Modest Čajkovskij

La dama di picche

    

Pëtr Il’ič Čajkovskij, La dama di picche

Monaco, Nationaltheater, 10 febbraio 2024

★★★☆☆

(diretta streaming)

Čajkovskij noir all’Opera di Stato Bavarese

Nero e nebbioso il lavoro di Čajkovskij secondo il regista Benedict Andrews: ambientato nella contemporaneità di un paese che potrebbe essere qualunque paese, è incentrato sull’ossessione per la morte, più che per il gioco, di Hermann, un personaggio dalla pistola facile, che ostenta fin dai primi momenti,  fino a farne lo strumento per il suicidio finale. 

Il regista australiano riduce a pochi oggetti la scena, un vuoto che lo scenografo Rufus Didwiszus fa fatica a riempire con una po’ di nebbiolina e le luci radenti di Jon Clark. Suggestiva la scena del ponte fiancheggiato da lividi lampioni o la camera della contessa, con un impluvium nel mezzo e una porta sul fondo da cui esce una lama di luce dopo la morte della vecchia, come alla fine del secondo atto di Tosca.  Per il resto tanti tavoli da gioco con le croupier tutte uguali a Amy Winehouse. Poco rimane della Russia di Puškin e Čajkovskij, la drammaturgia di Ollaf Roth è contradditoria: una classica gerarchia mafiosa basata sulla violenza e la corruzione, il principe Yeletsky, fidanzato di Lisa, un boss mafioso che governa bische e prostituzione. L’amore distruttivo e mortale tra Lisa e Hermann si sviluppa fatalmente come in un film noir e come frammenti di memoria. L’addio al nubilato di Liza si svolge sui cofani dei radiatori di automobili e invece di un aulico ballo in maschera gli invitati siedono in una tribuna sportiva. Che poi Hermann soffochi nella piscina per bambini una delle sosie della Contessa è una trovata che si aggiunge alle altre poco convincenti del regista.

Per fortuna in scena ci sono dei cantati-attori eccezionali quali Brandon Jovanovich e Asmik Grigorian. Il primo, che riprende la parte cantata a Salisburgo, supplisce con l’intensità dell’interpretazione e una notevole identificazione col personaggio dell’eterno perdente e a una vocalità per lo meno particolare, la seconda ritorna anche lei al personaggio di Liza rendendolo ancora più affascinante con la sua magnetica presenza e fluida vocalità. Meno spettrale del solito, anzi ben solida, è la Contessa di Violeta Urmana mentre piena di grazia e femminilità è la Polina di Victoria Karkačeva. Salutata da un’ovazione del pubblico l’aria del principe Yeletsky di Boris Pinkhasovič. Ricca di colori e livelli di intensità l’esecuzione del giovane Aziz Šokhakimov.

La dama di picche

Pëtr Il’ič Čajkovskij, La dama di picche

★★★☆☆

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 23 settembre 2022

(live streaming)

Quando il contrasto tra quello che si vede e quello che si sente è irrisolvibile

L’ouverture è una lunga introduzione orchestrale a un concerto con pianoforte, ma il pianista si addormenta nell’attesa del suo intervento mentre le tate ascoltano i canti dei bambini dalla radio. Da questo inizio si capisce che il lavoro del dramaturg, qui Lucien Strauch, è stato radicale nella messa in scena del capolavoro del compositore russo. Il lavoro di decostruzione è poco convincente nella realizzazione, così che la musica, quello che sentiamo, risulta in forte contrasto con quello che vediamo, e questo è un elemento che non giova all’opera, soprattutto quando la appassionata e raffinata musica di Čajkovskij si confronta con immagini da socialismo reale in quello che qualcuno ha considerato un vero controsenso.

Ecco ad esempio cosa ha scritto a proposito di questa messa in scena Stéphane Lelièvre: «È la storia di un quartiere un po’ sinistro di una grande città dell’ex Unione Sovietica, popolato da poveracci, barboni e da un’anziana donna un po’ fuori dal mondo in pantofole, vestito verde, calze turchesi troppo grandi che le cadono a metà polpaccio, assidua cliente dell’ipermercato locale – se dobbiamo credere alla grande borsa della spesa di plastica che non la lascia mai. Fortunatamente, per tenere occupate tutte queste persone inattive, un pianista in frac si è insediato al centro del quartiere, tra le torri di cemento e le scale di ferro arrugginito, e di tanto in tanto suona qualche pagina di musica: questo fornisce un po’ di intrattenimento agli abitanti, soprattutto quando, in occasione di una festa organizzata per ammazzare il tempo, il pianista si toglie il frac e si siede al pianoforte vestito come un Cro-Magnon, con indosso una pelle di bestia e in mano una grossa mazza. Per il resto, gli abitanti del quartiere sono piuttosto ossessionati dagli apparecchi radio, che si contendono e ascoltano in continuazione, cercando senza dubbio un modo per sfuggire alla reclusione imposta dalla dittatura in atto e per aprirsi al mondo grazie alle onde corte. È una storia bellissima, ma non è esattamente la storia de La dama di picche. La trasposizione-adattamento di David Marton non getta nuova luce sull’opera, ma dà la spiacevole impressione di porre artificialmente sulle opere di Čajkovskij e di Puškin un discorso che è completamente estraneo ad esse. […] Tuttavia, avremmo potuto aderire più o meno a questa rilettura se la messa in scena avesse proposto scene forti e di grande impatto drammatico. Ahimè, ci è sembrato singolarmente privo di tensione, tranne forse nel duetto finale tra Lisa e Hermann e nell’ultima scena. I passaggi che dovrebbero essere divertenti sono solo irritanti; le scene mimate davanti al sipario chiuso per consentire i cambi di scena tra un atto e l’altro sono di rara indigenza (un personaggio prende un binocolo, osserva l’ultimo palco gridando “Mamma!”. Tre uomini mescolano coscienziosamente vari liquidi per molto tempo prima di riempire tre bicchieri e berli), che opportunamente culmina nella scena presumibilmente più brillante dell’opera – la festa nel terzo quadro del secondo atto – che è stancante perché ci si aspetta che vada sistematicamente contro ciò che il testo e la musica dicono: un personaggio dovrebbe essere solo? È ovviamente collocato in presenza di altri personaggi (la contessa canta la romanza di Grétry mentre danza tra le braccia di Hermann; Lisa, che canta la sua disperazione da sola di notte in riva al canale all’inizio della sesta scena, è inspiegabilmente raggiunta da Tomski, Čekalinskij, Surin, Eletski…). La scena dovrebbe essere popolata da bambini? Sono ovviamente assenti, solo le loro voci entrano in scena, trasmesse dai famosi transistor… ». (Qui l’originale)

