasivo continuo che è come il motivo conduttore di un film. […] Sul podio c’è il giovane direttore e compositore torinese Francesco Cilluffo, autore della fortunata opera Il caso Mortara che ha avuto un grande successo a New York lo scorso anno. […] Grazie all’intuizione creativa della regista pesarese, che trova in questo allestimento un’ulteriore conferma, il Lugo Opera Festival sorprende anche quest’anno un pubblico sempre più avviato su strade percettive innovative nel teatro lirico moderno.» (controappuntoblog.org)

Se non fosse per questa ripresa amatoriale disponibile su youtube non ci sarebbero documenti audio o video dell’avvenimento disponibili.

HESSISCHE STAATSTHEATER

HESSISCHES STAATSTHEATER WIESBADEN COPYRIGHT: Martin Kaufhold, Yorckstr. 15 65195 Wiesbaden, 0171 / 4158942 SPARKA BOCHUM  BLZ 430 500 01 KTO 11 35 61 450

Hessische Staatstheater

Wiesbaden (1894)

1040 posti

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La costruzione del teatro fu voluta dall’Imperatore Guglielmo I, visitatore abituale della spa di Wiesbaden. Il concorso bandito per la costruzione fu vinto dai viennesi Ferdinand Fellner e Hermann Helmer. Fu edificato tra il 1892 e il 1894 in stile neo-barocco come gli analoghi teatri di Praga e di Zurigo. L’inaugurazione avvenne alla presenza dell’imperatore il 16 ottobre 1894, ma il foyer fu terminato nel 1902 dall’architetto Felix Genzmer. L’edificio comprende tre diverse sale: la sala grande di 1040 posti, la sala piccola di 328 e lo studio di 89.

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Dopo la Seconda Guerra Mondiale il teatro fu battezzato Preußisches Staatstheater” (Teatro Stale della Prussia). Nel 1932 fu rinominato Nassauisches Landestheater” (Teatro della provincia di Nassau). Gravemente danneggiato dai bombardamenti del 1945, la facciata dovette essere rifatta in uno stile semplificato e la volta dell sala decorata da una pittura contemporanea. Nel dopoguerra il teatro prese la sua denominazione attuale. Ulteriori restauri nel periodo 1975-78 hanno permesso di recuperare il modello originale.

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Il barbiere di Siviglia

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★★☆☆☆

L’altro Barbiere

Chi avrebbe mai pensato all’epoca che l’opera di Paisiello Il barbiere di Siviglia ovvero La precauzione inutile sarebbe stata completamente oscurata dal successo di un altro Barbiere di Siviglia ossia L’inutil precauzione di pochi anni dopo. È come se negli anni ’60 dell’Ottocento La traviata di Verdi fosse eclissata da un’altra Traviata, o la Bohème di Puccini da un’altra Bohème… (oops, ma al povero Leoncavallo non riuscì il colpo).

La prima rappresentazione, il 15 settembre 1782 al Teatro dell’Ermitage presso la corte imperiale di Caterina II con un cast stellare per l’epoca, fu l’inizio di un travolgente trionfo per tutta Europa. Il libretto, erroneamente attribuito a Giuseppe Petrosellini, è molto probabilmente di un traduttore anonimo francofono (sono molti i francesismi usati nel testo: orfelina, turbigliona, clacar…) e riprende linearmente la commedia di Beaumarchais rappresentata appena sette anni prima a Parigi e poi nel 1780 con grande successo anche nella stessa Pietroburgo. A Vienna l’opera di Paisiello veniva data in due lingue diverse in cinque teatri contemporaneamente. Altrove veniva tradotta, parodiata, modificata e ridotta, portando alle stelle la già grande popolarità del compositore prima dell’oscuramento del suo lavoro da parte del giovane pesarese.

