Zaide

foto © Yasuko Kageyama

Wolfgang Amadeus Mozart, Zaide

★★★★☆

Roma, Teatro dell’Opera, 22 ottobre 2020

bandiera francese.jpg Ici la version française

La turcheria incompiuta di Mozart e le molte ipotesi di Italo Calvino

L’opera di Mozart più problematica da mettere in scena inaugura la stagione lirica romana. Rimasta incompiuta, fu messa da parte dall’autore e solo nel 1799, otto anni dopo la sua morte, la moglie Constanze ne trovò le pagine e le offrì a un editore. Ma queste furono pubblicate nel 1838 e si dovette aspettare il 1866 per ascoltarle in un adattamento che includeva un’ouverture e un finale composti da Johann Anton André, colui che aveva curato la pubblicazione dei frammenti. Ma che cosa era successo?

Nel 1779 durante la ripresa del suo Thamos, König in Ägypten Mozart aveva deciso di mettere in musica per i Böhm, una compagnia teatrale destinata all’esecuzione di opere in tedesco, un libretto propostogli dall’amico Johann Andreas Schachtner, lo stesso che aveva collaborato al Bastien und Batienne dieci anni prima. Il soggetto, l’ambiente turco e il titolo Das Serail (Il serraglio) anticipano il futuro Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio).

La contemporanea commissione dell’Idomeneo da parte del principe elettore di Monaco rallentò molto la scrittura di Zaide, come venne poi conosciuta essendo questo il titolo scelto dall’André. La morte dell’arciduchessa Maria Teresa e la conseguente chiusura per lutto dei teatri austriaci bloccarono definitivamente il progetto di cui rimangono quindici numeri musicali di cui non siamo sicuri quale sia l’effettivo ordine, mancano l’ouverture, il finale e i testi recitati. Non è chiara quindi la vicenda, né si sa sa quanti atti dovrebbero essere – tre secondo la consuetudine per un Singspiel, o due? – quindi neppure quanti numeri siano mancanti o che potrebbero essere confluiti nel Ratto.

Nelle produzioni moderne il problema di dare un senso compiuto ai frammenti manoscritti della Staatsbibliotek Preussicher Kulturbesitz di Berlino è stato variamente risolto. Qui a Roma si riprende il testo che Italo Calvino (1) aveva scritto per la produzione del festival di Batignano del 1981 (2). Lo scrittore non vuole creare l’illusione di un’opera compiuta, ma cerca di «mettere in valore quello stato d’animo di sospensione che ogni opera incompiuta comunica»: nella sua “ricostruzione” i personaggi dicono o cantano solo le parole accompagnate dalla musica, mentre un attore recitante avanza ipotesi su come collegare i vari numeri ed esprime possibili ipotesi narrative che i personaggi in scena mimano a loro volta.

Come si vede siamo nel mondo de Il castello dei destini incrociati, una struttura combinatoria per raccontare storie diverse con gli stessi elementi diversamente composti, là affidata alle carte dei tarocchi, qui ai pezzi originali di Mozart. La morale di Calvino è che i numeri musicali lasciati da Mozart sono come gioielli incastonati in un mosaico che è stato distrutto ma sono riutilizzati nella cupola di una moschea che viene a sua volta distrutta, ma le gemme no e serviranno ancora una volta ad abbellire «altri mosaici, lungo le scale di un bazar, nel cortile di un caravanserraglio, nella reggia di un califfo, in una fortezza sul deserto, in cima alla cuspide di un minareto, nel fondo di una vasca dove le odalische fanno il bagno…».

