Mese: gennaio 2022

Agua, azucarillos y aguardiente

Federico Chueca, Agua, azucarillos y aguardiente

Madrid, Teatro de la Zarzuela, 6 marzo 2020

(video streaming)

Un’altra proposta del progetto zarzuela per i giovani

Prosegue il Proyecto ZARZA per portare la zarzuela ai giovani. Dopo il successo de La verbena de la Paloma, al Teatro de la Zarzuela viene messo in scena un altro dei lavori più popolari del género chico: Agua, azucarillos y aguardiente di Federico Chueca, “pasillo veraniego” (passeggio estivo) presentato il 23 giugno 1897 al Teatro Apolo di Madrid con grande successo. Quella prima sera alcuni numeri dovettero essere ripetuti fino a cinque volte e alla fine dello spettacolo il pubblico portò Chueca a casa in trionfo sulle spalle. Lo spettacolo si spostò poi al Príncipe Alfonso sul Paseo de Recoletos durante l’estate e tornò in settembre all’Apolo dove raggiunse le duecento rappresentazioni di fila.

È una delle opere più emblematiche del sainete lirico madrileno della fine del XIX secolo, poiché concentra alcuni dei suoi elementi caratteristici: la leggerezza della trama, l’uso del pittoresco locale come attrazione principale e un certo umorismo. L’opera riflette l’atmosfera della classe media impoverita di Madrid in contatto con la classe operaia e, per farlo, presenta, letterariamente e musicalmente, un’azione con costanti allusioni alla cronaca del giorno, a tipi – tate, barquilleros, portatori d’acqua, ecc. – e a situazioni reali di disagio economico e luoghi specifici della città di Madrid.

Atanasia (Asia) vive con la madre Simona in un umile appartamento. Hanno problemi finanziari aggravati dalle poche vendite – tre copie – di un libro di poesie che la giovane ha pubblicato e inoltre devono due mesi di affitto al loro padrone di casa Aquilino. Ricevono una lettera da Antonio, lo zio di Asia, che dice loro che pagherà i debiti solo se Asia sposerà suo cugino Aniceto, ma Asia vuole rimanere a Madrid e sposare il suo attuale fidanzato Serafín. Di fronte a questa situazione, Simona prende una decisione: dovrà chiedere soldi al fidanzato della ragazza, Serafín, il fidanzato della ragazza, che sembra ricco e certamente non rifiuterà ma lui le porta semplicemente a bere acqua zuccherata e a mangiare qualche meringa ai Giardini di Recoletos, dove si svolge la seconda scena. Seguono due coppie pittoresche: Pepa, la proprietaria della bancarella, e il suo ragazzo Lorenzo, che è un picador; e Manuela, una modesta venditrice d’acqua che invidia la “proprietà” di Pepa, e il suo ragazzo Vicente. Lorenzo e Pepa devono a Don Aquilino venti duros che, se non pagati, porteranno al sequestro del chiosco dell’acqua di Pepa. D’altra parte, Serafín vuole che Pepa metta un narcotico nell’acqua di Doña Simona perché possa godere liberamente di Asia. Anche se Pepa non accetta, Lorenzo vede nell’affare una possibilità di guadagno, che gli permetterebbe di pagare il debito di Pepa e recuperare gli scialli di Manila, che ha impegnato al Monte ddi pietà. Pepa avverte Doña Simona del piano di Serafín e alla fine è il ragazzo che prende il narcotico e si addormenta. L’ultima scena inizia con Pepa e Manuela che litigano. La discussione termina in una festa e diventano amici, come lo erano stati prima. Lorenzo e Vicente hanno riportato gli scialli di Manila e le due coppie vanno a divertirsi alla festa di San Lorenzo. Asia decide di tornare al suo villaggio, Valdepatata, e sposare suo cugino. Serafín finisce in caserma con l’accusa di scandalo pubblico, perché quando si è addormentato, ladri gli hanno rubato i vestiti e lo hanno lasciato in mutande.

Federico Chueca è considerato il musicista madrileno per eccellenza. Vi nacque nel 1846 e vi morì nel 1908. La sua vita fu orientata fin dall’inizio verso la musica e si dice che la sua vocazione musicale si sia consolidata dopo aver trascorso alcuni giorni in prigione quando fu arrestato in seguito a dei moti studenteschi. Mentre era in prigione compose alcuni valzer che intitolò Lamentos de un preso e al suo rilascio li condivise con alcuni musicisti. Ad Asenjo Barbieri, il suo maestro, piacquero così tanto che li arrangiò per orchestra e li incluse nei suoi concerti pubblici. Oltre a Barbieri fu amico intimo di Joaquín Valverde, un compagno di studi. Chueca aveva una grande facilità per il ritmo e la melodia, mentre Joaquín aveva una maggiore capacità di armonizzazione e orchestrazione. Da questa relazione nacque una serie di zarzuelas e tra queste ci fu la popolarissima La Gran Vía (1886).

Il libretto di Miguel Ramos Carrión è qui rivisitato da Nando López il quale mantiene intatti tutti i numeri musicali, mentre i testi recitati sono stati adattati a una nuova proposta scenica che colloca la storia ai giorni nostri e rendendo Federico Chueca un personaggio della vicenda.

Così racconta la regista Amelia Ochandiano: «Dopo aver letto diverse volte il libretto ho sentito che la storia raccontata aveva da un lato, tutta una rete di personaggi che mi sembravano alieni o con situazioni di vita superate o ancorati a conflitti che contribuiscono poco al nostro presente; dall’altro lato, tuttavia i personaggi principali avevano sullo sfondo conflitti che potremmo chiamare classici, senza tempo, alcuni di loro sembravano scritti ora. […] Anche se il tono è chiaramente comico, la profondità dello sguardo di Chueca è sempre presente nella partitura e nei personaggi principali, che sono essenzialmente dei giovani con problemi di precarietà, o con minacce di sfratto, con mancanza di obiettivi vitali o frustrazione nella loro vocazione e nelle loro aspettative, con il desiderio e l’ambizione di potere, con i problemi derivati da ciò che dirà la gente, con la sofferenza causata dalla perdita di una vera amicizia, o con il desiderio di ottenere tutto ciò che vogliamo a qualsiasi prezzo. Da questo nasce questa versione di Agua, azucarillos y aguardiente, dove incontriamo Asia, una giovane donna di oggi che, immersa in una crisi d’identità, ci racconta la storia della sua bisnonna con la quale, ha appena scoperto, ha molto più in comune di quanto avesse immaginato. È la storia di una notte d’estate di più di un secolo fa in cui si incrociano i destini di diversi personaggi, visti dal suo punto di vista, attraverso la sua immaginazione. Insomma, un viaggio poetico nel tempo, dove presente e passato si fondono nel racconto di quella notte magica».

Le pimpanti musiche  eseguite dall’ensemble da camera di otto elementi diretto da Óliver Díaz, le colorate e ironiche scenografie di Ricardo Sánchez Cuerda, i colorati costumi di Gabriela Salaberri, le svelte coreografie di Amaya Galeote, il ritmo serrato della recitazione, la qualità dei giovani cantanti, tutto concorre a creare uno spettacolo piacevolissimo. Benemerito il Teatro de la Zarzuela per questo progetto che non solo avvicina i giovani spagnoli al loro patrimonio lirico, ma rinnova il modo di rappresentare questo genere che si stava avvitando in una tradizione stantia, per turisti di bocca buona e anziani nostalgici.

