Mese: gennaio 2017

Saul og David

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★★★☆☆

L’opera-oratorio del maggior compositore danese

Prima delle due opere scritte da Carl Nielsen, Saul og David (Saul e Davide) non ebbe critiche favorevoli quando fu presentata nel novembre 1902, diversamente dalla successiva Maskarade, che fu invece un clamoroso successo. Fu composta assieme alla Seconda sinfonia “I quattro temperamenti” su un libretto in danese di Einar Christiansen che riprende la vicenda biblica del re Saul e della sua gelosia per il giovane Davide così com’è narrata nei due libri di Samuele nel Vecchio Testamento. Il librettista si era ampiamente ispirato al testo che Hans Christian Andersen aveva scritto nel 1880 per un Kong Saul (Re Saul) mai rappresentato. (1)

Soggetto e trattamento musicale farebbero propendere per un oratorio – cori, inni, minima drammaturgia – e in quegli anni il compositore danese ne aveva presentati infatti ben due: Hymnus amoris (1896) e Søvnen (Sonno, 1905). Il lavoro non è comunque scevro di una sua teatralità che conquistò parte del pubblico presente alla prima, ma non convinse la critica musicale: «Non aspettatevi un’opera teatrale piena di effetti: preparatevi a incontrare un musicista zelante, serio, rigoroso», avvertiva un recensore.

Il rapporto ambivalente di Nielsen con Wagner è chiaramente evidenziato in questo lavoro in cui il declamato predomina sulla linea melodica, affidata quest’ultima quasi esclusivamente al personaggio di Davide. Mentre la sua vena sinfonica trova sbocco negli ampi intermezzi sinfonici, risolti qui da David Pountney nella sua messa in scena al Teatro Reale di Copenhagen nel 2015 con numeri coreografati i primi due (un balletto dei rappresentanti dell’ONU !) e immagini di attacchi notturni (i video dei bombardamenti di Bagdad) il terzo. Il regista inglese ambienta infatti la vicenda ai nostri giorni, in cui i conflitti religiosi non mancano di certo: in abiti moderni, a parte i ricchi mantelli di Saul e del figlio Jonathan, e il fondo della scena formato da case che hanno perduto la facciata in seguito ai bombardamenti. Nelle abitazioni vediamo civili che assistono dallo schermo delle televisioni a quanto avviene nel palazzo reale, all’instabilità emotiva del vecchio re, alla pura innocenza del nuovo. Nella lettura di Pountney il profeta Samuele è rappresentato come un fondamentalista religioso che alla fine scalza dal trono anche il re Davide. Il vecchio aveva finto la sua morte per “risorgere” invocato dalla strega di Endor, qui la caricatura di una veggente, e per prendere il potere. È il fanatismo religioso a prevalere.

I due personaggi principali hanno in Johan Reuter e Niels Jørgen Riis interpreti eccellenti: il baritono sovrasta con la sua potenza vocale la spessa orchestra, ma trova anche le sfumature giuste per disegnare a tutto tondo l’incostante Saul; il tenore rende in maniera più lirica che eroica il personaggio, non ben delineato dal libretto, di Davide.

Il coro e l’Orchestra Reale Danese sono guidati con mano ferma da Michael Schønwandt che mette in luce gli aspetti wagneriani della partitura, nei momenti di maggior enfasi orchestrale come in quelli più intimisti.

Sottotitoli in inglese e 132 minuti di musica.

(1) In rete si può trovare un’ampia analisi del lavoro, compresa la partitura.

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Giustino

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Georg Friedrich Händel, Giustino

direzione di Hartmut Haenchen

regia di Harry Kupfer

1986, Komische Oper di Berlino

Il prolisso libretto del 1682 di Nicolò Beregan (anche Berengani o Bergani) è stato messo in musica da molti compositori, tra cui Albinoni (1711) e Vivaldi (1724), quest’ultima l’intonazione più famosa. Händel riprende il testo, rimaneggiato da Pietro Pariati, per la stagione 1736-37 del Covent Garden dove ebbe otto repliche.

Il lavoro è caratterizzato da una vicenda articolata e contiene alcune arie accompagnate da uno strumento solista come l’oboe, scritte queste appositamente per l’allora virtuoso Giuseppe Sammartini.