«Da un paio di decenni è in corso una operosa riconsiderazione storica della produzione paisielliana, ma non si può dire che a ciò abbia corrisposto una pari continuità nel recupero teatrale. Se ciò trova una sua spiegazione nella reticenza che le istituzioni teatrali e le case discografiche hanno nei confronti del repertorio settecentesco cosiddetto minore, e nel caso dell’opera seria in oggettive difficoltà esecutive, non v’è dubbio che l’aderenza del compositore tarantino al ‘gusto corrente’ della sua epoca, che lui medesimo in più di un caso concorse a formare e da cui trasse onori e glorie, continui a gravare come una spada di Damocle sulla sua produzione, che si ritiene riassorbita in più geniali creazioni di altri. Soave melodista, ma sprovvisto della monumentalità neoclassica di Hasse, dell’estro di Jommelli, della versatilità di Traetta e del vivido senso drammatico di Cimarosa, non gli fa buon gioco neppure la collocazione storica, alla vigilia del grande operismo rossiniano serio e buffo, che indusse e induce a tutt’oggi un effetto di cancellazione per il repertorio immediatamente precedente, quando una migliore conoscenza di Cimarosa e Paisiello andrebbe anche a vantaggio di una riconsiderazione complessiva di Rossini medesimo.» (Andrea Chegai)

Di fronte alle oltre due dozzine di DVD disponibili del Barbiere di Rossini, le due modeste registrazioni video di questo di Paisiello confermano la damnatio memoriae inflitta dalla storia al suo lavoro. Qui nel 2005 siamo al cinema-teatro Orfeo di Taranto, città natale del compositore. Della compagnia di canto soltanto il conte di Mirko Guadagnini e il Don Basilio di Paolo Bordogna sono degni di nota, non essendo memorabile neanche la direzione di Giovanni Di Stefano dell’orchestra da camera del Giovanni Paisiello Festival.

Rispetto alla versione di Rossini, quella di Paisiello mette maggiormente in luce le vicende amorose e un po’ meno gli aspetti comici. Qui ci pensa la regia di Rosetta Cucchi ad aggiungere un po’ di pepe con una Rosina al guinzaglio e una papera in scena, senza ambizioni di attualizzazione o di approfondimento della vicenda.

Immagine in 4:3, distratta ripresa video e due tracce audio, nessun extra e sottotitoli in italiano e inglese.

TEATRO ROSSINI

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Teatro Rossini

Lugo di Romagna (1759)

448 posti

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Per il Settecento sono documentati numerosi eventi teatrali in musica a Lugo, tanto che verso la metà del secolo si sentì l’esigenza di realizzare un teatro stabile in muratura. Non a caso, il luogo venne scelto ai margini dello spazio commerciale e si affacciava sul prato della Fiera. Nel biennio 1758-1760 vennero costruite le parti principali, su progetto di Ambrogio Petrocchi, mentre, a partire dal 1760, i lavori interni, quali la sistemazione del palcoscenico, della platea e dei palchi furono completati da Antonio Galli Bibiena.

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L’inaugurazione ufficiale avvenne nell’agosto-settembre del 1759 con l’opera Il Mercato di Malmantile di D. Fischietti, dopo l’innalzamento delle sole opere murarie esterne. Successivamente, il teatro ultimato venne inaugurato durante la Fiera del 1761, con Catone in Utica, dramma musicale su libretto del Metastasio. La vita artistica del teatro di Lugo è legata a Rossini (che visse a Lugo dal 1802 al 1804) e alla sua produzione operistica dal 1814 al 1840, anche se si alternavano sulla scena altri grandi nomi dell’epoca, come Mercadante, Bellini e Donizetti, che monopolizzarono le stagioni teatrali per circa un decennio, fino all’apparire delle prime opere di Verdi.storia5

Il teatro, intitolato a Gioachino Rossini nel 1859, si propone ancora nella sua veste settecentesca, con l’austera facciata ripartita da lesene e marcapiani. All’interno, la sala è scandita da quattro ordini di palchi cui si aggiunge il loggione. Palcoscenico e cavea occupano uno spazio equivalente. Il recente restauro ha riportato alla luce alcune splendide decorazioni a stucco settecentesche e ha fatto riaffiorare interessanti affreschi all’interno dei primi tre ordini di palchi, da far risalire all’intervento di Leandro Marconi dal 1819, il quale modificò la curve dei palchi, strutturando diversamente il boccascena e aggiungendo il loggione. Gli affreschi sono decorazioni floreali e grottesche dai colori brillanti comprese dentro specchiature geometriche delineate su un fondo di colore grigio-azzurro. Nelle sue linee complessive, il teatro di Lugo si pone come uno dei più interessanti teatri all’italiana dell’Emilia Romagna, e presenta notevoli punti di tangenza, nella progettazione, con il Comunale di Bologna, opera anch’esso del Bibiena.

