Mese: settembre 2023

Il trovatore

foto © Roberto Ricci

Giuseppe Verdi, Il trovatore

Parma, Teatro Regio, 24 settembre 2023

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Un Trovatore di luci e ombre al Festival Verdi di Parma

Dopo l’interruzione degli anni ’90, il Festival Verdi è stato reintrodotto nel 2001 in occasione delle celebrazioni del centenario della morte del compositore e da allora ha proposto cinque diverse produzioni de Il trovatore, l’ultima nel 2018 con la versione francese (Le trouvère) diretta da Roberto Abbado e con la regia di Bob Wilson. Mettere in scena quest’opera a Parma è una bella sfida: qui ognuno si sente il depositario dell’eredità di Verdi e poche produzioni sono uscite indenni dalle intemperanze del temuto loggione

Complice un budget ridotto che ha tarpato le ali al metteur en scène e le sostituzioni rispetto al cast inizialmente previsto, il dramma spagnolo di García Gutiérrez – «bellissimo, immaginoso e con situazioni potenti», scriveva il musicista a Cammarano, il librettista e seconda proposta del Festival Verdi 2023 – non ha convinto il pubblico, che ha sì applaudito ma non con l’entusiasmo con cui quest’opera così esaltante viene generalmente accolta, e ha suscitato anche qualche contestazione.

Nei consueti spazi del Teatro Regio, Francesco Ivan Ciampa dirige con passione ma attenzione verso i cantanti una delle partiture più trascinanti del teatro dell’Ottocento, un’opera fatta quasi tutta di numeri chiusi, la maggior parte forniti di cabaletta, un ritorno alla tradizione dopo l'”esperimento” del Rigoletto. Il trovatore è un’opera scura, notturna: «Allor mezzanotte appunto suonava», racconta Ferrando nella prima scena de “Il duello”, la prima delle quattro parti in cui è suddivisa l’opera; «Tacea la notte placida», canta Leonora nella seconda; «Tace la notte! Immersa | nel sonno, è certo la regal signora» dice il Conte di Luna nella terza; è notte quando il Conte e i suoi seguaci si apprestano a rapire la fanciulla nella scena terza de “La gitana”; è notte oscura all’inizio de “Il supplizio” nella torre del palazzo di Aliaferia (scena prima) e poi nell’«orrido carcere» (scena terza).

Bandita quella del sole, l’unica luce è il fuoco della tremolante lanterna di Leonora, della «perigliosa fiamma» paventata da Ines, della «terribil vampa» di Azucena, della pira evocata da Manrico, del rogo minacciato dal Conte («Come albeggi | la scure al figlio, ed alla madre il rogo!») passando per le braci raccontate da Ferrando. E la musica di Verdi è tutto un baluginare di lampi nell’oscurità che il Maestro Ciampa realizza con vivezza e con tempi che però talora possono mettere in difficoltà qualche strumentista dell’Orchestra del Comunale di Bologna. La sua lettura è trascinante, impetuosa, piena di contrasti, molto teatrale. Ciampa utilizza l’edizione critica di David Lawton che ripulisce la partitura di certe libertà “di tradizione” restituendone una versione più prossima all’originale.

S’è detto delle sostituzioni di ben tre cantanti (gli interpreti di Eleonora, del Conte di Luna e di Ferrando), cosa che non ha ben predisposto parte del pubblico che è sembrato prevenuto e pronto alla contestazione. Franco Vassallo, che ha sostituito l’inizialmente previsto Markus Werba, è ritornato nelle vesti del Conte dopo la versione francese vista qui al Teatro Farnese e ha confermato la grande proiezione vocale e l’intensità di espressione, a scapito talora dell’eleganza e nobiltà del personaggio, là con Bob Wilson più opportunamente stilizzato, qui leggermente sopra le righe. Però «Il balen del suo sorriso», vigorosamente intonato e con ben realizzati colori, è stato salutato da grandi applausi a scena aperta. Al posto di Eleonora Buratto, Francesca Dotto ha delineato una Leonora certamente corretta ma dalla voce un po’ sottile e poco timbrata. I momenti migliori sono risultati quelli più lirici dove legati e mezze voci hanno convinto comunque il pubblico, specialmente nell’aria «Tu vedrai che amore in terra» con cabaletta ripetuta, quando il regista isola l’azione e ne sottolinea l’aspetto melodrammatico accendendo le luci in platea e facendo scendere uno specchio incorniciato da un sipario drappeggiato, un effetto volutamente teatrale ma né originale né molto necessario. Terza sostituzione, stavolta di lusso, è quella di Ferrando: Marco Spotti, ammalatosi durante le prove, qui trova in Roberto Tagliavini un ammirevole sostituto che rende avvincente il lungo racconto iniziale.