 

La verbena de la Paloma

Tomás Bretón, La verbena de la Paloma

Madrid, Teatro de la Zarzuela, 1 marzo 2019

(video streaming)

Una zarzuela fatta dai giovani per i giovani

Una delle più popolari, La verbena de la Paloma è una zarzuela in un atto (o sainete) che nel titolo fa riferimento alla Calle de la Paloma, una strada di Madrid: l’ambiente urbano della capitale iberica è sempre stato il preferito per i compositori spagnoli e Tomás Bretón non fa eccezione in questo lavoro su testo di Ricardo de la Vega presentato al Teatro Apolo il 17 febbraio 1894.

L’opera è il ritratto di un quartiere popolare e tradizionale di Madrid la notte del 14 agosto durante la festa della Vergine della Paloma. Susana e Casta, due giovani donne del quartiere, accettano il corteggiamento di uno speziale molto più vecchio di loro e vanno alla Verbena aggrappandosi al suo braccio, mentre l’amante di Susana, Julián, esplode in malo modo per la gelosia.

La prima scena si svolge in una piazza davanti a una taverna dove le persone stanno conversando separatamente. Don Hilarión e Don Sebastián discutono sul consumo di vari prodotti. Il Tabernero sta giocando a carte con due amici. Un uomo e una donna con un bambino in braccio che dorme commentano il caldo. Julián si lamenta con Señá Rita di aver visto Susanna in una carrozza e di aver pensato che fosse con un uomo, anche se poi Susanna gli ha detto che era con sua sorella. Dopo che Don Sebastián se ne va, Don Hilarión pensa al suo previsto incontro romantico con Susana e Casta. La seconda scena si svolge in una strada del quartiere LaLatina. Una folla che comprende Susana, Casta e Tía Antonia, si è riunita per ascoltare una cantante di flamenco che canta. Tía Antonia interrompe la cantante lodando la sua performance; Susana e Casta cercano di calmarla. Dopo il canto, Susana racconta a Tia Antonia e Casta del suo litigio con Julián. Don Hilarión incontra le donne ed entrano insieme in un caffè. Prima di entrare nel caffè, il Tabernero dice agli amici che Julián vuole affrontare Susana per la loro rottura. Poi Julián e la Señá Rita arrivano fuori dal caffè dove la Señá Rita chiede a Julián cosa intende fare. Julián vede Don Hilarión uscire con Susana, Casta e Tía Antonia e lo saluta. Poi chiede a Susana dove va in abiti eleganti. Susana gli dà una risposta beffarda che accende la sua gelosia. Julián cerca allora di attaccare don Hilarión. Il Tabernero e gli altri escono dal caffè per fermare l’alterco. La folla si disperde dopo l’arrivo di due poliziotti. Julián cerca di inseguire Don Hilarión e Susana. La terza scena si svolge in una strada del centro della città dove delle coppie stanno ballando. Don Sebastián si sta godendo la serata con amici e familiari e saluta Don Hilarión quando arriva. Quest’ultimo entra in casa a causa del freddo; è scosso dal suo precedente incontro con Julián. Julián arriva in cerca di Don Hilarión e Susana, e scambia brevemente un’altra coppia per loro. Poi ha un alterco con Tía Antonia che è con le sue nipoti Susana e Casta. Un ispettore e due poliziotti appaiono sul posto per interrogare i partecipanti al litigio. Durante l’interrogatorio, Tía Antonia litiga con l’ispettore e minaccia di aggredire Julián. Due poliziotti la portano via. Quando Julián dice all’ispettore che è disposto ad andare in prigione, Susana lo sorprende dicendo che andrebbe con lui. Don Sebastián si presenta all’ispettore per garantire la buona condotta di Julián. L’ispettore conosce Don Sebastián e decide di archiviare la questione. Tuttavia, Julián ha trovato Don Hilarión e lo insegue per strada, scioccando Don Sebastián e gli altri. Don Sebastián esprime comprensione quando Julián dice che Don Hilarión gli stava rubando la ragazza. L’ispettore chiede che quella sera non ci siano più disordini. Julián e Susana si riconciliano. Tutti tornano a celebrare la festa.

Sembra che Ricardo de la Vega abbia basato la sua opera su una storia vera che capitò al tipografo che stampava le sue opere nella zona della Fuentecilla dove c’era uno speziale famoso per le sue storie d’amore in età matura. La musica per il libretto doveva essere composta da Ruperto Chapí, che alla fine rifiutò, e passando di mano in mano arrivò fino a Tomás Bretón che si mise al lavoro scrivendo la partitura in soli diciannove giorni, con le prove di scena già in corso. Nonostante la riluttanza iniziale di Bretón, che si considerava un compositore d’opera e che non aveva mai messo in musica un sainete, La verbena de la Paloma divenne l’opera di punta del género chico e la più famosa di entrambi gli autori, sia a livello nazionale che internazionale, nonché il pezzo più cantato di questo repertorio.

Invece di una produzione tradizionale – in rete ne sono disponibili alcune come quella della Compañia Sevillana de Zarzuela (2021) o del Teatro Lírico Andaluz (2016) o ancora del Teatro Calderón di Madrid (1995) – è stata qui scelta la versione del Proyecto ZARZA del Teatro de la Zarzuela, un progetto che intende avvicinare i giovani a questo mondo. La versione di Pablo Messiez mantiene tutti i numeri musicali, ma cambia i testi non cantati adattandoli a questa nuova proposta scenica in cui la storia è ambientata in un Centro Culturale di quartiere che sta per essere inaugurato: «La festa, il calore, la passione, la gelosia,… e la forza di valori come il lavoro di squadra, la fiducia, il potere della musica e la consapevolezza di sentire ogni momento come qualcosa di unico e magico, ci avvicinano a un’opera chiave della lirica spagnola attraverso questa potente scommessa che ancora una volta evidenzia l’impegno del Teatro verso i giovani» si legge sul programma di sala/quaderno didattico. Un’impresa lodevole per svecchiare il tradizionale pubblico di questo genere.

Scrive Messiez, che si è occupato anche della messa in scena: «La notte del 14 agosto 2019 è la notte più calda della storia del mondo. Le acque delle piscine sono letteralmente bollenti. La gente entra in strani stati di soffocamento e delirio che la portano a gridare: “Musica! Musica fresca!”. In questo contesto terrificante, la direttrice del Centro si prepara a inaugurare la sua nuovissima sala principale con una serie di attività culturali e sportive tra cui una performance de La verbena de la Paloma. Ma come se il caldo non fosse abbastanza fastidioso, un errore dell’addetto alle pubblicazioni del Centro fa sì che tutte le attività siano programmate per iniziare alla stessa ora. Sull’orlo di una crisi di nervi, il direttore è sul punto di decidere di annullare tutte le attività, tenendo conto, inoltre, che non tutti i cantanti sono ancora arrivati. Tuttavia, il Maestro decide di iniziare con la Verbena, confidando che sarà la musica che insegnerà loro a vivere insieme. E così inizia la Verbena de la Paloma». Il palcoscenico del teatro si trasforma in una palestra, le coplas di Don Hilarión sono cantate durante una sessione di Tai Chi, il quintetto e la habanera concertante durante il riscaldamento alla sbarra per la danza.

Adattata musicalmente per un ridotto ensemble di otto strumentisti – due violini, viola, cioloncello, contrabbasso, flauto percussioni e fisarmonica – con il direttore Óliver Díaz al pianoforte, i numeri musicali sono eseguiti con dedizione ed entusiasmo da giovani interpreti e la sala è piena di coetanei, probabilmente lì per la prima volta, venuti per divertirsi ed emozionarsi con loro.