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Il gallo d’oro

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★★★☆☆

La favola ultima di Rimskij-Korsakov

«Insieme alla stesura delle memorie, Rimskij fece ancora in tempo a scrivere il suo testamento operistico, composto soprattutto nel biennio 1906-07 a un anno dalla morte. I tempi erano molto cambiati nella Pietroburgo di quegli anni, soprattutto dopo la sconfitta subita dalla Russia da parte del Giappone e dopo la rivoluzione del 1905, repressa dal potere nel sangue. Sono tempi difficili per Rimskij, sospettato dalla polizia zarista di collaborazionismo rivoluzionario. Puškin aveva scritto in versi una Storia del galletto d’oro (1) nel 1834, per criticare l’indolenza degli zar di allora, ma la parodia è efficace anche nel 1906. La fiaba del tirannico zar Dodon, che pretende di regnare dormendo, diviene molto allusiva: il paese era appena andato incontro alla distruzione della flotta e dell’esercito durante la guerra russo-giapponese. La rappresentazione dell’opera sollevò un clamoroso caso di censura: gli addetti volevano far tagliare numerose parti, ma l’autore si oppose e fece preparare una produzione francese per far eseguire l’opera a Parigi. Non tutto venne appianato e Il gallo d’oro divenne, prima ancora di essere eseguita, un simbolo della rivolta antizarista. Rimskij, innervositosi per le incertezze e l’atmosfera minacciosa, fu colpito da un attacco di angina pectoris, del quale morì senza veder rappresentata la sua ultima fatica operistica: un’inquietante fiaba malefica.» (Franco Pulcini)

Su libretto di Vladimir Ivanovič Bel’skij (lo stesso de La leggenda della città invisibile di Kitež), l’opera andò in scena il 7 ottobre 1909 al teatro Solodovnikov e il 6 novembre al Bol’šoj.

Prologo. Un astrologo annuncia al pubblico che sta per essere rappresentata una favola di fantasia, ma con una sua morale valida e attuale.
Atto I. Lo zar Dodon non riesce a dormire per i problemi che affliggono il suo regno. I figli e i consiglieri non sanno che dare suggerimenti insensati, finché l’astrologo si presenta con un gallo d’oro che segnala i pericoli. Lo zar potrà finalmente dormire tranquillo e riconoscente promette all’astrologo tutto quello che desidererà. Ben presto il sonno dell zar è interrotto dal chiccirichì del pennuto. Ad affrontare i nemici lo zar stesso si mette a capo dell’esercito.
Atto II. Tra le sventure della guerra lo zar scopre la morte dei suoi figli che si sono dati la morte a vicenda. Da una tenda appare la bellissima regina di Šemacha che seduce facilmente Dodon.
Atto III. La processione dell’ingresso dello zar e della promessa sposa è interrotta dall’astrologo che chiede come ricompensa la donna stessa. Lo zar rifiuta e lo colpisce. Il gallo d’oro fedele al suo padrone becca lo zar alla gola. Il cielo si oscura e il gallo e la regina scompaiono.
Epilogo. L’astrologo risuscitato torna in scena ricordando al pubblico che quello cui hanno assistito è solo illusione.

«Il gallo d’oro è dunque una satira politica del regime autocratico, svolta con sottile demonismo burlesco: il feticcio iettatorio e vendicativo del galletto crea infatti un clima infido, molto distante dal mondo dei balocchi infantili tipico dello Zar Saltan, precedente fiaba puškiniana. La ferocia della satira è resa acuminata dalla musica sottoposta a questa rissosa schermaglia fra marionette crudeli. In piena polemica antisentimentale, questi personaggi stilizzati cantano con forte tecnicismo strumentale: la freddezza del canto si coglie in quella bambola meccanica che è la regina di Šemacha, il cui orientalismo astratto esprime mirabilmente gli aspetti seducenti della malvagità femminile. Il libretto, di asciutto rigore ritmico, viene sorretto da uno stile musicale altrettanto pungente; l’orchestra è capace di durezze ben poco fiabesche, che già annunciano l’avvento dei grandi allievi di Rimskij destinati a maggior gloria: Stravinskij e Prokof’ev. Il gallo d’oro è pertanto opera di transizione fra il vecchio e il nuovo, nonché punto di arrivo in termini di modernità per un autore che si dimostra conservatore a parole e innovatore nella pratica.» (Franco Pulcini)