La storia del pastore Giustino – che sogna di realizzare imprese eroiche, le esegue e viene ricoperto di onori dall’imperatore Anastasio, ma vittima di gelosie e invidie cade in disgrazia per poi scoprire di essere di stirpe reale e alla fine trionfare – viene messa in scena alla Komische Oper di Berlino, ovviamente in tedesco, in una traduzione di Eberhard Schmidt e nell’arguta regia di Harry Kupfer, piena di trovate divertenti e buffi animali, ma molto fedele al libretto. Interprete del ruolo titolare è il grande contraltista Jochen Kowalski.

Roméo et Juliette

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Charles Gounod, Roméo et Juliette

★★★★☆

New York, Metropolitan Opera House, 24 gennaio 2017

(live streaming)

La prima volta di Roméo et Juliette al MET

L’invocazione di Romeo «Ah! lève-toi, soleil!» non ha esito favorevole nel Gounod ora al Metropolitan: è notte perenne nella messa in scena di Bartlett Sher in cui il giorno è una minaccia alla felicità dei due giovani: «C’est l’alouette hélas! messagère du jour!». Si tratta della produzione scaligera presentata inizialmente a Salisburgo nel 2008, ma con una scenografia diversa, trattandosi là dell’inusuale spazio della Felsenreitschule. Qui la scena fissa di Michael Yeargan propone una piazzetta scura di una città rinascimentale, mentre i costumi di Catherine Zuber, uniche note di colore in tanto monocromatismo, si ispirano al Settecento, anche lui un po’ funebre però, del Casanova felliniano. I problemi di un unico ambiente in un lavoro che ne richiede ben sei nei suoi cinque atti, vengono risolti con economia: il balcone è già là nella facciata del palazzo, un altarino e due sedie fungono da cellula di frate Lorenzo, un grande drappo bianco è di volta in volta telo del mercato per la scena degli scontri, lenzuolo per il talamo degli amanti, velo nuziale per Giulietta, sudario per il suo “cadavere”.

Regia tradizionalissima – lo stralunato frate Lorenzo di Mikhail Petrenko qui non ha le morbose attenzioni verso Giulietta dell’edizione salisburghese – ma molto ben realizzata, con scene d’armi degne di un film di Errol Flynn, movimenti precisi delle masse e un’accorta regia attoriale. Ma qui si sapeva che si andava sul sicuro: tutti gli interpreti principali sono scenicamente superlativi: il Mercutio di Elliot Madore è semplicemente perfetto e vocalmente strepitoso; Capuleti padre è disegnato a tutto tondo dal solito efficace Laurent Naouri; Stéphano ha la giovanile freschezza del mezzosoprano Virginie Verrez. Anche il resto del cast se la cava bene.

Dei protagonisti impegnati in ben quattro lunghi duetti, che dire? La vivace presenza scenica di Vittorio Grigolo, la latina baldanza e la sua generosa vocalità disegnano un Romeo di grande temperamento. Mancano però talora le mezze voci, ammirate invece in un altro Romeo dei nostri tempi, Roberto Alagna. Acuti precisi e luminosi scandiscono la lettura esuberante del tenore italiano, spesso però assorbito dalla tensione del risultato a scapito di una maggior naturalezza di espressione.

Stilisticamente all’opposto, Diana Damrau ci fa dimenticare di avere il triplo degli anni del suo personaggio per la dolcezza che infonde alla sua Giulietta, dalla fanciullezza innocente del suo primo intervento in quel delizioso valzer-coloratura che è «Je veux vivre», alle frasi drammatiche del finale scolpite con tragica intensità.

La foto della locandina del teatro ritrae un Romeo a torso nudo e una Giulietta quasi altrettanto discinta su un letto sfatto. Niente di tutto questo sulle castigate tavole del teatro newyorchese, il cui pubblico ha comunque recepito l’intesa in scena della coppia.

Sul podio Gianandrea Noseda dà unità ad una partitura che passa da una situazione a un’altra con cambiamenti repentini di registro e colore. La lettura tesa e vibrante del maestro italiano è un ottimo supporto per le voci in scena, compreso il coro impegnato a più riprese in questo Shakespeare profumato Second Empire.

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TEATR WIELKI

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Teatr Wielki

Poznań (1910)

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Progettato da Max Littmann, dopo 18 mesi  dall’avvio dei lavori il Teatr Wielki di Poznań venne inaugurato nel 1910 con il Flauto magico di Mozart. Nel periodo tra le due guerre hanno avuto luogo qui prime mondiali di compositori polacchi e nel 1945 è il primo teatro a riprendere l’attività nel paese.

