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Gioachino Rossini, Ricciardo e Zoraide
★★★☆☆
Pesaro, Adriatic Arena, 11 agosto 2018
(ripresa televisiva)
Tre tenori, zero idee
Se nel 1990 in occasione dell’unica ripresa al Rossini Opera Festival di Pesaro dopo il debutto nel 1818, Michelangelo Zurletti lamentava la «scarsissima presenza di numeri belli» nel Ricciardo e Zoraide di Rossini, ma ne lodava l’allestimento (firmato da Luca Ronconi e Gae Aulenti) definendolo «di gran pregio», cosa dire dell’attuale produzione del ROF a due secoli esatti dalla prima? Che la parte visiva è quella che più lascia sconcertati.
Il libretto di Francesco Berio di Salsa, tratto da un “poema eroicomico” di un secolo prima, non rende facile la comprensione della trama – «O quai vicende s’affollano in un punto» dirà infatti Zomira – e suggerisce al compositore uno schema di opera seria che avrà miglior risultato nella successiva Ermione. Particolarità di questo lavoro è l’utilizzo della musica fuori scena, effetto usato per la prima volta da Rossini. Dopo la sinfonia ritornerà anche nel quadro della prigionia di Zoraide in un curioso dialogo con il coro fuori scena che rimprovera la poveretta senza pietà: «Per tua colpa omai dal trono | Sei discesa in questo loco; | Spegni in te l’impuro foco | E fia spento ogni dolor».
Questo della prigionia non è l’unico momento in cui della Zoraide di Pretty Yende si ammirano le doti vocali – un notevole volume di voce, acuti luminosi, agilità precise e gustose variazioni nelle riprese. Una certa freddezza all’inizio viene spazzata via dalla passione con cui il soprano sudafricano affronta il duetto con Zomira, poi il terzetto con Agorante, ma soprattutto il duetto con Ricciardo. Il quale Ricciardo trova in Juan Diego Flórez, al suo debutto nella parte, l’interprete ideale. Ritornato a un ruolo prettamente belcantistico dopo aver spaziato ultimamente in Gluck, Offenbach, Verdi, il tenore peruviano conferma la classe della sua vocalità che nel frattempo si è irrobustita di un accento quasi eroico, ferme restando la grande espressività e l’eleganza dei suoi recitativi in cui ogni singola parola trova il giusto peso e colore.
Il rivale Agorante, un ruolo da baritenore con escursioni dal do grave al do acuto, ha in Sergey Romanovsky figura aitante e sicura. Il cantante russo esprime il meglio di sé non tanto nei recitativi, quanto nei passaggi d’agilità dove ha dato ottima prova. Anche per lui è un’impresa impossibile dare una parvenza di plausibilià a un personaggio in continuo ondeggiamento psicologico. Il registro grave femminile caratterizza la parte di Zomira, la sposa trascurata e vendicativa, qui una Victoria Yarovaya molto espressiva e che rende con efficacia la non facile aria di sorbetto «Più non sente quest’alma dolente | che la brama di giusta vendetta» del secondo atto. Quasi un deus ex machina è il personaggio di Ircano, la cui breve parte viene affidata a un Nicola Ulivieri in gran forma. Terzo tenore è Ernesto, i cui interventi dalla notevole estensione vengono affidati al giovane e talentuoso Xabier Anduaga che in soli due anni è passato dall’Accademia Rossiniana al palco prestigioso dell’Arena ROF. Ottimi gli altri comprimari e il coro del Teatro Ventidio Basso, compatto e intonato.
I toni scuri dell’estesa sinfonia giocata tra orchestra in buca, quella Sinfonica Nazionale della RAI al suo debutto qui a Pesaro, e banda fuori scena, sono stesi con maestria da Giacomo Sagripanti e la sua mano competente si fa notare nei tanti numeri d’insieme di questo lavoro che assegna una sola aria solistica ai singoli personaggi della storia. La meno fortunata delle opere napoletane di Rossini trova qui il giusto equilibrio di colori e suoni, peccato che manchi una drammaturgia condivisa tra direzione orchestrale e regia.
Sulla lettura di Marshall Pynkoski si propenderebbe a considerare il suo intervento come una ironica presa in giro dell’opera seria ottocentesca, perché non si spiegherebbero in tal modo i gesti convenzionali imposti ai cantanti, le accademiche coreografie della moglie Jeannette Lajeunesse Zingg (sic), il trito espediente della passerella su cui si avventurano i protagonisti negli assoli e nei concertati, i numerosi momenti al limite del ridicolo involontario (?) come la luna piena per il duetto di Ricciardo e Zoraide o il cielo stellato del finale. Ma l’operazione non convince e se si vanno a guardare altri interventi del regista ex-coreografo – come il suo Persée a Toronto o il Lucio Silla alla Scala – si capisce che quella è la sua solita chiave di lettura, oscillante tra kitsch, camp, accademia e rassicurante convenzionalità. Analoga è la confusa babele di costumi disegnati da Michael Gianfrancesco: tinte pastello per gli impeccabili ballerini impegnati negli stucchevoli e invadenti passi di danza, rossa toga cardinalizia (!) per Ernesto, costume da domatore di circo per Agorante, folclore balcanico per il travestimento di Ricciardo, abiti da damine settecentesche per le donne. Per non parlare dell’armatura di Ircano, dei marinaretti sbandieratori e delle solite brache attillate in velluto per gli uomini – le stesse utilizzate nell’allestimento dell’opera di Lully.
I movimenti dei cantanti sono moine da parodia del Settecento, roteare di gonne e inginocchiamenti con la mano sul cuore, il coro viene schierato a gambe larghe in ranghi simmetrici o seduto per terra a fare tappezzeria e a completare il tutto la piatta e oleografica scenografia dipinta di Gerard Gauci in cui con tanta buona volontà qualcuno ha visto un richiamo ai colori dei pittori orientalisti, ma senza averne la profondità.
Se si trattava di una parodistica caricatura bisognava spingere il coraggio più in là e utilizzare una qualche idea, qui del tutto latitante. Alla fine il pubblico non sembra decidersi tra lo sconcerto e la rassicurante convenzionalità dell’allestimento. Come nel film The Producers di Mel Brooks, non sa se ridere o inorridire.
Nessun dubbio invece per gli interpreti, tutti unanimamente e calorosamente festeggiati.
⸪