Infatti, invece di due eleganti giocatori in scena ci sono due tamarri e gli ambienti sono uno squallido cortile tra i caseggiati popolari con i barboni sulle panchine – uno di questi segue la musica sulla partitura… –, il conte Tomsky è un magnaccia, la contessa una vecchia in pantofole. Durante la pastorale un vecchio fruga nel cestino dell’immondizia e ne tira fuori una corona che passa da una testa all’altra di personaggi in costume di varie epoche, compreso il pianista con clava da uomo primitivo. Il regista si fa scrupolo di trasporre, spostare, aggiungere, sottrarre pur di non far mai vedere al pubblico ciò che il compositore e il suo fratello librettista hanno concepito. La scena praticamente fissa è dunque in infelice contrasto con la musica che costruisce mondi diversissimi nei vari quadri, ma per fortuna c’è Nathalie Stutzmann alla testa dell’orchestra del teatro a restituire quei contrasti e quei colori che la scenografia di Christian Friedländer e la costumista Pola Kardum annegano in uno squallido grigiore che non appartiene né al racconto di Puškin, né al libretto di Modest né tanto meno alla musica di Pëtr Il’ič. Grazie alla Stutzmann la passione, che nella partitura si concretizza negli ammalianti slanci lirici, è resa con mano felice, così come i momenti più drammatici ed esaltati del pulsare incessante scandito dai violoncelli nella scena della camera della contessa, o nei raffinati divertissement settecenteschi. Grazie a un’orchestra in gran spolvero la raffinatissima strumentazione è messa in evidenza con grande chiarezza.

L’ardua parte di Hermann trova in Dmitry Golovnin un interprete intenso ma talora in difficoltà e comunque non aiutato dalla regia che ne fa un invasato in preda ai deliri fin dal primo momento: la performance risulta così appiattita e senza sviluppo. Anna Nechaeva è una sensibile Liza dal bel timbro e un irriconoscibile Laurent Naouri in parrocca e baffoni diventa un buffo conte Tomski/Zlatogor; Jacques Imbrailo dell’aria del Principe Eletski fornisce una delle migliori versioni mai ascoltate e Anne Sophie von Otter fa lo stesso con l’aria di Grétry della contessa. Degnamente distribuite anche le parti minori con Charlotte Hellekant (Polina/Milovzor); Alexander Kravets (un Čekalinskij quanto mai trucido) e il Surin di Mischa Schelomianski. Il surreale pianista è l’italo/brasiliano Alfredo Abbati.

La dama di picche

foto @ Brescia Amisano / Teatro alla Scala

Piotr Ilitch Tchaïkovski, La dame de pique

★★★★☆

Milan, Teatro alla Scala, 13 mars 2022

 Qui la versione italiana

Les obsessions de Tchaïkovski sur scène à La Scala

La dame de pique, formellement, s’apparente à une série de « boîtes chinoises » qui contiendraient des citations et des styles différents : au sein d’une œuvre  romantique et passionnée à souhait se nichent le folklore russe et le XVIIIe siècle, l’opéra français et Mozart. Tout cela forme un opéra d’une grande modernité, adoré de Stravinsky ou Janáček.

Le texte de Pouchkine dont est tiré le livret, joue également avec les styles et le livret de son frère Modeste l’a transformé d’un conte moral en une histoire de passions incontrôlées. Plus encore que l’obsession du jeu, c’est le thème de la mort qui domine ici – dans le livret, les mots faisant référence à la mort sont répétés pas moins de 26 fois…

la suite sur premiereloge-opera.com

La dama di picche

foto @ Brescia Amisano / Teatro alla Scala

Pëtr Il’ič Čajkovskij, La dama di picche

Milano, Teatro alla Scala, 13 marzo 2022

★★★★☆

bandiera francese.jpg Ici la version française

Le ossessioni di Čajkovskij in scena alla Scala

La dama di picche, ma sarebbe più giusto tradurla come La Donna o La Regina di picche perché così si chiama la figura delle carte in italiano, formalmente è una serie di scatole cinesi che racchiudono citazioni e stili differenti: all’interno di un impianto romantico e appassionato si annidano il folklore russo e il settecento, l’opera francese e Mozart. Il tutto forma un’opera di grande modernità adorata da Stravinskij e da Janáček.

Gioca con gli stili anche il testo di Puškin da cui deriva, e che il libretto del fratello Modest ha trasformato da racconto morale a storia di passioni incontrollate. Ancor più che l’ossessione del gioco, qui domina il tema della morte – nel libretto i termini riferiti alla morte si ripetono ben 26 volte – tema che perseguitava il compositore negli ultimi anni del suo «cammino verso la tomba», come scrisse in una lettera a Glazunov da Firenze dove stava scrivendo la sua penultima opera: «Qualcosa succede nel mio profondo, qualcosa che è incomprensibile anche a me stesso: una certa stanchezza di vivere, un certo disincanto […] qualcosa privo di speranza». Questo «fascino dell’afflizione», questa infelicità di vivere – e di amare – permea l’intera opera fin dalle prime note scure, lugubri, nell’ossessivo tema delle tre carte, ogni volta ripetuto tre volte, fino agli accordi finali.