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La facciata del palazzo è  un enorme portico costruito secondo le regole dell’architettura classica antica con sculture monumentali e un timpano triangolare coronato con Pegaso, simbolo di ispirazione poetica. La fontana che si trova di fronte al teatro è architettonicamente parte integrante della costruzione e l’estensione immediata del mito di Pegaso e della fonte delle muse.

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Einstein on the Beach

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★★★★★

Finalmente in video il mitico spettacolo 

«What the hell is this?» era la domanda più frequente che si ponevano gli spettatori quella sera del 25 luglio 1976 al Festival di Avignone assistendo alle quattro ore e mezza di un spettacolo astratto e a-narrrativo che li inchiodava al loro posto con immagini e suoni ipnotici. Opera al termine della fase cosiddetta minimalista frequentata dal compositore a cominciare dagli anni ’60 e prima di una “portrait trilogy” cui faranno parte successivamente Sathiagraha, sulla figura del Mahatma Gandhi e Akhnaten, il faraone monoteista, Einstein on the Beach è la più importante collaborazione tra Philip Glass e Robert Wilson e uno spettacolo cult della seconda metà del secolo passato. In seguito, a loro si unirà Lucinda Childs per le astratte coreografie.

«È nello stesso tempo simile e diverso dalle precedenti creazioni teatrali di Robert Wilson. La differenza principale rispetto alle precedenti “opere”, se così si può dire, di Wilson sta nel fatto che quest’ultima è accompagnata da una partitura musicale di cinque ore, realizzata da un compositore di grande valore, Philip Glass. […] Schematicamente il diagramma di base del lavoro è costituito da nove scene accompagnate e divise da cinque kneeplays (giunture) cosi chiamati perché la loro funzione è simile a quella di un’articolazione. Le nove scene si dividono in quattro atti e vanno considerate come tre immagini visive fondamentali dell’opera: un treno, un’aula di tribunale in cui compare un letto e un’astronave. […] La musica di Philip Glass non fa di Einstein un’opera in senso convenzionale. Non consente, infatti, esibizioni vocali a cantanti di scuola tradizionale e l’ensemble di Glass – due organi elettrici, tre strumenti a fiato, voce femminile e violino, il tutto molto amplificato – può difficilmente rappresentare un equivalente dell’orchestra del MET. La musica tuttavia influenza il lavoro di Wilson. […] Il materiale di base è armonicamente statico, modale, con crome che si susseguono regolarmente a volte in contrappunto con note di basso continuo degli strumenti a fiato. L’aggiunta più suggestiva è la musica corale, esposta su numeri calcolati con metodo di sillabe solfeggiate». (John Rockwell)

Gli spettatori che entrano in teatro trovano già in scena due donne che recitano una serie di numeri o brevi frasi con il sottofondo di un suono tenuto all’infinito. Con l’ingresso di uomini e donne nella buca orchestrale il ritmo diventa più incalzante.  Su una sedia isolata Einstein con il violino, in orchestra sei strumentisti.

«Nel 1976 ho creato un’opera con Phil Glass, Einstein on the Beach. Sono partito da quella fotografia di Einstein nel suo studio a Princeton. Tutti gli interpreti furono vestiti allo stesso modo: ampi pantaloni grigi, camicie bianche inamidate e bretelle. Avevano tutti scarpe da tennis e un orologio da polso. Avevo visto molte foto di Einstein. Di quando aveva due anni, venti, quaranta, sessanta, settanta. In tutte era ritratto in piedi con la mano nella stessa posizione: il piccolo spazio tra pollice e indice era sempre lo stesso. Ho fatto iniziare l’opera con questo gesto. E anche dopo. Ho spesso pensato a questo spazio tra le due dita: qui teneva il gesso per tracciare le sue equazioni, o l’archetto del violino che amava suonare, o le sartie della barca a vela, il suo passatempo preferito». (Robert Wilson)

Finalmente in blu-ray la registrazione dell’allestimento allo Châtelet di Parigi del gennaio 2014 diretto da Michael Riesman che aveva fatto il giro dei teatri europei, tra cui il Valli di Reggio Emilia alla cui recita avevo assistito. La regia video è di Don Kent e la durata è di poco meno quattro ore e mezza. Due dischi e un ricco opuscolo nella confezione a libro.