Non si possono se non condividere in pieno gli obiettivi di questa iniziativa che vengono elencati nel quaderno didattico farne il modello per un’esperienza analoga qui: sfruttare un’esperienza unica al Teatro de la Zarzuela; conoscere una delle opere più importanti del patrimonio musicale lirico spagnolo; usare il lavoro di Bretón per collegare contenuti di diverse materie e riflettere su di esso; incoraggiare l’ascolto attivo; riconoscere le diverse tessiture e differenziare i diversi timbri; creare spazi e tempi che, attraverso l’assemblea e il dibattito in classe, aiutino a sviluppare l’ascolto, il rispetto della diversità e il senso critico; trasformare ogni errore in un’opportunità di apprendimento e incoraggiare il lavoro di squadra; svolgere piccoli progetti di ricerca-riflessione per imparare a usare criticamente le nuove tecnologie; usare il lavoro cooperativo e il service-learning come metodologie per creare comunità e connettere i centri con altri che agiscono negli altri quartieri; sviluppare strategie attraverso la musica che facilitino l’apprendimento dell’uguaglianza nella classe e nel suo ambiente in modo trasversale; analizzare i pregiudizi e smontare insieme gli stereotipi che si imparano fuori e dentro la scuola; riconoscere e disimparare i miti dell’amore romantico; incoraggiare l’educazione emotiva, la creatività e lo sviluppo dell’espressività attraverso la parola, le arti plastiche, le nuove tecnologie, la musica e la danza.

 

El dúo de La africana

Manuel Fernández Caballero, El dúo de La africana

★★★☆☆

Madrid, Teatro Real, 31 dicembre 2004

(registrazione video)

¡Una zarzuela al Real!

El dúo de La africana è un sainete, una zarzuela appartenente al género chico, composizioni in un atto e di durata inferiore a un’ora, genere nato nel 1867 a El Recreo, piccolo teatro madrileno di Calle la Flor. Gli atti erano eseguiti in modo unico ma continuo, con fino a quattro rappresentazioni successive di titoli diversi davanti a un pubblico che poteva rimanere pagando un nuovo biglietto. È una tradizione invece dei tempi moderni che le zarzuelas chicas siano eseguite in programmi doppi (o addirittura tripli) che le assimilano in lunghezza alle opere più grandi. El dúo de La africana debuttò con grande successo – duecento rappresentazioni ininterrotte! – al Teatro Apolo di Madrid il 13 maggio 1893 quale lepida parodia di una sgangherata compagnia d’opera capeggiata dall’italiano Querubini…

Una modesta compagnia d’opera si prepara per una prova dell’opera di grande successo di Meyerbeer, L’Africaine. Querubini, l’impresario che dirige la compagnia, ha per politica di spendere il meno possibile, sia per le scenografie che per i cantanti. Lui stesso spiega che «è una compagnia d’opera estiva ed economica» e che risparmia sui costi assumendo membri della famiglia per non doverli pagare, ma è esasperato da quanto poco lavoro viene fatto nelle prove. Durante la rappresentazione, il tenore Giussepini approfitta spudoratamente della situazione per abbracciare la prima donna, la Antonelli, moglie di Querubini. Quest’ultimo reagisce gelosamente interrompendo il duetto, al che il pubblico risponde con dei fischi. Querubini convoca il tenore, di cui non vuole liberarsi, perché canta gratis, «per amore dell’arte». Per allontanarlo da sua moglie, gli offre la mano di sua figlia Amina, ma lui non si decide. Nel seguente duetto di Giussepini e Antonelli, la coppia canta di nuovo con ardore, così Querubini interrompe di nuovo l’esecuzione. Il crescente tumulto del pubblico costringe la polizia a intervenire. Inoltre, la madre di Giussepini, Donna Serafina, irrompe sul palco con l’intenzione di portare via il figlio . Antonelli sviene per la perdita del suo amante, il pubblico è furioso e, di fronte alla possibilità di dover restituire il denaro agli spettatori, Querubini rianima la moglie e riprende lo spettacolo, portando la rappresentazione alla fine.

La produzione della stagione 1984/85 del Teatro de la Zarzuela approda al Teatro Real e costituisce lo spettacolo di fine anno 2004. Queste rappresentazioni non sono incluse nella normale stagione lirica, ma inaugurano un nuovo ciclo a carico della Fundación de la Zarzuela Española. I massimi rappresentanti del teatro si sono buttati con entusiasmo in questo evento: Jesús López-Cobos (direttore musicale) si occupa della direzione d’orchestra mentre Emilio Sagi (direttore artistico del teatro) appare sul palco quale membro della compagnia d’opera.

La vicenda è solo un canovaccio su cui imbastire trame anche diverse, quella che rimane sempre la stessa è la musica. Qui per portare lo spettacolo a una durata più accettabile, tra il primo e il secondo quadro è stata incorporata una scena extra. Il carattere metateatrale di El dúo de La africana ha suggerito l’inserimento nella storia di una presunta selezione di artisti per la compagnia di Querubini: ecco quindi le “audizioni” di Ruth Rosique ne El barbero de Sevilla di Nieto e Giménez, lo spassoso Enrique Viana en travesti ne La viejecita di Caballero, José Bros impegnato con i do di Tonio ne La fille du régiment di Donizetti e Carlos Álvarez ne La del Soto del Parral di Soutullo y Vert.

Jesús López-Cobos dipana gli accattivanti numeri musicali e le trascinanti melodie che rivestono gli arguti versi del libretto di Miguel Echegaray scritti in un italo-spagnolo maccheronico che fa il verso a certa librettistica dell’opera italiana, anche se qui si tratta di mettere in scena un grand-opéra francese. Il compositore cita temi di Meyerbeer in forme di opera italiana, ma sempre con gusto iberico. La jota è uno dei più frequentati pezzi di repertorio per soprano e tenore.

Il regista Juanjo Granda assieme a José Luis Alonso, che firma scenografie e costumi, mette in scena uno spettacolo ambientato a fine secolo, divertente ma dall’umorismo un po’ greve e inceppato da una recitazione non sempre fluida. Due soli i ruoli cantati: quello della Antonelli (María Rodríguez) e di Giussepini( Guillermo Orozco). Dei due interpreti si fa notare il tenore che oltre a una certa padronanza vocale riesce a esibire una recitazione non troppo caricata.

El Rey que rabió

Ruperto Chapí, El Rey que rabió

★★★★☆

Madrid, Teatro de la Zarzuela, 17 giugno 2021

(video streaming)

«¡Dios mío! Un Rey que grita: “¡Viva la libertad!”»

Dopo 130 anni ritorna al Teatro de la Zarzuela El Rey que rabió, che qui vide la luce il 20 aprile 1891. Pochi re nella storia sono stati più amati e applauditi di questo re immaginario e simpaticissimo messo in musica da Ruperto Chapí su un libretto di Miguel Ramos Corrión e Vital Aza. Per i madrileni del tempo, nella vicenda c’era il ricordo delle passeggiate in cognito del re Alfonso XII, sul trono tra il 1874 e il 1885.