La vicenda di questa produzione scaligera non ha potuto estraniarsi dalle tragiche vicende che stiamo vivendo. Valerij Gergiev, politicamente esposto con il leader russo, dopo la prima è stato allontanato dal teatro poiché non ha voluto condannare l’aggressione russa all’Ucraina e al suo posto è subentrato il suo assistente, il ventisettenne Timur Zangiev che aveva preparato orchestra e cantanti durante tutte le prove, essendo Gergiev arrivato poche ore prima della prima. Ora Zangiev raccoglie meritatamente il plauso del suo lavoro da un pubblico che lo festeggia in maniera calorosissima dopo aver apprezzato la sensibilità con cui ha reso la splendida partitura in tutta la sua straordinaria ricchezza. La dama di picche musicalmente è una successione di quadri frammentati, ognuno caratterizzato dal suo particolare colore e stile, ma unificati da una tensione sotterranea. I diversi momenti sono resi con un gesto preciso e sicuro, senza bacchetta. Il pastiche mozartiano trova qui la sua eleganza non stucchevole, il tema negli archi del quadro della Contessa è reso con una suspense allucinata. Tutto questo è riuscito all’ex enfant prodige che a 11 anni aveva diretto l’Orchestra dei virtuosi di Mosca e che è stato allievo del grande Gennadij Roždestvenskij. Al suo primo impegno in occidente, il suo esordio alla Scala rimarrà un evento storico.

Assieme al direttore, l’entusiasmo del pubblico si è scatenato per Asmik Grigorian, Liza. Ogni volta che appare in scena è come se l’aria del teatro vibrasse di qualcosa di diverso, fin dal primo momento in cui, assieme alla nonna Contessa, esprime la sua inquietudine per lo sconosciuto «misterioso e tenebroso», poi nel duetto con Polina, e finalmente nella scena solistica di «Perché queste lacrime?», piena di dubbi esistenziali resi con trepidazione e accenti drammatici che diventeranno tragici dopo l’ultimo incontro con Hermann e la decisione di uccidersi. Il timbro sontuoso, il fraseggio sempre mosso, gli acuti luminosi, gli slanci appassionati, tutto concorre a delineare una Liza indimenticabile per finezza vocale e magnetica presenza scenica.

Najmiddin Mavlyanov ha la parte più impegnativa dell’opera, quella di Hermann, compito che porta a termine con lodevole impegno, ma anche se viene apprezzato il suo lavoro sul personaggio, una certa monotonia di tono e un timbro non esaltante non infiammano il teatro, che riserva più applausi al Principe Eleckij di Alekseij Markov dalla nobile linea vocale. Ottima accoglienza anche per la Contessa di Julia Gertseva, che rende il suo «Je crains de parler de lui» dal Richard coeur-de-lion di Grétry con pianissimi di grande efficacia e tinge di un colore spettrale il successivo duetto con il giovane che vuole carpirle il segreto delle tre carte. Deliziosa la Polina di Elena Maximova ed eccellenti molti dei primari, soprattutto il conte Tomskij di Roman Burdenko.

La messa in scena di Matthias Hartmann promette male all’inizio: torreggianti prismi semoventi con neon abbaglianti formano la prima scena del giardino in primavera mentre le bambinaie si fanno i dispetti in inutili controscene. Fastidiose sono anche le controscene nel quadro secondo tra le amiche di Liza e Polina mentre le due ragazze cantano il meraviglioso e idillico «È già sera». Efficace è la scena del ballo mascherato, anche se Michael Küster non fa che riprendere l’impianto scenico di Ezio Frigerio dello spettacolo del 1990 alla Scala, con gli stessi lampadari qui riflessi negli specchi mentre la coreografia di Paul Blackman fa sembrare l’intermezzo “La sincerità della pastorella” più lungo del dovuto. Al ballo fa gli onori di casa un personaggio in azzurro che ritroveremo spesso: è il Conte di Saint-Germain, un personaggio realmente esistito, il nobile che aveva fornito le tre carte alla Contessa, come abbiamo visto in una inutile pantomima durante il racconto di Hermann. Questa è la prima idea di una regia fino a questo momento piuttosto anodina, se non insulsa. Un’altra idea, che però non ha particolare significanza, è quella della Zarina che si dovrebbe presentare al ballo, e che invece non esiste: tutti si bendano gli occhi e fingono un inchino, ma è la vecchia Contessa invece ad apparire sullo sfondo. Sempre legata alla Contessa è un’altra idea registica, più intrigante questa. Il suo segreto non sono solo le tre carte, ma anche la giovinezza: arrivata a casa, quando è sola si toglie le bende e mostra un volto giovanile, probabilmente frutto di un elixir che il mitico negromante, alchimista e rosacrociano, le aveva dato in cambio di una notte d’amore quando a Parigi la Contessa ne frequentava i salotti e le case da gioco, così che la figura di Elina Makropulos si mescola con quella della «Vénus moscovite» del racconto di Puškin. Ben resa è anche la scena del quadro sesto del terzo atto, quella del lungofiume, con le luci e i fumi di Mathias Märker, dove uno dei prismi cade con frastuono a terra e forma la spalletta del fiume da cui si getta l’infelice Liza. Efficace anche è la scena finale, con il tavolo da gioco illuminato dai lampadari al neon e un riuscito movimento dei giocatori. Quelle voci gravi da liturgia ortodossa che intonano a cappella il “requiem” «Signore, perdonalo, placa la sua anima inquieta e travagliata» concludono con grande emozione uno spettacolo salutato da quasi dieci minuti di applausi.

Iolanta / Il castello del duca Barbablù

Pëtr Il’ič Čajkovskij, Iolanta

Béla Bartók, Il castello del duca Barbablù

★★★☆☆

New York, Metropolitan Opera House, 14 febbraio 2015

(live streaming)

Due donne che vogliono vedere

Il Met di New York festeggia San Valentino con due storie d’amore molto differenti: dal buio alla luce della vista conquistata  quella di Iolanta, dalla luce al buio di una terribile scoperta quella di Judith. La musica di Čajkovskij tende verso l’alto, verso quell’ingenuo corale finale di lode al creatore, quella di Bartók si avvita verso il basso fino alle ultime parole dell’uomo, quasi un rantolo «És mindig is éjjel lesz már… | Éjjel… Éjjel…» (E sarà sempre notte… | notte… notte…). Iolanta è del 1892, Il castello del duca Barbablù del 1918, meno di trent’anni, ma in mezzo c’è stato di tutto: il crollo di due imperi (quello austro-ungarico e quello russo) e i conseguenti epocali rivolgimenti sociali; lo sconvolgimento nelle arti espressive, dalla letteratura alla pittura alla musica; la nascita della psicoanalisi e quant’altro ancora.