OPERA HOUSE

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Opera House

Buxton, Derbyshire (1903)

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L’Opera House di Buxton è stata costruita nel 1903 su disegno di Frank Matcham, l’architetto che progetterà   il London Coliseum (1904) e il London Palladium (1910). Teatro di successo fino al 1927, fu poi convertito in cinematografo anche se saltuariamente veniva utilizzato per la compagnia di prosa dell’Old Vic in tournée da Londra. Nel 1976 fu chiuso e si temette che non sarebbe mai più riaperto, invece nel 1979 iniziarono i restauri che prevedevano la ricostruzione della fossa orchestrale. Altri lavori di ammodernamento seguirono nel 2007. Da allora è sede di 450 spettacoli ogni anno: opera, balletto, musical, prosa, concerti  e ospita l’annuale Buxton Festival e l’International Gilbert and Sullivan Festival.

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Der fliegende Holländer

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Richard Wagner, Der fliegende Holländer (L’Olandese volante)


★★★☆☆

Helsinki, Suomen Kansallisooppera,24 novembre 2016

(live streaming)

Il finlandese volante di Holten

Niente mare in questo Olandese wagneriano di Kasper Holten all’Opera Nazionale Finlandese. Solo tanto blu: la tempesta è tutta nell’animo dell’Olandese, artista affermato che nel suo studio si affanna su tele astratte in cui riversa il suo mal di vivere e che riflettono la sua visione della realtà quale la vediamo nella videografica proiettata sullo sfondo di un palcoscenico girevole che dà il senso dell’incessante ricerca di un approdo. Tutto ciò viene detto durante l’ouverture a sipario alzato. E poi la vicenda inizia, ma niente «costa ripida e rocciosa» o vascelli: siamo tra la folla di un elegante vernissage dei quadri dell’artista. Daland informa la figlia del viaggio al telefonino e l’Olandese fa il suo racconto («Die Frist ist um, und abermals verstrichen sind sieben Jahr’», Passato è il termine, e ancora una volta sono trascorsi sette anni) come illustrando le sue opere, per poi appartarsi per la sua “preghiera” («Dich frage ich, gepriesner Engel Gottes, der meines Heils Bedingung mir gewann», A te io chiedo, o benedetto angelo del Signore, che ottenesti la condizione della mia salvezza).

Questa descrizione minuziosa dell’inizio dello spettacolo dimostra la logica drammaturgica di Holten e la sua visione teatrale che trascura gli aspetti romantici della giovanile opera wagneriana e non crede al fascino del maledetto che va per mare in un’epoca come la nostra in cui il mare si vede dalla cabina di una città galleggiante che attenua ogni rollio o beccheggio eventuali. Qui le onde sono quelle che oscillano tra un’irrequieta ambizione artistica e il desiderio di trovare pace, una casa, affetti duraturi. Come accadeva all’artista Wagner, afferma il regista.

L’espediente non sempre funziona: tutti i termini marinari suonano a vuoto e la storia raccontata sembra un’altra da quella che conosciamo. Solo in alcuni momenti l’idea risulta efficace, come nel duetto in cui l’Olandese chiede a Daland la figlia in isposa, con i due uomini brilli per il copioso whisky bevuto mentre trattano la faccenda come uno squallido scambio, quale in effetti è, con quell’accompagnamento danzante nell’orchestra. Nel secondo atto le filatrici sono allieve invece in una lezione di ceramica, Senta si perde dietro alla copertina della rivista Time dedicata all’Olandese e la sua ballata la canta mentre crea una violenta opera astratta completa di dripping alla Pollock e body painting – l’opera che farà innamorare l’Olandese, più che Senta stessa. Il loro rapporto inizialmente non è diretto e personale, bensì interposto da un mezzo artistico, qui una cinepresa che amplifica le espressioni dei loro volti. La spettrale scena iniziale del terzo atto è un incubo dell’artista popolato da una folla senza volto e dall’alcolismo di cui è vittima. Anche il finale è particolare: ancora un vernissage, ma questa volta è Senta l’artista, ed è lei a mettere in mostra i video dell’Olandese, tra cui quello con cui si è tolto la vita.

Non c’è il mare, dunque, in questa lettura molto teatrale di Holten, ma c’è il senso di annegamento del protagonista, a cui in alcuni momenti manca l’aria e lo fa boccheggiare. Fortunatamente non manca il fiato al cantante, il fascinoso baritono danese Johan Reuter, un autorevole Olandese svettante nel registro acuto e imponente in quello grave e dalla magnetica presenza scenica. Ma è proprio il personaggio, a cui viene mancare l’alone di mistero dell’originale, che qui è debole, unitamente alla sua eccessiva presenza in scena fin dai primi momenti.