Nel 2002 molto tempo è passato dal debutto a Mosca e allo Châtelet di Parigi l’opera viene messa in scena da un giapponese, Ennosuke Ichikawa III, attore di teatro kabuki. E di origini giapponesi è pure il maestro concertatore, Kent Nagano. Questa produzione è stata creata nel 1984, a settant’anni dalla prima parigina dei Ballets Russes dove, con le scene di Alexandre Benois, l’azione era mimata da dei ballerini mentre i cantanti stavano fermi ai lati della scena.

Qui invece con i ricchissimi costumi di Tomio Mohri e la nuda scenografia di Setsu Asakura, la lettura atemporale e straniante voluta dal regista giapponese è pienamente convincente essendo la storia dell’inettitudine dei potenti sempre attuale: Puškin pensava agli zar del suo tempo (1834), Rimskij a Nicola II e alla sua pessima gestione del conflitto russo-giapponese, ma esempi di altre epoche e paesi non mancherebbero.

L’atmosfera da film di Kurosawa non stona con la musica così piena di echi orientaleggianti sia in orchestra sia nelle voci. L’impervio ruolo della regina di Šemacha richiede una tessitura tesa e molto alta, piena di melismi e vocalizzi. Olga Trifonova ha una bella voce, ma sforza negli acuti ed evita il mi del finale d’atto secondo. Cosa che non fa invece l’astrologo di Barry Banks: tutte le note sono rispettate e quelle più alte sono prese con sicurezza da questo eccellente cantante che dimostra potenza e facilità negli acuti. Molto bravi anche gli altri interpreti, compreso il gallo del titolo affidato a Yuri Maria Saenz. Kent Nagano alla guida dell’Orchestre de Paris mette magistralmente in luce i colori talora lividi della sontuosa partitura.

Nessun extra nei DVD, ma sottotitoli in italiano.

(1) Il titolo originale infatti, Золотой петушок (Zolotoj petušok), si riferisce a un galletto (петушок) non a un gallo (петух).

Zaide

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★★☆☆☆

I nuovi schiavi

Come diceva il compianto Paolo Terni, la storia dell’opera in musica non è fatta soltanto dei Don Giovanni-Barbiere-Traviata-Bohème che i teatri ci propinano incessantemente, ma anche delle opere cosiddette minori, che sono poi l’humus da cui sono nati i capolavori che apprezziamo proprio perché si staccano da quel terreno che è quindi essenziale conoscere. L’opera Zaide, catalogo Köchel 344, non è un capolavoro, ma è un’opera minore… di Mozart, quindi merita tutta la nostra attenzione.

Capolavoro certamente è la prima aria intonata da Zaide, «Ruhe sanft, mein holdes Leben | schlafe, bis dein Glück erwacht» (Riposa in pace, tesoro adorato | dormi fino a che non ti sveglia la fortuna), non solo una delle più belle arie di Mozart, ma di tutto il Settecento. Chi avesse dei dubbi al proposito ascolti la versione di Lucia Popp!

Nel 1779, a 23 anni e non ancora definitivamente affrancato dal giogo del vescovo Colloredo, il compositore investe le sue energie per un progetto teatrale destinato alla compagnia dell’amico Johan Heinrich Böhm, compagnia specializzata in Singspiel e opere tradotte in lingua tedesca. Fornito da un altro amico di Mozart, il trombettista dell’orchestra di corte di Salisburgo Andreas Schachtner, è il libretto tratto da Das Serail di F. J. Sebastiani, rappresentato l’anno prima che riprendeva l’ambientazione turca allora di moda grazie alla musica più popolare e agli scritti di Voltaire e Montesquieu.