Il regista polacco Mariusz Treliński riserva le sue atmosfere più inquietanti per il secondo lavoro di questo strano dittico i cui pannelli hanno in comune solo il fatto di derivare da favole popolari. Ma neanche l’ambientazione di Iolanta è molto rassicurante: una piccola camera con la parete piena di lugubri trofei di caccia e un lettino di ferro verniciato di bianco per la ragazza che non sa di essere cieca («Possibile che gli occhi ci siano stati dati solo per piangere, Marta? […] Che cos’è “rosso”?») mentre al di fuori della cameretta invece del giardino fiorito un bosco un po’ angoscioso con le immagini in videografica di Bartek Macias proiettate su un velario al proscenio. Avendo poco da scavare nella psicologia dei personaggi, Treliński punta a una superficiale rappresentazione della moralistica favola con un tocco di ironia nel messaggio finale, presentato come un matrimonio con tutti i personaggi in bianco pronti per la foto ricordo. Solo re René, l’uomo dominante, continua a essere vestito in nero e con la mano destra inguantata.

Anche Barbablù ha la mano destra inguantata e lo stesso bosco di Iolanta riappare, pieno di crepitii nel prologo del Barbablù recitato dalla voce di un attore fuori scena. L’uomo e la donna appaiono come reduci da un party, lui in smoking, lei in abito lungo di satin verde turchese. La vicenda è vissuta come uno psicho thriller e l’ascensore che scende nelle profondità del castello si cala anche nelle due anime tormentate. Anche le sette stanze sono stati psicologici e mentali più che fisici: la prima e la seconda sono la stessa stanza dalle pareti sporche di sangue; la terza, invece del tesoro ospita il lusso di una vasca da bagno; del giardino della quarta non c’è traccia, se non un vaso di rose sul tavolo da pranzo di una sala anche questa con una parete di trofei di caccia, qui dorati; la quinta si apre sull’esterno, di nuovo il lugubre bosco; la sesta è una stanza piastrellata e la settima porta ci riporta al bosco dell’inizio i cui alberi fluttuano in aria e le radici sono strappate dal terreno. Da una buca che Barbablù stava scavando spunta la testa bionda di una delle sue mogli precedenti mentre delle altre vediamo i probabili fantasmi agitarsi tra i tronchi neri, presto raggiunti da Judith. Barbablù con spirito necrofilo bacia il cadavere che stava seppellendo.

Prototipo delle colonne sonore di tutti i film horror a venire, la partitura di Bartók è qui lucidamente eseguita da Valerij Gergiev con una particolare attenzione agli effetti timbrici mentre nella fiaba di Čajkovskij si era sentita una certa mancanza di convinzione. Nella prima parte della serata forse un po’ troppo scura è sembrata la voce di Anna Netrebko per impersonare l’ingenua Iolanta, ma magistrali si sono rivelati il fraseggio e la dizione. Un Gottfried Vaudémont glorioso è quello di Piotr Beczała, acuti luminosi e morbidezza di timbro hanno delineato la nobiltà del personaggio. Un efficace Alekseij Markov è l’amico Roberto, introverso e autorevole vocalmente il re René di Ilya Bannik. Ancora più stimolante il cast della seconda parte con la Judith di Nadja Michael e il Barbablù di Mikhail Petrenko. Entrambi hanno una voce non del tutto gradevole, ma espressività e presenza scenica da vendere: la Michael si cala in modo impressionante nella parte, Petrenko delinea un personaggio umanamente inquietante.

La dama di picche

Pëtr Il’ič Čajkovskij, La dama di picche

★★★☆☆

Nizza, Opéra, 28 febbraio 2020

È noir Čajkovskij per Py

Quattro città del sud della Francia uniscono le loro forze per attuare un dispositivo di sostegno alla produzione lirica: i teatri d’opera di Nizza, Marsiglia, Tolone e Avignone allestiscono congiuntamente uno spettacolo che andrà in scena in tutte e quattro le sedi. L’esperimento inizia dal capoluogo della Costa Azzurra con il penultimo capolavoro per il teatro di Pëtr Il’ič Čajkovskij.

Ad allestire La dama di picche viene chiamata quella singolare figura di regista, scrittore e performer che è Olivier Py, autore di spettacoli singolari e di particolare impatto visivo. Del racconto di Puškin egli accentua il colore nero, che il librettista, Modest Čajkovskij aveva diluito con la storia d’amore tra Hermann e Liza, colore che è ben presente invece nella musica del fratello Pëtr. Il tono sulfureo della vicenda, che gli era riuscito in spettacoli notevoli come i suoi Contes d’Hoffmann del 2008 o la più discutibile Gioconda dell’anno scorso, qui ha un che di greve che non sempre è convincente, soprattutto nella prima delle due parti in cui è suddiviso lo spettacolo. La produzione di Py trabocca di idee, anche troppe, ambientandosi nella Russia del dopoguerra, con gigantografie degli squallidi condominii stalinisti sul fondo di un impianto scenografico, del solito Pierre-André Weisz, che con le sue vetrate rotte ricorda una fabbrica abbandonata di presenza incombente ma poca profondità, sviluppandosi principalmente in altezza con i suoi due piani di praticabili. Una singolare miscela di tecniche antiche e moderne caratterizza la scenografia, come il cielo nuvoloso che sembra il risultato di una proiezione video e invece è un telo disegnato e semitrasparente che scorre su due rulli. Le luci che disegnano questo ambiente indistinto tra reale e onirico si devono a Bertrand Killy, i costumi neo-gotici allo stesso Weisz.