Camilla Nylund è una Elsa eccellente per vocalità e intensità espressiva. Gregory Frank è un Daland efficace mentre l’Erik di Mika Pohjonen è insopportabilmente gridato. Di grande bellezza timbrica la voce del timoniere di Tuomas Katajala.

In questo contesto il direttore John Fiore neanche prova a proporre una lettura romantica dell’opera e le sue bordate musicali non sono propriamente trascinanti, anche a causa di un’orchestra non eccezionale, con ottoni sbandati e archi dal suono secco. Non esaltante la prova del coro, ahimè in un’opera in cui gli interventi corali sono quanto mai determinanti.

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Pagliacci

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Paolo Ventura, The Sword Swallower, 2009

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

★★★☆☆

Turin, Teatro Regio, 11 January 2017

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

An orthodox Pagliacci stands alone in Turin

Perhaps the composer Nicola Campogrande is right when he says that the length of a performance (though he was speaking of concerts) is expected to shorten in time, due to our perceptual rhythms that lead us to focus our listening experience in more limited time. Or are the usual budget issues that tend to split into two or more evenings what was commonly programmed in one?

Turin’s Teatro Regio seems to invent the “Opera aperitif”: you go to theatre at eight and shortly after nine you are out for a film or a pizza with your friends…

continues on bachtrack.com

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Paolo Ventura, Il mangiatore di spade, 2009

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 11 gennaio 2017

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Un Pagliacci di tradizione è la sola offerta serale del Regio di Torino

Avrà ragione il compositore Nicola Campogrande quando afferma che la lunghezza di uno spettacolo (lui parlava in realtà dei concerti) è destinata ad accorciarsi per i ritmi percettivi a cui ci stiamo abituando e che ci portano a concentrare la nostra esperienza d’ascolto in tempi sempre più limitati? O saranno i soliti problemi di budget dei teatri a diluire in più serate quello che veniva comunemente programmato in una sola? Fatto sta che il Regio di Torino inventa “l’Opera aperitivo”: si entra alle otto e poco dopo le nove si è già liberi per una pizza con gli amici o un cinemino.

Va in scena infatti, tutta sola, l’opera di Ruggero Leoncavallo Pagliacci, il dramma che anticipa il metateatro di Pirandello nel gioco tra scena e vita, sentimenti finti e sentimenti veri, uomini e maschere. La seconda parte del tradizionale dittico Cavalleria-Pagliacci viene affidata a un sensibile direttore d’orchestra, a un attore/regista di fama del teatro di prosa e a un raffinato artista visivo per le scene e i costumi.

Quest’ultimo è Paolo Ventura, artista che ricostruisce minuziosamente scenografie dall’atmosfera vagamente surreale e poi le fotografa. I suoi sono ritratti di personaggi malinconici immersi in periferie silenziose tratteggiate con tinte morbide. Qui vediamo una periferia urbana di un dopoguerra con ancora le ferite aperte dei bombardamenti: a sinistra una casa mezzo diroccata che serve da rifugio per gl’infelici amanti, a destra un misero palco per la recita della sgangherata compagnia, sullo sfondo un edificio quasi crollato annerito dal fuoco e un muro scrostato su cui ancora si legge il motto fascista VINCERE crivellato di colpi di arma da fuoco. Un filo di lampadine colorate è l’unico elemento di allegria in questo mondo in cui si muovono i tristi pagliacci, i giocolieri su trampoli e le povere maschere delle poetiche visioni dell’artista milanese.

La messa in scena di Gabriele Lavia non si scosta da una lettura molto tradizionale (ci mette pure un asinello vivo). Il regista dimostra buona capacità di gestione delle messe in scena e utilizza abilmente gli oggetti – nella pantomima una cornice di legno diviene di volta in volta finestra, specchio, porta, tavolo – ma la sua lettura non suggerisce nulla di nuovo.