Il trittico popolare di Verdi è centrato su tre figure di emarginati della società: la prostituta Violetta, il gobbo Rigoletto e l’«abietta zingara» Azucena, la quale nelle prime intenzioni dell’autore doveva dare il titolo all’opera. Si capisce quindi l’importanza della parte che alla prima romana del 1853 fu affidata a Emilia Goggi-Marcovaldi, grande cantante belliniana scomparsa precocemente all’età di 39 anni nel 1857. «Dopo quella della Malibran […] la più bella voce che ci sia occorso sentire» scriveva la Rivista musicale il 1 luglio 1840. Qui veste i panni della «fosca vegliarda» Clémentine Margaine, l’Amneris dell’Aida di Michieletto di Monaco, che è risultata l’interprete più apprezzata per la sua emissione sicura, il timbro particolare, il grande temperamento e l’equilibrio tra belcanto ed espressione drammatica. E infine Manrico, per interpretare il quale è stato chiamato il giovane Riccardo Massi, dotato di statura imponente e voce importante, ma l’interpretazione non convince, il tono è o stentoreo o lamentevole, l’articolazione della parola non incisiva, il fraseggio un po’ piatto e non bastano i do di «Di quella pira» a salvare una performance che non ha suscitato maggiori contestazioni solo perché queste si sono concentrate sul regista.

Davide Livermore è risultato troppo trasgressivo per una parte del pubblico, troppo tradizionale per l’altra! Sì, questo può succedere per una personalità come quella del regista torinese che ormai ha definito un suo stile che talvolta diventa stilema, come in questa produzione che non sembra comunque delle sue migliori. Abituato alle prime della Scala, il budget più contenuto del festival parmense ha un po’ compromesso la sua ispirazione, qui più sobria ma meno convincente del solito. Ambientato nell’ormai solito universo distopico di un paesaggio urbano devastato dalla guerra civile, i due mondi del Conte e Leonora e quello degli emarginati Manrico e Azucena sono nettamente distinti: grattacieli luccicanti formano quello dei nobili, un ambiente circense inquietante come il film Freaks quello degli zingari. La costumista Anna Verde disegna completi scuri e divise militari per il primo, sgargianti ma stracciati i costumi per i giocolieri e clown del secondo – tra i quali un mangiafuoco che aggiunge la sua dose di fiamme a quelle già previste dal libretto. Sul led wall del fondo si vedono le immagini digitalizzate della D-Wok: una gigantesca Luna, l’interno del tendone che prima si vedeva in lontananza nella periferia, un cavalcavia, un ponte in fiamme, l’interno di un ospedale allestito in una fabbrica abbandonata, l’esterno di un edificio carcerario, l’interno del carcere medesimo. E poi il cielo sempre minaccioso, con nubi nere come il fumo, pioggia di lapilli o cenere postnucleare, fiamme e magma incandescente. Nella scenografia di Giò Forma l’unico elemento reale è un imponente traliccio il cui utilizzo si rivela poco necessario ma il cui spostamento tra una scena e l’altra costringe a lunghi minuti di attesa a sipario abbassato che diluiscono la tensione e che aumentano di quasi mezz’ora la lunghezza dello spettacolo.

In definitiva si tratta di una lettura piuttosto tradizionale nella drammaturgia e nella gestione dei personaggi, che non guadagnano maggiore spessore psicologico nella attualizzazione, ma urta il pubblico per gli elementi contemporanei dei fucili, delle pistole, dei telefonini e delle sigarette, non tanto perché incongrui con l’ambientazione originale, ma perché diventati dei cliché di cui si può fare onestamente a meno.