L’impegno per l’Idomeneo, commissionato per il carnevale di Monaco del 1780, e la morte di Maria Teresa con conseguente chiusura dei teatri per lutto, gli impedirono di terminare l’opera, che rimase quindi incompiuta. Il successivo Ratto dal serraglio, di argomento simile, distolse definitivamente l’interesse del compositore da questo lavoro. Alla sua morte il manoscritto autografo con quindici numeri musicali e senza titolo venne tra le mani della moglie Constanze che si affrettò a venderlo all’editore André. Fu lo stesso editore a scegliere il titolo dal nome della protagonista e a completare il finale.

Atto primo. Gomatz, schiavo cristiano, e Zaide, la preferita del sultano Soliman, si innamorano e progettano di fuggire insieme; il sorvegliante Allazim decide di aiutarli e di scappare con loro.
Atto secondo. Il sultano dà sfogo al suo furore: la bella Zaide, da lui invano corteggiata, gli ha preferito uno schiavo cristiano. Zaram, capo delle guardie, cattura i fuggitivi e li conduce davanti al sultano ancora in collera; Zaide lo supplica perché risparmi almeno Gomatz.

L’autografo mozartiano si interrompe a questo punto e, in mancanza del libretto originale, restano aperti alcuni interrogativi riguardo il numero di atti previsti (due o tre) e la conclusione della vicenda (lieto fine con il perdono del sultano o condanna degli amanti).

La prima esecuzione di Zaide si ebbe nel 1866. Mancando l’ouverture è invalsa l’abitudine di utilizzare la “sinfonia teatrale” K318 in Sol, mentre la mancanza del finale e dei dialoghi parlati ha condotto a varie versioni, tra cui quella di Luciano Berio del 1981.

Nel 2008 il festival di Aix-en-Provence Festival si apre con il controverso allestimento che due anni prima Peter Sellars aveva portato sulle scene della Avery Fischer Hall al Lincoln Center. Nella lettura del regista americano l’opera diventa un manifesto contro la schiavitù, quella moderna dei lavoratori sfruttati nei sweatshop di tutto il mondo.

In scena una struttura di metallo a più piani con i loculi dei lavoratori. Qui all’Archevêché la scenografia di George Tsypin ha perso un piano rispetto a New York, ma i cantanti comunque devono sempre affannosamente salire e scendere per quelle ripide scalette.

classicalreview060821_560La scenografia di New York…

Festival d'Art Lyrique d'Aix en Provence 2008

… e quella di Aix-en-Provence

Il direttore Louis Langrée per l’ouverture ha optato per brani dal Thamos, re d’Egitto K345, le musiche di scena per il dramma di Tobias Philipp von Gebler. La sua direzione cerca di dare continuità ai pezzi sconnessi del lavoro, ma non sempre l’intonazione dell’orchestra è impeccabile.

Le arie settecentesche con le loro forme chiuse, ripetizioni, da capo e variazioni non sono l’ideale per la moderna drammaturgia scelta da Sellars e anche se si condivide certamente il messaggio, questa volta il risultato non è molto convincente. I giovani cantanti sono volenterosi e si apprezza la loro fatica, se non la vocalità.

Mancano sottotitoli in italiano ed extra.

  • Zaide, Gatti/Vick, Roma, 22 ottobre 2020

Il castello del duca Barbablù

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Béla Bartók, A Kékszakállú herceg vára (Il castello del duca Barbablù)

direzione musicale di György Selmeczi

regia di Sándor Silló

Budapest, 2005

Il castello del duca Barbablù (1) è l’unica opera per il teatro di Béla Bartók. Composta nel 1911, non fu però rappresentata se non nel 1918 dopo aver subito alcune modifiche e l’aggiunta di un nuovo finale. Che la vicenda, tratta dalla fiaba di Perrault che è alle origini anche dell’opera di Dukas Ariane et Barbe-bleu di quattro anni prima, abbia risvolti psicanalitici è evidente, se non altro per la contemporaneità di quanto avveniva a Vienna nello studio di un certo dottor Freud. La fiaba di Perrault è stata oggetto di una lettura psicoanalitica di Bettelheim che ha indubbiamente influenzato le messe in scene moderne dell’opera di Bartók.