Facendo di necessità virtù, si può dire che la brevità dello spettacolo dimezzato fa raddoppiare l’attenzione sull’aspetto musicale dell’opera di Leoncavallo. Il direttore Nicola Luisotti ne mette in luce con sapienza e sensibilità la partitura, un vero e proprio collage stilistico cha va dalle carezzevoli melodie cantabili, quasi romanze, agli intensi interventi sinfonici, ai vivaci cori, ai minuetti e alle gavotte “all’antica” della pantomima, ai colori foschi del “cattivo” Tonio, alle armonie cromatiche, quasi wagneriane, del duetto d’amore tra Nedda e Silvio, all’avvicendarsi dei leitmotive. Il maestro viareggino concerta poi abilmente le voci in scena, tutti cantanti debuttanti nei loro rispettivi ruoli. Il Canio di Fabio Sartori è vocalmente generoso, dagli acuti luminosi e precisi, gli manca solo un uso più convincente della mezza voce, ma qui è la regia a non aiutare, ad esempio quando lo piazza in proscenio a gambe larghe per il celeberrimo monologo («Vesti la giubba»), momento che è stato reso spesso in maniera teatralmente molto più efficace altrove. Lo stesso errore è commesso dalla regia quando fa iniziare sì il prologo con Tonio davanti al sipario, ma a metà questo si alza e ci mostra la scena finale dell’opera, con Nedda e Silvio a terra trafitti dal pugnale di Canio, come un’istantanea fotografica. Questo, però, invece di sottolineare, toglie vigore alle parole che si perdono nell’affollata inquadratura. Peccato perché Roberto Frontali costruisce un Tonio intenso e nel finale la sua frase «La commedia è finita» fa venire i brividi, con tutta la crudezza ma anche la sofferta disperazione di chi ha dolorosamente vendicato la crudeltà della vita nei suoi confronti. Erika Grimaldi è una Nedda dal timbro non sempre gradevole ma vocalmente a suo agio nel ruolo.

Fin qui gli interpreti italiani, e si sente nella espressiva recitazione delle battute del testo. Non sfigurano comunque, né nella dizione né nella prestazione vocale, l’americano Juan José de León, spigliato e acrobatico Peppe/Arlecchino, e il polacco Andrzej Filończyk, aitante Silvio. Eccellente la prova del coro e dei tanti figuranti che affollano la scena. Calorosi applausi per tutti da parte del pubblico presente.

Rinaldo

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Georg Friedrich Händel, Rinaldo

Caen, Théâtre de Caen, 29 aprile 2010

(registrazione video)

Händel a lume di candele

Presentato a Praga allo Stavovské Divadlo, approda a Caen un Rinaldo conforme (?) ai canoni del teatro barocco. Francese è Luise Moaty, qui alla sua prima prova registica d’opera, ceca la parte musicale, con la direzione di Václav Luks, clavicembalista alla guida del Collegium 1704. La vicenda si sviluppa alla luce di candele, costumi e scenografie ispirati alle visioni di Paolo Uccello e Sandro Botticelli, declamazione e gesti sono datati.

«Tutto il dispositivo di illuminazione che caratterizza la pittura occidentale, tra la prospettiva rinascimentale e la rivoluzione di Manet, assume qui realtà e carne. […] Il materiale sviluppato da Louise Moaty non è la psicologia dei personaggi o la letterarietà del libretto, ma il linguaggio del corpo coreografato (qui è fondamentale il contributo di Françoise Denieau che ha il suo culmine nella battaglia della penultima scena) a partire dalle innumerevoli posture che vediamo nella pittura, il disegno e l’incisione – soprattutto del secondo Seicento francese. L’energia che collega le diverse istantanee di questo linguaggio è continua e tesa. Gesti e movimenti misurati e dolci (mai il minimo scatto brusco), a dimensione della corporeità, ci portano magnetizzati a far dialogare i quadri della pittura barocca della nostra memoria con quelli di questo spettacolo; dèi e umani parlano la stessa lingua di posture e gesti. Louise Moaty costruisce la sua drammaturgia sulla scena: quasi mai un fuori campo, ma un quadro in cui si entra e si esce, come in una serie di istantanee pittoriche (da confrontare con la scrittura cinematografica del Charlie Chaplin degli anni ’10). Ecco una realizzazione scenica meditata, ben realizzata e difficilmente dimenticabile, dove la messa in scena non consiste tanto nel far agire gli attori quanto a offrir loro un quadro preciso che la loro natura teatrale saprà più o meno riempire». (Frank Langlois)

Detto ciò, no grazie: preferisco il teatro d’oggi che mantiene vivo Händel e la sua capacità a parlarci, dopo tre secoli, di temi attuali. Per la casa museo so dove andare.