Káťa Kabanová

foto © Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma 2022

Leoš Janáček, Káťa Kabanová

Roma, Teatro dell’Opera, 21 gennaio 2022

★★★★☆

bandiera francese.jpg Ici la version française

A cent’anni di distanza Káťa Kabanová è a Roma, finalmente.

Nel 1928 muore Leoš Janáček. Quello stesso anno viene riaperto – ristrutturato, ampliato e con una nuova facciata – il Costanzi, ossia l’Opera di Roma.

Estremamente sporadiche sono state le presenze del compositore moravo nel teatro lirico della capitale: Jenůfa è stato l’unico titolo in cartellone in tutto questo periodo, con tre recite nel 1952 e cinque nel 1976. A rimediare parzialmente a questa deplorevole assenza di uno dei massimi compositori del Novecento, viene ora questa produzione londinese del 2019. Per l’occasione il foyer del primo piano ospita una bella raccolta di ritratti fotografici di Janáček.

Basata sul dramma di Aleksandr Ostrovskij (L’uragano, 1859), Kát’a Kabanová mette in scena una figura femminile dell’Ottocento che, come l’omonima Katerina Izmailova di Nikolaj Leskov (Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, 1865), trova nuova vita tramite due compositori del Novecento, Janáček e Šostakovič rispettivamente. In entrambi i casi una moglie insoddisfatta è gettata nelle braccia di un amante a causa della suocera o del suocero, ma per Kát’a (Katěrina) con in più un enorme senso di colpa che la porterà al suicidio. Un altro tema presente nel dramma di Ostrovskij, e ripreso fedelmente nel libretto di Janáček, è quello del contrasto fra scienza e superstizione, tra una mentalità innovativa e una arretrata. L’uragano del titolo – che meglio sarebbe tradurre semplicemente come temporale (in ceco bouře, in russo гроза) – è spiegato scientificamente da Kudrjaš: i fulmini sono un fenomeno elettrico da cui ci si può salvare coi parafulmini, mentre per Dikoj sono il castigo divino per i nostri peccati. Ovviamente il temporale è anche un segno dell’animo tormentato di Kát’a che infatti, dopo l’inconcludente dialogo con l’amato Boris, non trova altra soluzione che gettarsi nel fiume Volga.

Ponte tra le ancora tradizionali Šárka, Jenůfa, Destino e le decisamente più moderne La piccola volpe astutaL’affare Makropulos, Da una casa di morti, la musica di Káťa Kabanová è caratterizzata da quella ansiosa sbrigatività fatta di melodie concise, aforistiche, che formano quell’«alfabeto Morse dell’inconscio», come è stato definito, che sta all’opposto del declamato operistico a cui siamo abituati. Difficilmente due personaggi cantano insieme, come non avviene infatti nella realtà del parlato, e l’irregolarità di accenti e durate degli spunti melodici è quella della lingua ceca. Tutto è ben chiaro nella lettura di David Robertson, ex direttore assieme a Pierre Boulez dell’Ensemble InterContemporain, che realizza perfettamente quelle «melodie del parlato» modulate sulla voce nei ritmi ascendenti e discendenti della conversazione naturale. La versione che utilizza è quella originale, depurata da Charles Mackerras dei ritocchi introdotti successivamente per “correggere” la strumentazione di Janáček, considerata troppo scarna. Quasi «un grande collettivo di musica da camera» la definisce Robertson, che mette a nudo i gesti musicali e i colori di una partitura che fin dalle prime quattro note dei timpani accompagnati da tromboni e tuba fornisce il tono cupo e inquietante in cui si svilupperà la vicenda.

Non facile è la concertazione delle voci di quest’opera: ogni personaggio è contraddistinto da uno stile vocale suo proprio, ma il direttore americano e gli interpreti in scena riescono egregiamente nell’impresa. Ecco quindi l’agitata irascibilità di Dikoj restituita dal temperamento di Stephen Richardson; il languore amoroso di Boris si ritrova nel timbro limpido, nella sensibilità e nei suoni sfumati di Charles Workman; l’inettitudine di Tichon, totalmente sottomesso alla madre, è rappresentata con chiarezza da Julian Hubbard; i due amici Kudrjaš e Kuligin sono efficacemente delineati da Sam Furness e Lukáš Zeman rispettivamente.