A parte il risultato estetico, la scelta scenica sembra contrastare con l’idea registica di fare di Hermann il doppio di Čajkovskij – idea non inedita perseguita con quasi ossessiva determinazione da Stefan Herheim nella sua produzione londinese – il compositore che «ha conosciuto tutte le delusioni amorose, tutte le violenze della gloria, tutti i paradisi artificiali, tutti gli scherzi della fortuna», come scrive Py nelle sue note di regia dove indica nella presenza della vecchia contessa la pulsione di morte sempre presente nel personaggio giocatore. Il tono funereo è affrontato con un umorismo macabro che si concentra nella figura di un mimo-ballerino onnipresente, probabilmente l’amante di Hermann, che dopo aver danzato la “Morte del cigno” sulla bara della vecchia ne prenderà il posto – la contessa non è affatto morta infatti, il funerale è una farsa e la ritroveremo al tavolo da gioco (ancora la sua bara) per assistere alla rovina del giovane a cui ha indicato la carta sbagliata. Altri due ballerini si uniscono in momenti coreografati di Daniel Izzo di sottile sarcasmo, come quando il trio si esibisce in una pantomima delle danze in perfetto stile Complesso Accademico di Canto e Ballo dell’Esercito Russo, da noi conosciuto come Coro dell’Armata Rossa. Seppure godibili, questi momenti, come altri, non sembrano coerenti con la vicenda dove contesse, principi, fanciulle virtuose e sale da gioco risultano elementi del tutto estranei alla scelta visiva.

Su tutto però vince la musica di questo pastiche che affianca agli struggenti temi sinfonici un divertissement settecentesco e impasti strumentali e tematici che fanno presagire il futuro Šostakovič – lui sì degli stessi anni dell’ambientazione scenica. Il direttore György Györiványi Ráth si trova a gestire una musica di grande complessità e raffinatezza con uno strumento che non è tra i più blasonati, ma il risultato è nel complesso positivo e l’equilibrio sonoro dell’orchestra ben realizzato, complice anche la buona acustica dell’intimo teatro. Non sempre invece i cantanti si rendono conto delle dimensioni ridotte della sala e il volume sonoro risulta quindi eccessivo, soprattutto quando il timbro ha una componente un po’ metallica come è il caso della Liza di Elena Bezgodkova, soprano dalla bella linea vocale e intensamente espressiva. Miglior equilibrio di volumi e colori si incontrano nello Hermann del tenore Oleg Dolgov che porta con agio alla fine una parte di grande impegno vocale. Nella sua unica ma bellissima aria si fa distinguere per bellezza di suono ed esattezza di fraseggio la Polina di Eva Zaïcik, mezzosoprano rivelazione lirica alle recenti Victoires de Musique Classique. Marie-Ange Todorovitch, l’interprete più nota a livello internazionale, presta il suo temperamento attoriale alla parte della vecchia contessa e la sua resa della romanza di Grétry «Je crains de lui parler la nuit» ha un tono nostalgico e assieme spettrale che dà i brividi. La straniante pagina di Čajkovskij ancora oggi si conferma come un momento teatrale di straordinaria intensità e audacia. L’interprete è qui avvantaggiata dalla scelta registica di fare della contessa un personaggio di grande teatralità: le pulsioni erotiche della vecchia qui sono tutt’altro che sopite, anzi chiaramente esplicitate, gettando nuova luce sulle parole del libretto. Questa sì è una delle idee vincenti di Py!

Tra gli altri interpreti si segnalano l’autorevole ma un po’ monocorde principe Eleckij di Serban Vasile e il più vivace Tomskij del baritono Alexander Kasyanov. Efficaci gli altri.

Il pubblico della prima ha manifestato qualche dissenso verso la messa in scena alla fine della prima parte, ma le contestazioni sono scomparse, assorbite nei calorosi applausi, alla fine della recita.

La dama di picche

Pëtr Il’ič Čajkovskij, La dama di picche

★★★★☆

Londra, Royal Opera House, 22 gennaio 2019

(diretta streaming)

Il delirio prende forma

Terza delle trasposizioni operistiche del racconto di Puškin dopo La dame de pique (1850) di Fromental Halévy e Pique Dame (1864) di Franz von Suppé, La dama di picche (Пиковая дама, Pikovaia dama) di Čajkovskij è la penultima delle opere del compositore russo.

Il lavoro è di straordinaria compattezza e coesione nonostante i materiali musicali eterogenei modernamente prelevati “all’esterno”: temi delle sue due ultime sinfonie (la Quinta e la Sesta); richiami alla Carmen (il coro dei bambini-soldati della prima scena e l’ultima aria di Hermann nel terzo atto); gli echi mozartiani che si sprecano in tutta la scena del ballo; il tema del minuetto da un coro de Il figlio rivale di Bortnjanskij e l’arrivo dell’imperatrice accompagnato dall’inno ‘Tuoni di vittoria’ di Kozlovskij. Per non parlare dell’aria della contessa che cita apertamente il Richard coeur-de-Lion di Grétry.

Nell’intrigante e intelligente allestimento del norvegese Stefan Herheim, ora alla Royal Opera House di Londra, l’ossessione per il gioco del protagonista viene quasi messa in ombra dal tormento di Čajkovskij per la sua sofferta omosessualità. Veri o presunti, alcuni dati della biografia del musicista hanno un ruolo decisivo in questa produzione nata ad Amsterdam nell’estate del 2016, quali l’infatuazione per il tenore primo interprete della sua opera e la morte per aver volutamente bevuto acqua infettata dal colera. Nella drammaturgia di Alexander Meier-Dörsenbach la vicenda è popolata da figure che prendono vita durante la febbrile composizione dell’opera scritta tra il gennaio e il marzo del 1890 al tempo del soggiorno del musicista a Firenze. La scena è dunque ambientata nella sua stanza all’Hotel Washington. Qui vi troneggia un pianoforte e le pareti vengono spesso sostituite da specchi nella scenografia di Phill Fürhofer, suoi anche i bei costumi.