Atto I. Prima scena. In una stanza del palazzo reale, i cortigiani preparano un ricevimento per il re che sta tornando da un viaggio nelle sue province. Dopo il suo arrivo viene lasciato solo per un momento e discute con i suoi consiglieri le eccellenze del viaggio, vedendo che il suo paese è prospero e felice, ma mostra la sua noia e propone di fare un viaggio in incognito, per divertirsi. I consiglieri sono in preda al panico, perché se parte per il viaggio, scoprirà che tutto ciò che ha visto è una farsa, il paese è mal gestito, la marina e l’esercito sono sull’orlo della rivolta, le tasse sono alte e i contadini chiedono a gran voce una rivoluzione. Così escogitano un piano: uno dei consiglieri accompagnerà il re, mentre un altro prenderà il comando e distribuirà denaro ai villaggi che attraversano, in modo che siano sempre in festa. Il re, vestito da pastore, parte con il generale. Seconda scena. Nella piazza di un villaggio, i contadini si ribellano e chiedono a gran voce al sindaco di parlare con il governatore, poiché non sono in grado di pagare le tasse e le imposte sono in continuo aumento; il sindaco cerca di calmare la gente e promette di parlare con il governatore. Un uomo con un mantello arriva ed entra nel municipio pronto a parlare con il sindaco. Il re e il generale arrivano in città, e si fermano alla locanda, dove sono assistiti da Jeremías, nipote del sindaco e cugino di Rosa, anche lei nipote del sindaco, di cui Jeremías è innamorato, ma lei non lo ricambia. In quel momento, Rosa entra e il re è colpito dalla sua bellezza, e si impegnano in una vivace conversazione, provocando la gelosia di Jeremías. Il sindaco esce dal municipio proclamando una festa e, accompagnato da tutti gli abitanti del villaggio, prepara un grande ballo. La danza viene interrotta quando arrivano le truppe in cerca di reclute per il reggimento. Portano via Jeremías, il re e il generale, lasciando Rosa preoccupata per il re.
Atto II. Terza scena. Nel cortile di un castello, il re e il generale si esercitano con le altre reclute. Il re è contento della sua situazione, mentre il generale continua a lamentarsi. Il sindaco arriva con Rosa, per vedere Jeremías, ma questo è solo un pretesto che Rosa ha creato per poter rivedere il re. I due si incontrano da soli e fuggono dal castello. A questo punto, l’allarme si alza, perché un uomo mascherato riferisce la vera identità della recluta, che è il Re. Quarta scena. Nel cortile di una fattoria, Juan e Maria, i padroni, stanno preparando la casa per i contadini che hanno assunto per il raccolto. Arriva un vivace gruppo di mietitori, tra cui il Re e Rosa, che si fingono anche loro mietitori. Dopo cena, i braccianti mettono le donne in cucina e gli uomini nel fienile sopra la casa, e lasciano libero il cane. Jeremiah, che è scappato anche lui per seguire sua cugina, arriva urlando, con i pantaloni strappati perché il cane lo ha attaccato. Nascondono Jeremías dentro la casa. Presto arrivano le truppe che cercano il re. I contadini lo scambiano per Jeremías, commentando che è stato attaccato dal cane mentre cercava di nascondersi. Temendo che il re abbia preso la rabbia, portano via Jeremías e il cane. Il re se la ride.
Atto III. Quinta scena. Nel giardino del palazzo reale, i paggi commentano l’assenza del re. I ministri commentano lo stato di salute del re e l’attacco del cane, allertando i medici più eminenti per fare la diagnosi. Rosa e Maria arrivano in cerca del bracciante e per avere altre notizie. Sesta scena. In un’anticamera del palazzo, il re chiama uno dei suoi paggi, ordinando che Rosa e Jeremías siano fatti entrare. I due si riconoscono e discutono del loro viaggio e degli eventi. Il re appare nelle sue vesti di gala e Rosa si impressiona a riconoscerlo come il pastore, sentendosi ingannata. Il re si scusa e le mostra il suo vero amore, con lo stupore di Jeremías. Arrivano i suoi consiglieri, con il capitano, che ringrazia per il trasporto, e come ricompensa decide di promuoverlo, purché non dica nulla del travestimento. Settima scena. Nella sala del trono, gli ambasciatori di Scozia e di Russia portano i ritratti di candidate mogli per il re, ma il re le rifiuta e presenta Rosa come sua futura promessa sposa. I consiglieri cercano di opporsi, ma il re viene fuori e dice che o si conformeranno o li licenzierà, e non possono rifiutare e accettare. Quanto a Jeremías, lo promuove e gli offre un posto lontano, dove potrà piangere la perdita di sua cugina. Finiscono tutti a cantare e inneggiare al re.

Ruperto Chapí nasce ad Alicante nel 1851. Entrato nella banda municipale come flautista a nove anni, a dodici compone la sua prima zarzuela: Estrella del bosque. Al Conservatorio di Madrid vince il primo premio nel 1872 assieme a Tomás Bretón e dopo la composizione de La hija de Jephté per il Teatro Real parte per Parigi e Roma per ampliare la sua formazione. Al ritorno in Spagna nel 1878 si concentra nella composizione di zarzuelas grandes quali La revoltosa (1897). Compone anche per il género chico e per la musica da camera fino alla morte nel 1909.

Nelle parole di Iván López-Reynoso, il giovane direttore musicale di questa produzione, «la partitura di El Rey que rabió del maestro Chapí è senza dubbio uno dei capolavori del repertorio lirico spagnolo. È una partitura agile, espressiva, raffinata e colorata. L’uso giudizioso della teatralità nella scrittura musicale fa sì che l’azione drammatica corrisponda molto bene al discorso musicale. È un’opera a tutto tondo, completa, contrastante e divertente che, grazie a tutte queste caratteristiche, riesce sempre a diventare un successo molto amato dal pubblico. Così, il nostro Re è venuto a stare con noi, di generazione in generazione, per 130 anni». Da allora, la sua parodia delle classi sociali, in particolare del governo o dei medici, è diventata proverbiale in Spagna. La direzione di Iván López Reynoso realizza la trasparenza tipica della orchestrazione di Chapí evidenziata nel bellissimo notturno strumentale del secondo atto.

Un solenne preludio in forma di marcia ci introduce in un regno fantasiosamente ricreato dalla regista Bárbara Lluch dove il monarca dorme in un letto a forma di corona attorniato dai cortigiani. Inizia con questo ironico lever du roi questa comica vicenda sviluppata in 19 numeri musicali, per lo più ensemble di più voci, due sole sono le arie solistiche e destinate ai due personaggi principali: la arieta di Rosa all’inizio del secondo atto dopo il preludio strumentale e la romanza del re del terzo atto. Chapí non fa direttamente ricorso a temi iberici, piuttosto si sente l’influenza dell’operetta francese e di quella viennese, riviste però in termini molto personali.

La regista piuttosto che spingere sul pedale della parodia sociale punta sul clima fiabesco nelle scenografie di Juan Guillermo Nova inserite in una cornice dorata e nei costumi di Clara Peluffo Valentini che dota i personaggi di code, corna, orecchie asinine alludendo così alle favole classiche. La recitazione è spesso caricata ma efficace in mano a interpreti che sono anche ottimi attori. Parrucche e costumi coloratissimi danno un tono quasi surreale a questa produzione che si stacca nettamente dalle impostazioni realiste di molti spettacoli del Teatro de la Zarzuela, per lo meno del passato.

Il ruolo del re del titolo è stato spesso tenuto da un soprano en travesti nelle ultime edizioni, qui è invece il tenore Enrique Ferrer di bella presenza ma dall’emissione molto aperta e sempre forte. Al contrario, non molto sonora è la voce del soprano Rocío Ignacio, una Rosa comunque di temperamento. Dei consiglieri del re quello più impegnato vocalmente è il generale di Rubén Amoretti in giusto equilibrio tra esigenze del canto ed esigenze recitative. Ruolo eminentemente comico è invece quello di Jeremías, dove il tenore José Manuel Zapata calca un po’ la mano nella recitazione ma vocalmente si distingue      nel quasi parlato del suo divertente racconto del secondo atto.