Il tutto rimarrebbe un divertimento puramente letterario se in scena non entrasse in gioco il senso teatrale di Graham Vick che fa di questo espediente la chiave del suo intelligente e divertente spettacolo grazie anche alla scenografia di Italo Grassi che trasforma il palcoscenico del Costanzi in un cantiere edile (qui si costruisce un’opera!) con ironici riferimenti alla storia narrata e all’ambiente orientale. Così le reti di plastica diventano le persiane traforate dell’harem, il tubo per calare le macerie il tronco di una svettante palma, il getto di una pompa lo zampillo di una fontana del giardino, le scintille di un saldatore la coda della cometa di cui parla Zaide, la sabbia da costruzione quella di una duna del deserto.

All’inizio tutta fila liscio: al coro degli schiavi che si consolano del loro destino «Jeder Mensch hat seine Pein» (Ogni uomo ha la sua pena), praticamente un quartetto per tenori, segue il melologo di Gomatz «Unerforschlische Fügung!» (Destino imperscrutabile), un lungo monologo con musica che non può non ricordare il Fidelio beethoveniano, e quindi la “soave ninna nanna” «Ruhe sanft, mein holdes Leben» (Riposa sereno, dolce vita mia) di Zaide. Si continua con il duettino tra i due innamorati, seguono gli interventi di Gomatz e Allazim e quindi il terzetto, che però viene interrotto dal narratore, insoddisfatto di come sono andate le cose, che si immagina altre possibilità. E l’orchestra riprende il tema musicale delle varie scene che vengono riassunte e ricombinate offrendo ogni volta una trama differente. Succederà nuovamente nella seconda parte, dove all’agognato quartetto “finale” si arriva dopo che tre diversi snodi narrativi sono stati presi in considerazione e sviluppati.

L’ironia del gioco viene affidata a interpreti non solo scenicamente convincenti ma vocalmente eccellenti quali il soprano Chen Reiss, tenera Zaide dal timbro d’argento che sa però dar prova di temperamento nella sua invettiva contro Solimano «Tiger! Wetze nur die Klauen» (Tigre, affila i tuoi artigli). Collaudati ed infallibili sono Juan Francisco Gatell (Gomatz) e Markus Werba (Allazim), due mozartiani di lunga data. Soliman qui ha la voce di un tenore, quella non strabordante di Paul Nilon. Voce da vendere invece, e di grande qualità espressiva, è quella dell’Osmin di Davide Giangregorio, che si conferma ottimo baritono dopo la bella prova nel suo debutto come il Ferrando del Trovatore di Macerata. La sua parte, e non solo per il nome del personaggio, è quella che più anticipa la buffoneria del Ratto, mentre Zaide è una Contessa in fieri e Gomatz, come si è detto, un Florestan avanti lettera. Soliman non ha la statura e complessità di Selim, ma qui nessuno riesce a sviluppare una psicologia convincente e su questo devono fare i conti Calvino col suo testo e Vick con la sua messa in scena.

La voce narrante è quella di un Remo Girone con qualche piccola amnesia mentre Daniele Gatti offre di questi frammenti una lettura di olimpica serenità (l’accompagnamento della sublime «Ruhe saft» che magari avremmo preferito in un tempo più lento, ma solo per goderne maggiormente) ma anche percorsa da brividi preromantici (il Melodram di Gomatz). Gli risponde un’orchestra del teatro in gran forma con alcuni godibili assoli strumentali. Dopo l’anteprima giovani sei sono le repliche romane, ma lo spettacolo verrà ripreso nel Circuito Lirico Lombardo. Un’occasione da non perdere.

(1) Zaide – Trame per l’incompiuto Singspiel… ora in “Testi per musica” (Romanzi e racconti, vol III, Milano, 2004). Si tratta di uno dei pochi interventi di Calvino nell’opera dopo le collaborazioni con Liberovici negli anni ’50 e prima de La vera storia (1982) e Un re in ascolto (1984) di Luciano Berio. Nel programma di sala Luca Badini Confalonieri ricorda poi la sua amicizia col mozartiano Massimo Mila.

(2) Lì la regia fu affidata ad Adam Pollock, mentre fu lo stesso Graham Vick ad allestirla a Venezia nel 1985.

 

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