Ad apertura di sipario, prima che inizino le trascinanti note dipanate da Pappano con veemenza e passione, assistiamo alla fellatio eseguita dal musicista su un giovane che poi lo tratta con disprezzo. L’umiliazione subita spinge il compositore a gettarsi nella creazione artistica: da questo momento lo vedremo al pianoforte e chino sui fogli di musica che inonderanno la scena o immedesimarsi e vestire i panni del principe Eleckij, personaggio del tutto assente dal racconto di Puškin e introdotto nel libretto del fratello Modest Čajkovskij quasi a equilibrare con una figura positiva il numero di quelli, ipocriti e fatui, della storia. La regia di Herheim scava a fondo nel personaggio e si adatta, con la sua oniricità, al tono della vicenda, con solo qualche effetto di troppo, come l’arrivo della zarina al ballo con il coro in platea che a luci accese invita il pubblico ad alzarsi in piedi e cantare l’inno all’imperatrice – che dietro il ventaglio si scoprirà essere Hermann grottescamente en travesti. Le fattezze del compositore che si ritrovano in tutti i coristi danno un tono di incubo a una vicenda priva di una logica razionale e il regista mette così in evidenza il taglio modernissimo dell’opera.

Dallo streaming non sembra che Pappano metta in difficoltà con la potenza sonora dell’orchestra e i suoi tempi trascinanti gli interpreti in scena, i quali si rivelano di qualità eccellente. Per l’indisposizione di Alexandrs Antonenko (che sembra abbia molto deluso alla prima) la parte di Hermann viene affidata all’ultimo momento a Sergej Poliakov, tanto che neanche sul sito on line del teatro ne viene riportato il nome. Uscito dalla fucina della Novaia Opera, il teatro che a Mosca sta facendo concorrenza al blasonato Bol’šoj, il tenore russo dai trasparenti occhi di ghiaccio dimostra una padronanza vocale e scenica eccezionali nella parte estenuante e impegnativa che gli affida Čajkovskij. Il soprano di formazione olandese Eva-Maria Westbroek sembra non aver fatto altro tutta la vita che cantare in russo tanta è la sicurezza con cui crea il personaggio della sfortunata Liza, suicida e angelo della morte. La tecnica ineccepibile e la potenza vocale ammirate in tante sue performance sono qui ampiamente confermate. Come confermata è l’eleganza e la maestria del bulgaro Vladimir Stoyanov, nei panni attoriali di Čajkovskij e in quelli vocali del principe Eleckij quando incanta nella famosa dichiarazione d’amore della prima scena del secondo atto. Perfetta Anna Goriačëva (Goryachova nella traslitterazione inglese) nel duplice ruolo di Polina e Milzvor. Del mezzosoprano russo si erano già ammirate le qualità del timbro e della tecnica vocale quale Edoardo nella Matilde di Shabran del ROF e marchesa Melibea nel Viaggio a Reims di Montanari/Michieletto a Roma. Il passaggio da Rossini a Čajkovskij conferma l’eccellenza della sua padronanza vocale. Anche il Tomskij di John Lundgren si distingue per la finezza interpretativa dell’aria in cui, raccontando della vecchia contessa, introduce quel tema delle «tre carte» che, ripetuto sempre tre volte, ritornerà come un’ossessione in tutta l’opera. Una gloria del teatro lirico inglese quale Felicity Palmer incarna una contessa decrepita e indimenticabile. La sua resa dell’aria «Je crains de lui parler la nuit», con quella voce flebile di chi ha il rimpianto di una vita dietro a sé, varrebbe da sola la serata. Pappano si conferma qui un meraviglioso accompagnatore. Ottimi gli interpreti degli altri ruoli e il coro del teatro, istruito da William Spaulding, in cui tutti hanno esibito notevoli doti sceniche oltre che vocali.

La dama di picche

Pëtr Il’ič Čajkovskij, La dama di picche

★★★☆☆

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 16 agosto 2018

(streaming video)

Tre carte e la morte

Nel libretto de La dama di picche il fratello di Čajkovskij, Modest, aggiunge una storia d’amore che manca nella vicenda di Puškin. Nel racconto originale  Hermann, un giovane ufficiale del Genio, pur essendo estremamente attratto dal gioco d’azzardo, non osa praticarlo fino a che la sua lucidità non viene sconvolta dal racconto del suo commilitone Tomskij che gli riferisce dell’aneddoto riguardante il passato di sua nonna, una nobildonna ormai decrepita, un tempo giocatrice appassionata. Secondo il racconto di Tomskij la donna sarebbe in possesso del segreto per vincere al gioco, segreto che custodisce gelosamente. La storia della vecchia contessa impressiona profondamente Hermann, che da quel momento sarà ossessionato dal desiderio di conoscere il segreto. Seducendone la giovane dama di compagnia, riesce ad introdursi nella stanza della contessa, e la implora di svelargli le tre carte. Terribilmente spaventata, la contessa muore sul colpo, lasciando Hermann senza risposta e in preda all’ossessione. Dopo aver assistito al funerale dell’anziana donna, Hermann rincasa e cade in un sonno profondo dal quale si sveglia bruscamente. Un rumore gli annuncia l’ingresso di qualcuno che si rivela essere il fantasma della contessa la quale promette ad Hermann di farlo vincere al gioco grazie a tre carte: il tre, il sette e l’asso. Quando Hermann ha finalmente occasione di giocare, le parole della contessa sembrano rivelarsi profetiche: il tre lo fa vincere e così il sette, ma come terza carta, invece dell’asso vincente, Hermann si ritrova una donna di picche nella quale crede di riconoscere il volto beffardo della contessa. La delusione porta Hermann alla follia.