La Juive

foto © Andrea Macchia – Teatro Regio Torino

Fromental Halévy, La Juive

Torino, Teatro Regio, 21 settembre 2023

★★★

Apertura di stagione con il grand opéra a Torino

Con tredici titoli, di cui ben sette pucciniani, la stagione del Regio, intitolata “Amour toujours”, inizia con un’opera in cui di amore ce n’è ben poco, solo odio e desiderio di vendetta. Lavoro molto popolare nel passato – è con La Juive (L’ebrea) che Enrico Caruso terminò la sua carriera al Metropolitan di New York nel 1920, otto mesi prima di morire, e fu proprio l’aria dal IV atto «Rachel quand du Seigneur» la sua ultima registrazione discografica – da qualche anno La Juive sta risalendo la china dall’oblio in cui era scivolata ed è tornata in auge grazie a diverse pregevoli produzioni come quella che aveva inaugurato l’anno scorso la stagione del Grand Théâtre di Ginevra o quella del 2019 diretta da Antonino Fogliani e allestita da Peter Konwitschny ad Anversa.

Salvo errore, in Italia l’ultima volta La Juive è stata data nel 2005 alla Fenice. A Torino mancava dal 1885!

Daniel Oren ha dichiarato di essere un grande estimatore dell’opera, che ha già diretto due volte. Essendo israeliano poi si capisce come sia sensibile all’argomento del lavoro di Halévy che infatti affronta con solennità liturgica, soprattutto nella scena prima dell’atto secondo, quella della Pesach. Ma anche negli altri momenti Oren adotta tempi estremamente dilatati che, nonostante i numerosi tagli, hanno portato l’esecuzione a superare le quattro ore. La grandiosità e la tensione del lavoro si sono così persi in una lettura analitica che ha sfiorato la decostruzione della partitura e il grand opéra è diventato un rito di estenuata lentezza dove ogni battuta viene centellinata, ogni intervento solistico strumentale assaporato, i recitativi si perdono nella lunghezza, pause eterne sfilacciano il discorso musicale fino allo stremo e per i cantanti è come se dovessero cantare due volte visto che ogni nota viene allungata del doppio. Ma per fortuna che in scena ci sono interpreti come Gregory Kunde, debuttante nella parte, che opera il miracolo con uno strumento vocale che non conosce usura e viene piegato con estrema intelligenza per delineare quell’immenso e tragico personaggio che è Éléazar. L’atteso momento dell’aria «Rachel quand du Seigneur la grâce tutélaire» (che nella lettura di Oren supera i sette minuti contro i cinque-sei di molte esecuzioni) e della successiva cabaletta – cantata “avec exaltation” prescrive il libretto – «Dieu m’éclaire» sono risolte con un’eleganza, un’espressività e un controllo dei fiati e una facilità degli acuti stupefacenti e se si pensa che questo avviene a mezzanotte passata, dopo quattro ore estenuanti, si rimane senza parole per la resistenza e l’inossidabilità di una voce non più verdissima. Eppure, è proprio il confronto con l’altro tenore, il giovane rumeno Ioan Hotea già sentito come Léopold a Ginevra, a esaltare la qualità della performance del quasi settantenne cantante dell’Illinois che riprende la parte che fu scritta per Adolphe Nourrit, forse il più grande tenore dell’Ottocento. 

Per un’altra star di quel secolo, Marie-Cornélie Falcon, fu invece creata la parte di Rachel, qui affidata a Mariangela Sicilia giunta a un punto luminoso della sua fulgente carriera. Con sicurezza e grande sensibilità il soprano calabrese dà il meglio di sé oltre che nei tanti ensemble nel momento solistico della trepidante romanza «Il va venir» del secondo atto con bellissimi pianissimi e smorzandi.