Un prologo declamato da un bardo introduce la materia dell’azione in chiave simbolica; poi il sipario si leva su una grande sala nel castello del duca Barbablù. Questi entra in scena insieme a Judith e inizia a dialogare con lei nell’oscurità quasi totale, ricordandole l’ostilità di madre, padre e fratello per aver deciso di abbandonare la casa natale. Judith non ha avuto esitazioni nel lasciare tutto quello che le era caro per seguirlo, ma le gelide tenebre del castello, privo di finestre, e l’acqua che traspira dalle mura, quasi lacrimassero, la sgomentano. Altrettanto misteriose e sinistre le paiono le sette porte chiuse che danno sulla sala principale: vorrebbe aprirle per vedere le stanze da esse celate alla sua vista, e portare luce e calore ovunque. Barbablù tenta di dissuaderla, ma Judith insiste sinché ottiene la chiave della prima porta, la camera della tortura, dove il sangue cola dalle pareti. Il marito le chiede di non andare oltre, ma la donna riesce a farsi dare la chiave della stanza successiva, una sala d’armi. Anche sui lugubri ferri Judith intravede delle chiazze di sangue, e a nulla vale la viva resistenza di Barbablù, che è costretto a porgerle la terza chiave. Si spalanca la sala del tesoro, ricca di sfavillanti gioie, ma anche sugli splendidi monili vi sono tracce di sangue, che macchia anche i fiori e le magnifiche piante del giardino del duca, celati dietro la quarta porta. Dietro la successiva si rivela il vasto reame del protagonista, una prospettiva abbacinante, ma ancora una volta Judith vede nubi rossastre che sovrastano il magnifico paesaggio. Un lungo gemito si ode quando la sesta porta viene aperta, e invano Barbablù tenta con sempre maggiore determinazione di impedire che la moglie entri: appare un lago bianco dalla superficie appena increspata dalla brezza. Esso è alimentato dalle sue lacrime, spiega il duca. Resta da svelare l’ultimo mistero. Barbablù è sempre più fermo nel rifiuto, e cede molto a malincuore solo quando Judith dichiara di sapere quel che vedrà: armi, tesoro, giardino, luci filtrate dal sangue preludono al ritrovamento dei corpi senza vita delle precedenti mogli, come vogliono le dicerie carpite nel villaggio. Di fronte a quest’accusa Barbablù consegna la settima chiave, ed è grande lo stupore della donna quando, in luogo di cadaveri, vede sfilare avanti a sé tre donne riccamente addobbate. Sono le mogli del mattino, del mezzogiorno e della sera, spiega l’uomo, e Judith, che egli ha incontrato di notte, sarà la donna della notte. Inutilmente ella chiede pietà, il suo destino è segnato. Barbablù la ricopre di gioielli meravigliosi e la avvolge in un manto stellato; quindi Judith segue le tre compagne sinché la porta non si chiude alle sue spalle. Il duca s’allontana, mentre le tenebre tornano a invadere il suo castello.

A fronte di innumerevoli registrazioni audio esiste un solo video disponibile, quello della London Philharmonic Orchestra diretta da George Solti nel 1979 con Kolos Kováts e Sylvia Sass. Questo invece è un film del 2005 con il basso-baritono István Kovács e il soprano Klára Kolonits. Il direttore d’orchestra è György Selmeczi. Poco si sa di questo film trovato su youtube in lingua originale e senza sottotitoli.

Il bianco e nero molto contrastati da film espressionista rendono molto bene la tensione dell’opera. Il regista ambienta la storia in un vecchio cinematografo, ma bisogna dire che il taglio cinematografico è già presente nel libretto di Béla Balázs, poeta e cineasta egli stesso, quando nelle didascalie descrive: «Barbablù è al fondo della scala. […] Il raggio di luce della porta li illumina direttamente. […] La sua silhouette si staglia nel raggio di luce. […] E ora si apre la settima porta e un lungo raggio affusolato di argentea luce lunare esce dall’apertura e bagna i visi». Quest’opera di Bartók sembra l’antesignana di tutte le musiche da thriller del cinema sonoro che si sarebbe sviluppato di lì a poco.

Una voce fuori campo legge all’inizio i versi del prologo quasi sempre omessi nelle esecuzioni a teatro.

(1) Il titolo è spesso tradotto come Il castello del principe Barbablù. In ungherese si ha lo stesso termine sia per duca che per principe (herceg), ma si è preferito utilizzare il termine duca per mantenere la stessa differenza che esiste in tedesco tra Herzog (duca) e Fürst (principe).