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Pëtr Il’ič Čajkovskij, La dama di picche
Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 23 settembre 2022
(live streaming)
Quando il contrasto tra quello che si vede e quello che si sente è irrisolvibile
L’ouverture è una lunga introduzione orchestrale a un concerto con pianoforte, ma il pianista si addormenta nell’attesa del suo intervento mentre le tate ascoltano i canti dei bambini dalla radio. Da questo inizio si capisce che il lavoro del dramaturg, qui Lucien Strauch, è stato radicale nella messa in scena del capolavoro del compositore russo. Il lavoro di decostruzione è poco convincente nella realizzazione, così che la musica, quello che sentiamo, risulta in forte contrasto con quello che vediamo, e questo è un elemento che non giova all’opera, soprattutto quando la appassionata e raffinata musica di Čajkovskij si confronta con immagini da socialismo reale in quello che qualcuno ha considerato un vero controsenso.
Ecco ad esempio cosa ha scritto a proposito di questa messa in scena Stéphane Lelièvre: «È la storia di un quartiere un po’ sinistro di una grande città dell’ex Unione Sovietica, popolato da poveracci, barboni e da un’anziana donna un po’ fuori dal mondo in pantofole, vestito verde, calze turchesi troppo grandi che le cadono a metà polpaccio, assidua cliente dell’ipermercato locale – se dobbiamo credere alla grande borsa della spesa di plastica che non la lascia mai. Fortunatamente, per tenere occupate tutte queste persone inattive, un pianista in frac si è insediato al centro del quartiere, tra le torri di cemento e le scale di ferro arrugginito, e di tanto in tanto suona qualche pagina di musica: questo fornisce un po’ di intrattenimento agli abitanti, soprattutto quando, in occasione di una festa organizzata per ammazzare il tempo, il pianista si toglie il frac e si siede al pianoforte vestito come un Cro-Magnon, con indosso una pelle di bestia e in mano una grossa mazza. Per il resto, gli abitanti del quartiere sono piuttosto ossessionati dagli apparecchi radio, che si contendono e ascoltano in continuazione, cercando senza dubbio un modo per sfuggire alla reclusione imposta dalla dittatura in atto e per aprirsi al mondo grazie alle onde corte. È una storia bellissima, ma non è esattamente la storia de La dama di picche. La trasposizione-adattamento di David Marton non getta nuova luce sull’opera, ma dà la spiacevole impressione di porre artificialmente sulle opere di Čajkovskij e di Puškin un discorso che è completamente estraneo ad esse. […] Tuttavia, avremmo potuto aderire più o meno a questa rilettura se la messa in scena avesse proposto scene forti e di grande impatto drammatico. Ahimè, ci è sembrato singolarmente privo di tensione, tranne forse nel duetto finale tra Lisa e Hermann e nell’ultima scena. I passaggi che dovrebbero essere divertenti sono solo irritanti; le scene mimate davanti al sipario chiuso per consentire i cambi di scena tra un atto e l’altro sono di rara indigenza (un personaggio prende un binocolo, osserva l’ultimo palco gridando “Mamma!”. Tre uomini mescolano coscienziosamente vari liquidi per molto tempo prima di riempire tre bicchieri e berli), che opportunamente culmina nella scena presumibilmente più brillante dell’opera – la festa nel terzo quadro del secondo atto – che è stancante perché ci si aspetta che vada sistematicamente contro ciò che il testo e la musica dicono: un personaggio dovrebbe essere solo? È ovviamente collocato in presenza di altri personaggi (la contessa canta la romanza di Grétry mentre danza tra le braccia di Hermann; Lisa, che canta la sua disperazione da sola di notte in riva al canale all’inizio della sesta scena, è inspiegabilmente raggiunta da Tomski, Čekalinskij, Surin, Eletski…). La scena dovrebbe essere popolata da bambini? Sono ovviamente assenti, solo le loro voci entrano in scena, trasmesse dai famosi transistor… ». (Qui l’originale)
Infatti, invece di due eleganti giocatori in scena ci sono due tamarri e gli ambienti sono uno squallido cortile tra i caseggiati popolari con i barboni sulle panchine – uno di questi segue la musica sulla partitura… –, il conte Tomsky è un magnaccia, la contessa una vecchia in pantofole. Durante la pastorale un vecchio fruga nel cestino dell’immondizia e ne tira fuori una corona che passa da una testa all’altra di personaggi in costume di varie epoche, compreso il pianista con clava da uomo primitivo. Il regista si fa scrupolo di trasporre, spostare, aggiungere, sottrarre pur di non far mai vedere al pubblico ciò che il compositore e il suo fratello librettista hanno concepito. La scena praticamente fissa è dunque in infelice contrasto con la musica che costruisce mondi diversissimi nei vari quadri, ma per fortuna c’è Nathalie Stutzmann alla testa dell’orchestra del teatro a restituire quei contrasti e quei colori che la scenografia di Christian Friedländer e la costumista Pola Kardum annegano in uno squallido grigiore che non appartiene né al racconto di Puškin, né al libretto di Modest né tanto meno alla musica di Pëtr Il’ič. Grazie alla Stutzmann la passione, che nella partitura si concretizza negli ammalianti slanci lirici, è resa con mano felice, così come i momenti più drammatici ed esaltati del pulsare incessante scandito dai violoncelli nella scena della camera della contessa, o nei raffinati divertissement settecenteschi. Grazie a un’orchestra in gran spolvero la raffinatissima strumentazione è messa in evidenza con grande chiarezza.
L’ardua parte di Hermann trova in Dmitry Golovnin un interprete intenso ma talora in difficoltà e comunque non aiutato dalla regia che ne fa un invasato in preda ai deliri fin dal primo momento: la performance risulta così appiattita e senza sviluppo. Anna Nechaeva è una sensibile Liza dal bel timbro e un irriconoscibile Laurent Naouri in parrocca e baffoni diventa un buffo conte Tomski/Zlatogor; Jacques Imbrailo dell’aria del Principe Eletski fornisce una delle migliori versioni mai ascoltate e Anne Sophie von Otter fa lo stesso con l’aria di Grétry della contessa. Degnamente distribuite anche le parti minori con Charlotte Hellekant (Polina/Milovzor); Alexander Kravets (un Čekalinskij quanto mai trucido) e il Surin di Mischa Schelomianski. Il surreale pianista è l’italo/brasiliano Alfredo Abbati.
⸪