Il diario di Anna Frank

 

foto Andrea Macchia © Teatro Regio Torino

Grigorij Frid, Il diario di Anna Frank

Torino, Teatro Regio, 27 gennaio 2022

Il dovere di ricordare

Come previsto il Regio di Torino riapre puntualmente dopo la prima fase di lavori che hanno rimesso a nuovo le strutture del palcoscenico, e lo fa per una importante occasione: la celebrazione del Giorno della Memoria.

Con il patrocinio della Comunità Ebraica di Torino e nell’ambito delle manifestazioni realizzate in collaborazione con il Comune e il Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra e dei Diritti e della Libertà, il teatro mette in scena Il diario di Anna Frank, un monodramma in due parti che Grigorij Frid (1915-2012) ha completato nel 1969 e che nei suoi ultimi anni di vita è stato il lavoro di un compositore vivente più rappresentato al mondo. Eseguito nel 1972 con il solo pianoforte, ha poi conosciuto una versione per tre strumentisti, poi nove e infine 27, quella che viene ora presentata nell’adattamento musicale di Eddi De Nadai e con la traduzione del testo in italiano di Rino Alessi.

Compositore e grande divulgatore, Frid ha diretto il Club di Musica dei Giovani di Mosca presentando le opere di Sofia Gubaidulina, Edison Denisov and Alfred Schnittke e si è anche fatto conoscere come rinomato pittore. Il diario di Anna Frank è la prima delle sue due opere da camera, l’altra essendo Le lettere di Van Gogh (1975) e in entrambi i casi ne ha scritto anche i testi.

Due concerti, tre sinfonie, due cicli di musica vocale, numerose composizioni da camera e anche musica per film e trasmissioni radiofoniche sono tra i lavori di un compositore il cui stile è mutato nel tempo: dai primi lavori improntati al realismo socialista, a 55 anni si è convertito alla dodecafonia e, anche se in maniera non rigorosa, in questo suo monodramma affiora una serie di dodici suoni in un impianto complessivamente atonale che però non rinuncia alla melodia, una in particolare, bellissima, che viene annunciata all’inizio della seconda parte per poi ritornare nell’ultimo intervento vocale dell’unica interprete. Nel corso della rappresentazione ascolteremo anche un nostalgico richiamo a un valzer, uno al jazz e c’è pure un momento di quasi aleatorietà, quando nel finale agli strumentisti è dato di scegliere la lunghezza delle note in un fragoroso pieno orchestrale. L’ensemble strumentale si compone di una cospicua parte di strumenti a fiato, percussioni, pianoforte e celesta. Gli archi – in numero di 5 violini, 4 viole, 3 violoncelli e 2 contrabbassi – suonano in stile cameristico, quasi solisticamente.

I cinquanta minuti di musica si suddividono in una serie di scene che iniziano con tono gaio, quando per il suo tredicesimo compleanno, il 12 giugno 1942, Annelies Marie Frank riceve come dono un diario, che diventa il suo compagno inseparabile nella autoreclusione, soltanto un mese dopo, in un rifugio segreto – unica scelta per sopravvivere ai rastrellamenti della Gestapo nella città di Amsterdam dove la famiglia Frank si era trasferita da Francoforte nel ’33 per sfuggire alle leggi razziali dei nazisti che però avrebbero occupato i Paesi Bassi nel maggio 1940.

La musica di Frid evoca con grande sensibilità ed efficacia l’atmosfera claustrofobica del rifugio, la quotidianità e i primi trasalimenti amorosi della giovane, la nostalgia per la natura e la libertà spiata dal sottotetto in cui si rifugia assieme a Peter, il figlio dell’altra famiglia coabitante.

Alla guida dell’orchestra del teatro Giulio Laguzzi realizza la partitura con precisione e sensibilità, seguendo le intermittenze psicologiche di un personaggio che trova una intensa partecipazione in Shira Patchornik, la vincitrice la scorsa estate a Innsbruck del concorso Cesti di musica barocca. L’impegnativo compito di essere sempre presente vocalmente in scena non è un problema per il giovane soprano israeliano la cui immedesimazione con Anna Frank è totale, ma ciò non le impedisce di evidenziare la sua personalità, un timbro fresco e una notevole padronanza delle esigenze di una parte che utilizza tutte le forme espressive – declamato, parlato, canto melodico, recitativo – per delineare una figura di cui abbiamo tutti in mente l’immagine che passa dall’ingenuità dell’infanzia alla consapevolezza del destino di morte di cui nella musica è solo fatto un accenno nel finale: un forte in orchestra rappresenta il momento in cui il rifugio viene scoperto e prima che la Gestapo faccia irruzione nell’ambiente. Subito dopo un tragico silenzio ci lascia con l’angoscia di quello che sappiamo essere avvenuto: le flebili speranze appese agli annunci radiofonici dell’avanzata dei Russi, o al risveglio di quel brandello di natura golosamente spiato, tutto crolla quel 4 agosto 1944 quando la famiglia viene arrestata: trasferita in un campo di concentramento, Anna morirà assieme alla sorella Margot nel campo di Bergen-Belsen tre mesi dopo.

La messa in scena di Anna Maria Bruzzese ambienta la vicenda dentro il diario stesso: nella scenografia di Claudia Boasso, dietro un velario su cui sono proiettate le frasi del libro e la scrittura autografa della ragazza, vediamo la sua camera, un lettino e un tavolino a destra, una libreria a sinistra. Quello che colpisce è la mancanza di finestre, ma sullo sfondo le proiezioni di Controluce Teatro d’Ombre ci fanno intravedere delle immagini, spesso inquietanti, dell’esterno o degli incubi di Anna, come quando vediamo le torce elettriche di quelli che si avvicinano minacciosamente al rifugio la prima volta. La regia è molto lineare e ben definisce la figura del personaggio qui vestito da Laura Viglione. Alcuni tocchi visivi impreziosiscono la rappresentazione, come le foglie che cadono dall’alto per segnare il lento trascorrere del tempo, foglie che alla fine diventano le pagine del diario che si spargono sul pavimento dell’appartamento ormai vuoto mentre  sul fondo si proietta l’immagine di Anna che ruota felice con la sua gonna di tulle. In un’altra dimensione forse ha trovato la felicità nella libertà.

Gli applausi hanno spezzato la forte, palpabile emozione che ha provato il folto pubblico di questa sobria “inaugurazione” della stagione. Molti gli allievi delle scuole presenti. Loro hanno bisogno di conoscere, tutti noi di non dimenticare.

Prima dello spettacolo la regista ha letto questa lettera della senatrice Liliana Segre: «Saluto tutti i partecipanti alla rappresentazione de Il diario di Anna Frank, opera di Grigorij Frid dal diario di Anne. Bene ha fatto il Teatro Regio di Torino a programmare l’esecuzione dell’opera, anche in diretta radiofonica, in occasione del Giorno della Memoria 2022, perché il Diario di Anne è veramente l’opera per antonomasia della Shoah. Di testimonianze, scritte e orali, ne furono prodotte molte, non solo dopo il 1945, ma persino durante la detenzione, da parte di scrittori, poeti, musicisti. Nessuna ha però l’impatto emotivo del Diario di Anne. Si tratta infatti di una narrazione in presa diretta delle paure, delle pene, ma anche delle speranze e dei sogni di un’adolescente nei due lunghi anni trascorsi a nascondersi prima di essere scoperta e destinata a morte, con la sua famiglia, nel campo di Bergen-Belsen. Le angosce e le pene di quell’adolescente furono anche le mie, per questo è con particolare commozione e partecipazione che mi accingo a seguire questa rappresentazione. Un sentito ringraziamento al Teatro Regio di Torino e a tutti coloro che hanno reso possibile un evento simile».