La dama di compagnia della contessa qui ha un ruolo molto più importante nella trasposizione di Čajkovskij che debutta nel 1890 e che arriva dopo quella di Halévy (La dame de pique, 1850) e di von Suppé (Pique Dame, 1864). «Ben poco del testo puskiniano è rimasto nella versione dei fratelli Cajkovskij: nel racconto Hermann non è innamorato di Lisa, e finge di corteggiarla per poter avere accesso alla contessa; Lisa è la pupilla, non la nipote della contessa, e non si suicida bensì va sposa, al termine della vicenda, a un simpatico impiegato; nemmeno Hermann si suicida, ma finisce in manicomio e continua a borbottare ‘Tre, sette, asso; tre, sette, donna’. Puskin non ha scritto una vicenda di passione e di morte, come risulta essere l’opera cajkovskiana, ma l’inquietante storia di un’ossessione, di un’idea fissa. Al centro dell’opera di Cajkovskij c’è invece la travolgente passione di Hermann per Lisa, che diventa appunto la nipote della contessa ed è felicemente fidanzata con il principe Yeletskij, personaggio nuovo, assente nel racconto. Hermann diventa così ‘l’uomo del destino’ sia per Lisa che viene travolta dalla sua passione sia per la contessa, che sente in lui, nel suo sguardo di fuoco, una volontà malefica e distruttiva». (Fausto Malcovati)

Oltre ai grandi motivi conduttori dell’opera (le tre carte, l’amore e il destino), molte sono nella partitura le affinità musicali con le ultime sinfonie, la Quinta e la Sesta. Ci sono poi espliciti imprestiti e richiami: «a Carmen (opera amatissima da Cajkovskij) si rifanno il coro dei bambini-soldati della prima scena e l’ultima aria di Hermann nel terzo atto. Una serie di citazioni è tutta la scena del ballo: qualche eco mozartiana (dal Quintetto in do minore KV 406) nel duetto dei pastori, mentre il tema del minuetto viene da un coro del Figlio rivale di Bortnjanskij; l’arrivo dell’imperatrice è accompagnato dall’inno ‘Tuoni di vittoria’ di Kozlovskij, scritto nel 1791 per una vittoria militare di Caterina. Anche nell’aria della contessa c’è una celebre citazione: “Je crains de lui parler la nuit” proviene dal Richard coeur-de-Lion di Grétry». (Fausto Malcovati)

La musica de La dama di picche trova nel lèttone Mariss Jansons l’interprete ideale: la morbidezza dei violini, la dolcezza dei legni, i motivi appassionati sostenuti da viole e violoncelli rifulgono di sensualità con l’orchestra dei Wiener Philharmoniker qui a Salisburgo. Ed è l’incomparabile esecuzione musicale a dare unità di senso a quest’opera frammentata in molti quadri.

I momenti della messa in scena del 77enne Hans Neuenfels si susseguono con più o meno efficacia, essendo due i più convincenti: la morte di Lisa che strappa la sua ombra e crolla a terra, e quella di Hermann che viene letteralmente inghiottito dal tavolo verde. L’ingresso della zarina, raffigurata da uno scheletro dalle braccia allungate, e la camminata di Hermann per le strade di San Pietroburgo mentre sullo sfondo vengono proiettate facciate di case in movimento non sono idee proprio originali e neppure l’uso continuo di diversi nastri scorrevoli per far entrare coristi e mobili. Il nero-grigio delle scenografie di Christian Schmidt lascia spazio al bianco abbagliante della stanza della contessa – che anche in punto di morte non disdegnerebbe le attenzioni del giovane che le chiede insistentemente delle tre carte – e alla cornice dorata dell’intermezzo pastorale. Ma sono gli stravaganti e continui cambi di costumi, disegnati da Reinhard von der Thannen, a rendere la produzione visualmente stravagante e oltremodo costosa.

Chi non cambia mai d’abito è Hermann, qui Brandon Jovanovich in uniforme rossa eternamente sbottonata sul petto villoso a dispetto delle intemperie baltiche che inducono i suoi commilitoni a indossare enormi pellicce nere. Il tenore americano ha una vocalità generosa, spesso spinge con forza negli acuti che alterna a mezze voci ben gestite, ma è la presenza scenica spesso sopra le righe a portare presto alla noia: smorfie e barcollamenti, rotolamenti per terra e gesti inconsulti non portano ad immedesimarci con lui e a commuoverci al suo dramma.

Più contenuta, al limite della freddezza, la prestazione di Evgenia Muraveva, Lisa vocalmente di gran classe. Più sanguigna la Polina del mezzosoprano Oksana Volkova. Il ruolo della Contessa, generalmente appaltato a glorie in fine carriera, è affidato qui alla 75enne Hanna Schwarz il cui flebile tono ha spinto sul patetico la sua prestazione. Sicuri ed efficaci i baritoni Igor Golovatenko (Yeletskij) e Vladislav Sulimskij (Tomskij) così come gli altri interpreti nelle parti secondarie.

 

Aleko / Francesca da Rimini

aleko

Sergej Rachmaninov, Aleko

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Sergej Rachmaninov, Francesca da Rimini

★★★☆☆

Nancy, Opéra National de Lorraine15 febbraio 2015

(live streaming)

Triangoli tragici

Da Carmen a Pagliacci a Il tabarro sembra che tra i nomadi i rapporti matrimoniali non siano destinati a durare molto: c’è sempre un elemento perturbatore, in genere giovane e bello, che viene a solleticare le voglie insoddisfatte della moglie. Aleko non fa eccezione. Fra le povere roulotte e le vecchie Citroën si è spento l’amore per Aleko di Zemfira a causa di un terzo uomo – non ha neanche un nome: è il “giovane zingaro” – e la furiosa vendetta del marito geloso non si fa attendere.

Scritta nel 1892 come saggio di fine corso al conservatorio di Mosca, l’atto unico del diciannovenne Rachmaninov è su libretto di Nemirovič-Dančenko tratto da Cygany (Gli zingari) che Puškin aveva scritto a Odessa e poi fatto pubblicare nel 1827. Rappresentato con successo un anno dopo al Bol’šoj, ebbe però la consacrazione nel 1903 quando un giovane Fëdor Šaljapin farà del ruolo di Aleko uno dei suoi cavalli di battaglia.

Ai toni da opera verista (in fondo il periodo è quello) sono contrapposti i cori (molto russi!) di cui l’atto unico è ricco e la melodizzazione esotica dell’accompagnamento orchestrale – l’azione e il tempo non sono determinati, ma il lavoro di Puškin è ambientato in Bessarabia. La regia di Silviu Purcărete prende toni felliniani e le danze non sono affidate ai gitani bensì ai saltimbanchi e all’orso, personaggio quest’ultimo che punteggia tristemente la vicenda. Eccellente per proprietà vocale e intensità espressiva è Alexander Vinogradov, un Aleko cui Rachmaninov regala una grande aria, un pezzo che viene spesso cantato in concerto dai grandi baritoni di oggi, da Il’dar Abdrazakov a Dmitri Hvorostovsky.