E poi ci sono le donne. Tre donne che esemplificano tre diversi approcci alla vita. Kát’a, il cui ritratto da bambina campeggia sul sipario, ci viene presentata in un lieve alone di spiritualità con le sue estasi in chiesa, il suo amore per i volatili – e Janáček, ben prima di Messiaen, li fa cantare sobriamente ma chiaramente in orchestra, quasi trasfigurati – prima di mostrarcela combattere fortemente contro il peccato di adulterio, nonostante il suo amore per il marito, amore considerato osceno dalla possessiva suocera (nella regia di Richard Jones lei cerca fino all’ultimo di salire sull’auto del marito che parte per lasciarla sola in preda alla tentazione). Tutto questo deve essere interpretato da una cantante che mantenga un difficile equilibrio senza cadere negli eccessi espressivi e questo riesce perfettamente al soprano americano Corinne Winters, che passa con naturalezza dal tono quasi infantile a quello lirico e infine drammatico della parabola terrena di Kát’a. La voce ha la giusta freddezza quando deve ribadire alle assurde accuse della suocera, per poi mostrare il tono febbrilmente amoroso di chi si aggrappa all’uomo il cui amore dà significato alla sua esistenza.

Non rassegnata a cedere il suo ruolo è la madre del marito, Marfa Ignatěvna Kabanová, che vede nell’amore della nuora per il figlio una perdita del suo affetto ma anche della sua autorità sull’uomo. Come la Kostelnička di Jenůfa, anche la Kabanicha – così è chiamata nel libretto – è una possente figura del teatro operistico del Novecento e deve saper dosare temperamento e glacialità. Il mezzosoprano inglese Susan Bickley riesce nell’impresa con una vocalità autorevole e giusta presenza scenica. E infine c’è Varvara, la ragazza libera e spregiudicata, che ha il coraggio di abbandonare quell’ambiente opprimente per fuggire col suo Kudrjaš a Mosca, «verso una nuova vita felice!». E Carolyn Sproule riesce a infondere a questo personaggio quello slancio giovanile e vitale che manca a tutti gli altri. Tra i restanti interpreti si sono fatte notare Angela Schisano (Fekluša) e Sara Rocchi (Glaša), diplomate della “Fabbrica”, il Programma Giovani Artisti dell’Opera di Roma, due italiane in un cast internazionale le quali non si sono lasciate intimorire dalla difficile dizione della lingua di Janáček.

L’impianto scenografico di Antony McDonald (che disegna anche i costumi) consiste in una grande scatola lignea chiusa in cui si inserisce un elemento scenografico che forma l’interno borghese dei Kabanov (l’ambientazione è quella degli anni ’70 del secolo scorso). Ruotato su sé stesso diventa la casa vista dall’esterno, ossia dal giardino del secondo atto in cui si consuma l’incontro delle due coppie di amanti e dove un triste lampione illumina la scena occupata da una panchina. Il vecchio palazzo semidistrutto in cui si rifugiano quelli sorpresi dal temporale nel terzo atto qui diventa la pensilina di una fermata d’autobus e il fiume Volga verso cui lanciano le loro canne da pesca i giovani del villaggio è il golfo mistico. Le acque del fiume che inghiottono la sventurata nel fulmineo finale sono gli stessi abitanti che prima ignorano e poi condannano il suo comportamento («perché mi trattano così? Dicono che un tempo per le donne come me c’era la condanna a morte…») e che ora la travolgono come un’ondata di piena. Complesso il gioco luci di Lucy Carter, ma non perfettamente realizzato in alcuni momenti dello spettacolo. La lettura di Jones è apprezzabile quando sottolinea la diversità tra la ragazza e l’ambiente che la circonda, ma non è del tutto convincente nel finale: per tutto lo spettacolo il nervoso andirivieni dei passanti e di un ciclista hanno punteggiato l’azione e solo alla fine tutti lasciano finalmente il palcoscenico con il cadavere di Kát’a per terra su cui si curva il marito (ma il libretto dice invece che «parte agitato»), mentre la suocera da un lato è chiusa, forse, nel rimorso. Per lo meno così sembra dall’espressione di Susan Bickley, ma le sue ultime parole non lo facevano affatto intendere.