El caserío

Jesús Guridi, El caserío

★★★★☆

Madrid, Teatro de la Zarzuela, 17 ottobre 2019

(video streaming)

Amori in famiglia

“Comedia lírica” in tre atti su libretto di Federico Romero e Guillermo Fernández-Shaw, El caserío (La cascina) nacque al Teatro de la Zarzuela di Madrid l’11 novembre 1926. Si trattava del suo primo approccio al genere e si rivelerà uno dei lavori più importanti del compositore basco Jesús Guridi (1886-1961). Una zarzuela piena di suadenti melodie attinte dal folclore basco e che ebbe molto successo, tanto che il compositore con i diritti guadagnati si potè comprare una casa in campagna che chiamò “Sasibil”, proprio come il caserío fulcro della vicenda. Guridi non tornò più alla composizione di opere serie, ma El caserío rimase il suo unico successo.

Atto primo. Nel villaggio di Arrigorri, in Biscaglia. Santi, indiano, scapolo e sindaco del villaggio, vive nella cascina di famiglia chiamata Sasibil. Vivono con lui i due nipoti, cugini tra loro: Ana Mari, figlia di suo fratello e della donna di cui Santi era innamorato ma che non ha potuto sposare perché è dovuto emigrare in America, e José Miguel, un giovane giocatore di pelota basca che pensa solo a vivere la vita finché è giovane. La cascina, il cuore della famiglia basca, deve rimanere intatta in seno alla famiglia e per questo Santi vede come ideale il matrimonio tra i suoi nipoti, che garantirebbe questa premessa di trasmissione del patrimonio e la felicità di entrambi. Ma l’atteggiamento di José Miguel gli fa pensare che userebbe l’eredità per continuare il suo divertimento, lasciando la tenuta e Ana Mari in rovina. Il prete, uno dei poteri del villaggio insieme al sindaco, gli consiglia di portare avanti la strategia di annunciare il proprio matrimonio affinché José Miguel si decida di mettere la testa a posto o di lasciare il villaggio senza poter ereditare. Ana Mari è innamorata di suo cugino José Miguel, ma lui non le presta attenzione preso com’è dalla sua passione. Questo storia si incrocia con l’amore che Txomin, il servo della fattoria, prova per Ana Mari, un amore quasi impossibile, e con quello che la figlia dell’oste, Inocencia, prova invece per il giovane Txomin. L’ostessa, Eustasia, è una matriarca che mantiene l’organizzazione della casa e della taverna. In contrasto con l’atteggiamento del marito Manu, vede l’opportunità, quando Santi annuncia il suo matrimonio, di imparentarsi con il sindaco facendo diventare sua figlia la sposa, cosa che Inocencia non vuole essendo innamorata di Txomin.
Atto secondo. Ana Mari, sapendo che José Miguel cercherà di interrompere qualsiasi tentativo di sposare suo zio, si offre come sua moglie. Entrambi sono consapevoli del sacrificio che questo implica, ossia la giovinezza di Ana Mari, in cambio della certezza di una vita comoda e di mantenere il ricordo dell’amore che Santi provava per la madre di Ana Mari. José Miguel apprende come stanno le cose durante un duello canoro con Txomil e lascia il villaggio.
Atto terzo. Santi ritarda il matrimonio nella speranza che José Miguel ritorni per Ana Mari, ma quando questo non accade, lo annuncia. L’annuncio provoca il ritorno di José Miguel e la sua dichiarazione ad Ana Mari. Santi gli rimprovera di volerla solo per i suoi soldi e José Miguel nega questo e rifiuta l’eredità. Santi, di fronte a questo atto, lo accetta e benedice felicemente l’amore tra i suoi nipoti, felice di aver raggiunto il suo obiettivo.

Il Teatro de la Zarzuela di Madrid non ha il suo punto forte in messe in scene di gusto contemporaneo e questa produzione del 2011 dei teatri Arriaga di Bilbao e Campoamor di Oviedo che inaugura la sua stagione non è un’eccezione, anche se le scenografie di Daniel Bianco accennano con efficace realismo all’ambiente rurale del villaggio basco in cui si sviluppa la vicenda dove coerenti a questa impostazione veristica sono anche i costumi di Jesús Ruiz. Qualcosa di più attuale si può trovare nella regia di Pablo Viar, vivace e attenta alla psicologia dei personaggi, con un giusto movimento delle masse – bello il momento del corale religioso con la banda in scena – mentre i quadri sono ironicamente punteggiati dai saltellanti numeri del gruppo folclorico Aukeran Dantza Kompainia coreografato da Eduardo Muruamendiaraz.

Sfrondata in maniera consistente dei lunghi dialoghi, l’esecuzione musicale scorre molto piacevolmente sotto la bacchetta di Juanjo Mena, la strumentazione mette brillantemente in evidenza il colore locale e le linee melodiche, di chiara scuola italiana, si fondono abilmente con quelle delle danze iberiche. Una partitura ricca e varia è al servizio di una storia semplice ma convincente. Spigliati nella recitazione e vocalmente efficaci gli interpreti di cui ricordiamo almeno il Tio Santi del baritono Ángel Ódena, la Ana Mari del soprano Raquel Lojendio, il José Miguel del tenore Andeka Gorrotxategi e lo Txomin del tenore leggero Pablo García-López. Quasi sempre presente in scena, il coro del teatro preparato da Antonio Faurò ha fornito un’ottima prova.

Lo streaming fa parte delle registrazioni dei suoi spettacoli che il Teatro de la Zarzuela ha messo a disposizione sul canale youtube.

Les Vêpres siciliennes

Giuseppe Verdi, Les Vêpres siciliennes

Palermo, Teatro Massimo, 20 gennaio 2022

★★★☆☆

(diretta streaming)

Siciliani al cubo i Vespri antimafia di Emma Dante

Siciliana la vicenda, siciliano il luogo di rappresentazione, siciliana la regista: Les Vêpres siciliennes inaugurano la stagione del Massimo di Palermo nel trentennale delle stragi di mafia e venticinque anni dopo la riapertura del teatro. Una forte messa in scena esalta la «beauté qu’on outrage» della città dell’ex conca d’oro: è la Palermo di oggi a fare da sfondo alle vicende che nel 1282 videro i palermitani rivoltarsi contro gli allora oppressori francesi. Oggi è la stessa città che si rivolta contro l’oppressione della mafia: Hélène porta un drappo con l’effigie di Paolo Borsellino invece del fratello e a questo si aggiungono in processione quelle dei santi laici che si sono opposti e sono caduti: Giovanni Falcone, Peppino Impastato e le tante altre vittime. L’aveva già fatto Davide Livermore nel 2011.