Aleko è spesso abbinato, poco opportunamente, alla Iolanta di Čajkovski. Qui invece è il primo pannello di un dittico tutto Rachmaninov essendo Francesca da Rimini la seconda parte della serata. L’accostamento ci fa apprezzare da vicino la maturazione artistica del compositore da epigono di Čajkovski a un più personale e moderno stile musicale. Altra storia di triangolo amoroso che termina in tragedia su libretto di Modest Il’ič Čajkovskij fu scritta da Rachmaninov durante un suo viaggio in Italia ed è l’ultimo dei tre atti unici del compositore russo. Fu rappresentata nel 1906 assieme a Il cavaliere avaro.

La vicenda dantesca prevede due scene incorniciate da un prologo e un epilogo all’inferno. La lunga pagina orchestrale, un decimo della durata di tutta l’opera, con il coro che vocalizza ci introduce al girone infernale dove Dante e Virgilio incontrano gli amanti, Francesca ancora nel costume di Zemfira (è la stessa interprete, Gelena Gaskarova). Ricompare qui il marito vendicativo nella figura di Lanciotto, lo stesso Vinogradov, e si ripete l’assassinio della coppia.

Molto meno convincente l’allestimento di questo secondo atto unico, con quella danse macabre degli scheletri che più che Inferno dantesco ricorda un Halloween di periferia. La presenza di detti scheletri anche nelle due scene nel castello del Malatesta per mimare la vicenda di Ginevra e Lancillotto sembra poi inutile se non inopportuna, come il finale con l’arrivo all’inferno della Citroën, come se fosse così indispensabile dimostrare i parallelismi tra le due opere. La direzione orchestrale di Rani Calderon si adatta bene agli stili così diversi dei due atti unici, con un tocco particolarmente efficace negli ostinati e nella tensione del secondo.

Iolanta

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★★★★★

La tirannia della negazione

L’ultima opera di Čajkovskij, scritta contemporaneamente allo Schiaccianoci e rappresentata assieme al balletto nel 1892 al Mariinskij di San Pietroburgo, è un atto unico che nella programmazione dei teatri d’opera viene generalmente abbinato ad Aleko (1893) del compositore russo Rachmaninov. Così avvenne infatti anche al Regio di Torino nel 1980, ma già allora la disparità delle due opere fu evidente: da una parte la prova dell’esame di diploma di un diciottenne (una specie di Cavalleria rusticana ambientata fra gli zingari), dall’altra il lavoro tratto da un fiaba di Andersen che concludeva la carriera del tormentato musicista cinquantatreenne il quale avrebbe posto fine alla sua vita di lì a pochi mesi.

Iolanta, la figlia del re di Provenza, è cieca, ma non lo sa. Il padre ha imposto che nessuno le parli di colori, di bellezza, di luce o di quant’altro possa far sospettare alla ragazza la sua menomazione. Il medico afferma che solo la volontà di vedere potrà farla guarire, ma il padre preferisce non far soffrire la figlia. L’arrivo del cavaliere di Vaudémont ne scombina però i piani: Iolanta si innamora del giovane che le narra delle gioie della vista. Ecco quindi un buon motivo per guarire. E così avviene, con lode finale al Creatore.

Per questa fiaba delicata, il cui libretto del fratello Modest si basa su un testo di Henrik Hertz, il compositore russo scrive una delle sue pagine più belle, piena di trasparente lirismo dalla scena iniziale del giardino fino al duetto estatico fra i due giovani. Il quartetto d’archi e il quartetto di voci femminili con cui inizia l’opera danno subito il colore intimo di questa preziosa partitura. L’ambientazione in Provenza sembra far dimenticare al musicista le sue origini russe, ma il mistico inno finale a cappella ha il colore di un solenne canto ortodosso rivisto con sensibilità wagneriana. Viene infatti inserito qui un canto tratto dalla Liturgia di San Giovanni Crisostomo (op. 41) che lo stesso Čajkovskij aveva composto nel 1878.

Nel 2012 il Real di Madrid, in mano a Gérard Mortier e uno dei teatri dalla programmazione più stimolante, abbina quest’opera a quella di un altro russo, la Perséphone di Stravinskij, affidate entrambe a quel mago di Peter Sellars che assieme alle oniriche scenografie di George Tsypin fornisce uno spettacolo di grande intensità e bellezza. Suo collaboratore abituale, Tsypin costruisce in pochi tocchi una scena non naturalistica con cornici sormontate da massi in equilibrio che sembrano usciti da un quadro di Dalì e che accennano ai portali della reggia del re René. Ma è la magia della luce e dei colori la vera protagonista più volte invocata dal libretto in quest’opera. È di Sellars anche la regia video, come è di solito nei suoi spettacoli, che alterna i primi piani intensissimi dei personaggi alle scene d’assieme riprese da più angolature.

Ekaterina Ščerbačenko, voce preziosa e dal piacevole timbro slavo, è l’innocente Iolanta che in un sol colpo scopre l’amore e la visione. Ed è doppiamente fortunata, perché il fascinoso Pavel Černoch è un buon motivo per recuperare la vista. Né delude la prestazione vocale del giovane tenore moravo.

Le voci basse di Willard White (il dottore) di casa qui al Teatro Real di Madrid, di Dmitrij U’lianov (il padre) e di Alekseij Markov (Robert duca di Borgogna) sono tutte e tre diversamente eccellenti così come il trio di voci femminili tra cui spicca Ekaterina Semenčuk (Marta). Omogeneità e armonia sono il pregio maggiore di questo cast di interpreti.

Teodor Currentzis dirige con giovanile esuberanza, ma anche sentito lirismo l’orchestra madrilena.

Nel bonus del disco, che ha anche i sottotitoli in italiano, il regista ci fa partecipi delle sue sempre interessanti considerazioni sulle opere e della sua concezione dello spettacolo. Ottimi l’immagine e l’audio.

  • Iolanta, Gergiev/Treliński, New York, 14 febbraio 2015