Il secondo soprano, che alla Salle Le Peletier il 23 febbraio 1835 fu Julie-Aimée-Josèphe Dorus-Gras, qui è Martina Russomanno, cantante la cui biografia precisa che ha iniziato la carriera artistica come cantante pop a 11 anni e sarà per questo che esibisce una sicura presenza scenica e doti vocali che le permettono di eccellere nella virtuosistica parte della principessa Eudoxie. Assieme le due cantanti evidenziano al meglio le differenti personalità e i caratteri decisamente differenziati dei due ruoli: in Rachel il registro grave (che da allora viene definito proprio come “Falcon”), in Eudoxie la brillantezza del registro acuto e le agilità belcantistiche.

Due tenori, due soprani, due baritoni e un basso: la figura del cardinale Brogni è interpretata senza particolare rilevanza da Riccardo Zanellato le cui note gravi sono talora troppo piene d’aria e poco sonore, Gordon Bintner e Daniele Terenzi invece si suddividono le parti di Ruggiero, il gran prevosto della città di Costanza, e Albert, il sergente d’armi. Il coro del teatro è alle prese con la lingua francese, stavolta resa meglio del solito – grazie forse alla nazionalità del sovrintendente… – e con un ruolo decisivo in quest’opera, ora come insieme di fedeli, ora come folla festante, ora cortigiani, ora popolani. È lo stesso coro che, sotto la guida del Maestro Ulisse Trabacchin, neanche due settimane fa si era esibito swingando nel musical di Leonard Bernstein eseguito per MITO Settembre Musica. Ma è un peccato che qui con i tagli venga a mancare il coro iniziale del quinto atto dove si possono ascoltare gli ineffabili versi della versione italiana: «O che gioia, o che piacer, | gl’infedeli, i traditor | dalle fiamme arsi veder! […] Oh, davvero spettacol piacente | fra non molto da noi si vedrà! | A morire nell’acqua bollente | ogni ebreo condannato sarà»…

L’allestimento è affidato a quell’artista visivo che è Stefano Poda, personaggio tuttofare che non si deve confrontare con altri: un regista normalmente deve discutere con scenografo, costumista, coreografo, esperto luci e quant’altri fanno nascere uno spettacolo. Quelli di Poda sono invece parti in solitaria, che portano la firma riconoscibilissima del loro creatore unico, rivelano un’indubbia coerenza visiva, ma proprio in questo hanno la loro debolezza: si capisce che non sono il risultato di un confronto di idee, discussioni: sono installazioni, più o meno riuscite, che hanno alla base un’idea, anche geniale, perché no, che però non è passata attraverso l’elaborazione che comunemente subisce nella creazione di uno spettacolo teatrale che vive di interventi diversi. Da qui anche la ripetitività degli spettacoli di Poda, che ricrea il suo mondo in un linguaggio fatto di stilemi riproposti ogni volta. E può essere divertente scoprire gli scampoli delle sue produzioni del passato: la croce tagliata nel fondale (La forza del destino, Parma 2012), i gessi delle figure umane (Thaïs, Torino 2008; Eduardo e Cristina, Pesaro 2023), le sfilate al rallentatore con lunghe palandrane (Thaïs), i mimi/danzatori che formano un grappolo umano attorno ai personaggi (Aida, Verona 2023; Eduardo e Cristina) e così via. Questa volta Poda ci risparmia i baluginii e gli specchietti della sua Turandot (Torino 2018) e della Aida, essendo qui luccicanti solo il Grande Prevosto e la collana di Costantino.