Durante la sinfonia una carrettata di pupi viene scaricata sul proscenio. Inerti, prendono poi vita prima che il sipario si apra sulla Fontana Pretoria (la scenografia è al solito affidata a Carmine Maringola) di cui occupano la scalinata con i loro movimenti da burattini, per poi finire agonizzanti tra i rifiuti che ne lordano la bellezza marmorea. Una ballerina sulle punte esegue il primo ballabile nel poco spazio lasciato libero da sacchi neri e oggetti abbandonati. I divertissement sono infatti distribuiti nei vari atti e ognuno è una denuncia contro la presenza e l’attività delle cosche. Dall’alto, assieme alla barca che porta Procida scendono anche le lapidi con i nomi delle strade e delle piazze che sono state il palcoscenico delle tante stragi mafiose. Immagini particolarmente forti e piene di significato qui nel capoluogo siciliano.

Ben venga che Emma Dante intrida il grand-opéra di sicilianità (o meglio palermitudine) riempiendo il palcoscenico di figure iconiche – teste in terracotta di Caltagirone, coppole, santa Rosalia, la barca “Rosalia” sospesa in aria, reti per la mattanza dei tonni che qui servono per lo sterminio degli invasori francesi alias mafiosi – e le prevedibili autocitazioni – donne che spargono acqua con i capelli, spose chiuse in sacchi neri di plastica, stuprate, tarantolate – ma manca una lettura psicologica dei personaggi e una cura attoriale degli stessi. “Particolari” i costumi di Vanessa Sannino con i siciliani in gonna e camicie di pizzo, Guy de Monfort come vestito da Versace, i guappi in tute di acrilico.

Omer Meir-Wellber, che aveva diretto l’opera a Monaco di Baviera nel 2018, attuale direttore musicale del Teatro Massimo, approccia con molto vigore la sinfonia, poi la sua direzione diventa un po’ incerta, oscillando tra il Verdi infuocato della trilogia popolare e il grand’opéra. Soprattutto accetta molti tagli, anche nei ballabili sparsi tra i vari atti e sfoltiti dell’Inverno, con l’Autunno trascritto per un trio di gusto klezmer formato da clarinetto, fisarmonica e contrabbasso, la Primavera ridotta al solo andante e anche l’Estate, eseguita nel punto previsto dalla partitura però accorciata. Il quartetto di solisti ha la sua punta più convincente nel Monfort del baritono Mattia Oliveri autorevole vocalmente e scenicamente. Anche Selene Zanetti, a parte un certo vibrato, sostiene lodevolmente e con temperamento l’impegnativa parte di Hélène. Erwin Schrott (Procida) sostituisce all’ultimo momento il basso Luca Tittoto indisposto con ottimi risultati e senza scadere nell’eccesso di gigioneria sempre in agguato con questo interprete. Deludente invece la performance del tenore Leonardo Caimi. Omogenea e di buon livello la folta schiera dei comprimari di cui ricordiamo almeno Carlotta Vichi (Ninetta), Matteo Mezzaro (Thibault) e Francesco Pittari (Danieli). Ottimo lavoro anche quello del coro diretto da Ciro Visco. Oltre ai ballerini del corpo di ballo del teatro coreografati da Manuela lo Sicco, sono in scena gli efficaci attori della Compagnia Sud Costa Occidentale.

Alcuni prevedibili dissensi sono stati coperti dai folti applausi del pubblico. Lo spettacolo è co-prodotto col Teatro San Carlo di Napoli, il Comunale di Bologna e il Real di Madrid, ma questo era il posto giusto per vederlo.

 

Káťa Kabanová

foto © Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma 2022

Leoš Janáček, Káťa Kabanová

★★★★☆

Rome, Teatro dell’Opera, 21 janvier 2022

 Qui la versione italiana

Leoš Janáček, un compositeur trop rare à Rome

Leoš Janáček meurt en 1928. Cette même année, le théâtre Costanzi (l’Opéra de Rome), rénové, agrandi et doté d’une nouvelle façade, rouvrait ses portes. Les programmations du compositeur morave à l’Opéra de la capitale italienne sont extrêmement sporadiques : Jenůfa reste le seul titre mis à l’affiche durant cette période, avec trois représentations en 1952 et cinq en 1976. La production londonienne de 2019 compense partiellement cette absence regrettable de l’un des plus grands compositeurs du XXsiècle. Pour marquer l’occasion, le foyer du premier étage abrite une belle collection de portraits photographiques de Janáček.

la suite sur premiereloge-opera.com

Káťa Kabanová

foto © Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma 2022

Leoš Janáček, Káťa Kabanová

Roma, Teatro dell’Opera, 21 gennaio 2022

★★★★☆

bandiera francese.jpg Ici la version française

A cent’anni di distanza Káťa Kabanová è a Roma, finalmente.

Nel 1928 muore Leoš Janáček. Quello stesso anno viene riaperto – ristrutturato, ampliato e con una nuova facciata – il Costanzi, ossia l’Opera di Roma.

Estremamente sporadiche sono state le presenze del compositore moravo nel teatro lirico della capitale: Jenůfa è stato l’unico titolo in cartellone in tutto questo periodo, con tre recite nel 1952 e cinque nel 1976. A rimediare parzialmente a questa deplorevole assenza di uno dei massimi compositori del Novecento, viene ora questa produzione londinese del 2019. Per l’occasione il foyer del primo piano ospita una bella raccolta di ritratti fotografici di Janáček.

Basata sul dramma di Aleksandr Ostrovskij (L’uragano, 1859), Kát’a Kabanová mette in scena una figura femminile dell’Ottocento che, come l’omonima Katerina Izmailova di Nikolaj Leskov (Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, 1865), trova nuova vita tramite due compositori del Novecento, Janáček e Šostakovič rispettivamente. In entrambi i casi una moglie insoddisfatta è gettata nelle braccia di un amante a causa della suocera o del suocero, ma per Kát’a (Katěrina) con in più un enorme senso di colpa che la porterà al suicidio. Un altro tema presente nel dramma di Ostrovskij, e ripreso fedelmente nel libretto di Janáček, è quello del contrasto fra scienza e superstizione, tra una mentalità innovativa e una arretrata. L’uragano del titolo – che meglio sarebbe tradurre semplicemente come temporale (in ceco bouře, in russo гроза) – è spiegato scientificamente da Kudrjaš: i fulmini sono un fenomeno elettrico da cui ci si può salvare coi parafulmini, mentre per Dikoj sono il castigo divino per i nostri peccati. Ovviamente il temporale è anche un segno dell’animo tormentato di Kát’a che infatti, dopo l’inconcludente dialogo con l’amato Boris, non trova altra soluzione che gettarsi nel fiume Volga.

Ponte tra le ancora tradizionali Šárka, Jenůfa, Destino e le decisamente più moderne La piccola volpe astutaL’affare Makropulos, Da una casa di morti, la musica di Káťa Kabanová è caratterizzata da quella ansiosa sbrigatività fatta di melodie concise, aforistiche, che formano quell’«alfabeto Morse dell’inconscio», come è stato definito, che sta all’opposto del declamato operistico a cui siamo abituati. Difficilmente due personaggi cantano insieme, come non avviene infatti nella realtà del parlato, e l’irregolarità di accenti e durate degli spunti melodici è quella della lingua ceca. Tutto è ben chiaro nella lettura di David Robertson, ex direttore assieme a Pierre Boulez dell’Ensemble InterContemporain, che realizza perfettamente quelle «melodie del parlato» modulate sulla voce nei ritmi ascendenti e discendenti della conversazione naturale. La versione che utilizza è quella originale, depurata da Charles Mackerras dei ritocchi introdotti successivamente per “correggere” la strumentazione di Janáček, considerata troppo scarna. Quasi «un grande collettivo di musica da camera» la definisce Robertson, che mette a nudo i gesti musicali e i colori di una partitura che fin dalle prime quattro note dei timpani accompagnati da tromboni e tuba fornisce il tono cupo e inquietante in cui si svilupperà la vicenda.

Non facile è la concertazione delle voci di quest’opera: ogni personaggio è contraddistinto da uno stile vocale suo proprio, ma il direttore americano e gli interpreti in scena riescono egregiamente nell’impresa. Ecco quindi l’agitata irascibilità di Dikoj restituita dal temperamento di Stephen Richardson; il languore amoroso di Boris si ritrova nel timbro limpido, nella sensibilità e nei suoni sfumati di Charles Workman; l’inettitudine di Tichon, totalmente sottomesso alla madre, è rappresentata con chiarezza da Julian Hubbard; i due amici Kudrjaš e Kuligin sono efficacemente delineati da Sam Furness e Lukáš Zeman rispettivamente.

E poi ci sono le donne. Tre donne che esemplificano tre diversi approcci alla vita. Kát’a, il cui ritratto da bambina campeggia sul sipario, ci viene presentata in un lieve alone di spiritualità con le sue estasi in chiesa, il suo amore per i volatili – e Janáček, ben prima di Messiaen, li fa cantare sobriamente ma chiaramente in orchestra, quasi trasfigurati – prima di mostrarcela combattere fortemente contro il peccato di adulterio, nonostante il suo amore per il marito, amore considerato osceno dalla possessiva suocera (nella regia di Richard Jones lei cerca fino all’ultimo di salire sull’auto del marito che parte per lasciarla sola in preda alla tentazione). Tutto questo deve essere interpretato da una cantante che mantenga un difficile equilibrio senza cadere negli eccessi espressivi e questo riesce perfettamente al soprano americano Corinne Winters, che passa con naturalezza dal tono quasi infantile a quello lirico e infine drammatico della parabola terrena di Kát’a. La voce ha la giusta freddezza quando deve ribadire alle assurde accuse della suocera, per poi mostrare il tono febbrilmente amoroso di chi si aggrappa all’uomo il cui amore dà significato alla sua esistenza.

Non rassegnata a cedere il suo ruolo è la madre del marito, Marfa Ignatěvna Kabanová, che vede nell’amore della nuora per il figlio una perdita del suo affetto ma anche della sua autorità sull’uomo. Come la Kostelnička di Jenůfa, anche la Kabanicha – così è chiamata nel libretto – è una possente figura del teatro operistico del Novecento e deve saper dosare temperamento e glacialità. Il mezzosoprano inglese Susan Bickley riesce nell’impresa con una vocalità autorevole e giusta presenza scenica. E infine c’è Varvara, la ragazza libera e spregiudicata, che ha il coraggio di abbandonare quell’ambiente opprimente per fuggire col suo Kudrjaš a Mosca, «verso una nuova vita felice!». E Carolyn Sproule riesce a infondere a questo personaggio quello slancio giovanile e vitale che manca a tutti gli altri. Tra i restanti interpreti si sono fatte notare Angela Schisano (Fekluša) e Sara Rocchi (Glaša), diplomate della “Fabbrica”, il Programma Giovani Artisti dell’Opera di Roma, due italiane in un cast internazionale le quali non si sono lasciate intimorire dalla difficile dizione della lingua di Janáček.

L’impianto scenografico di Antony McDonald (che disegna anche i costumi) consiste in una grande scatola lignea chiusa in cui si inserisce un elemento scenografico che forma l’interno borghese dei Kabanov (l’ambientazione è quella degli anni ’70 del secolo scorso). Ruotato su sé stesso diventa la casa vista dall’esterno, ossia dal giardino del secondo atto in cui si consuma l’incontro delle due coppie di amanti e dove un triste lampione illumina la scena occupata da una panchina. Il vecchio palazzo semidistrutto in cui si rifugiano quelli sorpresi dal temporale nel terzo atto qui diventa la pensilina di una fermata d’autobus e il fiume Volga verso cui lanciano le loro canne da pesca i giovani del villaggio è il golfo mistico. Le acque del fiume che inghiottono la sventurata nel fulmineo finale sono gli stessi abitanti che prima ignorano e poi condannano il suo comportamento («perché mi trattano così? Dicono che un tempo per le donne come me c’era la condanna a morte…») e che ora la travolgono come un’ondata di piena. Complesso il gioco luci di Lucy Carter, ma non perfettamente realizzato in alcuni momenti dello spettacolo. La lettura di Jones è apprezzabile quando sottolinea la diversità tra la ragazza e l’ambiente che la circonda, ma non è del tutto convincente nel finale: per tutto lo spettacolo il nervoso andirivieni dei passanti e di un ciclista hanno punteggiato l’azione e solo alla fine tutti lasciano finalmente il palcoscenico con il cadavere di Kát’a per terra su cui si curva il marito (ma il libretto dice invece che «parte agitato»), mentre la suocera da un lato è chiusa, forse, nel rimorso. Per lo meno così sembra dall’espressione di Susan Bickley, ma le sue ultime parole non lo facevano affatto intendere.


Il volto di Vivaldi

Federico Maria Sardelli, Il volto di Vivaldi

292 pagine, Sellerio, 2021

Personaggio dal genio multiforme quello di Federico Maria Sardelli: oltre che musicologo, compositore, solista, direttore d’orchestra, saggista e autore satirico è anche pittore. Tutti questi talenti sono messi a frutto in quest’ultimo contributo alla conoscenza di Antonio Vivaldi fornita da chi ha dedicato tanto tempo allo studio del Prete Rosso.

Il tema della figura del compositore è un pretesto per fare il punto su un aspetto non marginale della conoscenza del musicista che dopo la morte è stato crudelmente dimenticato – e lo sarebbe ancora oggi senza le fortuite e rocambolesche circostanze che hanno portato alla luce i suoi manoscritti, una vicenda che è stata oggetto del precedente saggio di Sardelli L’affare Vivaldi.

Con un linguaggio ricercato (i termini dimestico, flebillime non si incontrano tutti i giorni…) ma estremamente scorrevole e spesso ironico, e uno studio rigorosissimo dei materiali e delle fonti,  Sardelli ci consegna una storia avvincente che prende in esame i ritratti più o meno giustamente attribuiti al veneziano. Delle poche testimonianze iconografiche, ancora meno sono quelle certe e quelle coeve e originali sono essenzialmente soltanto due: il ritratto ad olio anonimo di Bologna (proveniente dalla collezione del Padre Martini) del 1710 e la caricatura del Ghezzi del 1723. Da queste derivano tutte le altre rappresentazioni, per lo più incisioni, del volto sorridente di Vivaldi. Un caso a parte è costituito dall’affresco del Tiepolo della Chiesa della Pietà dove si scorge un mezzo volto spuntare dietro uno degli angeli musicanti dell’Incoronazione della Vergine – probabile omaggio alla sua memoria da parte delle allieve dell’Ospedale della Pietà. È il particolare effigiato sulla copertina del libro.

L’ultimo capitolo riguarda le reinterpretazioni moderne di alcuni famosi caricaturisti tra cui si inserisce Sardelli stesso che, partendo dal disegno del Ghezzi, propone un’immagine a colori del profilo del compositore di estrema vivezza. E questo forse è il ritratto più vivido e probabilmente più somigliante. Il fatto poi che non sia molto diverso dall’autoritratto di Sardelli stesso la dice lunga sul coinvolgimento dell’autore del libro nella vicenda.