L’idea di base della sua lettura è l’oppressione e intolleranza della chiesa, ma soprattutto la religione che ha potuto portare a tante scelleratezze: “Tantum religio potuit suadere malorum” è infatti la frase che campeggia sulla struttura predisposta da Stefano Poda. È il verso del primo libro del De rerum natura con cui Lucrezio conclude l’episodio di Ifigenia sacrificata dal padre Agamennone: “hostia concideret mactatu maesta parentis” (perché dolente vittima cadesse  d’un sacrificio paterno). Un evidente parallelo con la figura di Rachel sacrificata dal “padre” Éléazar. Poda guarda dunque al passato, al mito greco, piuttosto che al grand opéra, ma il suo allestimento ha comunque una evidente grandiosità nella scelta di utilizzare il palcoscenico del Regio in tutta la sua profondità e con tutti i suoi marchingegni tecnologici: ponti mobili che si spostano avanti e indietro, si alzano, spariscono in basso, piattaforme rotanti. Assieme alla iperattività dei suoi danzatori costituiscono gli unici elementi in movimento di una mise en espace che ha la staticità di una esecuzione oratoriale, con i cantanti schierati in proscenio rivolti al pubblico e il coro sullo sfondo. Lo horror vacui visivo di Poda si esprime in innumerevoli simboli e scene multiple dove alla cena pasquale degli ebrei corrisponde in alto il tableau vivant dell’Ultima Cena, o il lento procedere di una figura che rappresenta il Cristo, o dell’iterazione della salita al calvario e altre pantomime cristologiche. Inspiegabili sono invece alcune cadute di gusto come il principe Léopold che si nasconde sotto il tavolo all’arrivo della Principessa, o l’outfit della Principessa stessa che sembra pronta per una scena di bondage sex. I bozzetti originali facevano prevedere una scenografia più ricca di quella effettivamente realizzata, ma anche così la presenza di una struttura metallica a forma di astrolabio che scende dal soffitto e poi risale rimane inconcludente e misteriosa. Privo di tensione è il finale, il vero climax di questo grand opéra,  quando Rachel sale al patibolo ed Éléazar svela a Brogni la tremenda verità, ossia che quella appena sacrificata è sua figlia. Qui Mariangela Sicilia si avvicina verso il fondo del palcoscenico e poi si gira verso il pubblico: che sia il coup de théâtre definitivo ce lo dice solo la musica, non quello che vediamo.

Lo spettacolo finisce ben dopo la mezzanotte e questo in una città dove i trasporti pubblici, già poco efficienti di giorno, si diradano ancora di più la sera. Invece di iniziare alle 20 non si poteva iniziare prima? A Ginevra il Don Carlos di Verdi, altrettanto lungo, era alle 18 e a Venezia si entra alle 19 alla Fenice. Dopo l’intervallo ci sono infatti alcune defezioni, ma il pubblico rimasto tributa caldi applausi agli artefici dello spettacolo con vere e proprie ovazioni per i due interpreti principali. Chiari invece sono alcuni segni di dissenso nei confronti del regista.

 

Das Rheingold

Richard Wagner, Das Rheingold 

Londra, Royal Opera House Covent Garden, 20 settembre 2023

(diretta streaming)

Barrie Kosky riporta Das Rheingold al mito

Ieri ho fatto una cosa che a Barrie Kosky non sarebbe piaciuta: ho guardato in diretta streaming il suo Rheingold. «Il live stream e l’HD televisivo dell’opera lirica sono stati uno dei maggiori disastri per l’opera» ha lasciato detto in una intervista a The Times. Lo streaming live indiscriminato, gratuito o a pagamento, sta uccidendo dunque l’esperienza dell’opera lirica? Non voglio affrontare qui la questione, mi limito a dire che, anche se avrei ovviamente preferito essere presente di persona al Covent Garden, questa volta mi sono accontentato di vederlo al cinema. Lo so che non è la stessa cosa – che scoperta! – ma piuttosto che niente… È comunque paradossale che i “puristi” che più si scaldano sull’argomento siano proprio quelli che hanno costruito la loro conoscenza dell’opera quasi esclusivamente sui dischi!

La Royal Opera House ha iniziato il nuovo Ring quadriennale con il suo direttore musicale uscente Tony Pappano – che però ritornerà per dirigere le altre tre giornate, fino al 2027 – e il regista del momento, Barrie Kosky. La sua lettura del Prologo riporta la vicenda indietro nel tempo, al mito antico. Nella scarna scenografia di Rufus Didwiszus il palcoscenico è occupato solo dai resti semi-carbonizzati di un frassino, come quello da cui Siegmund estrarrà la spada Nothung nella seconda giornata. Prima ancora che gli otto contrabbassi e i tre fagotti attacchino il Mi bemolle, nel silenzio assoluto entra, carica dei suoi anni – quattro miliardi e mezzo, aveva ironicamente suggerito Kosky durante le prove all’attrice – Erda, la madre primigenia. Nella sua fragile e impietosa nudità la donna avanza lentamente e contempla che cosa è diventato il suo mondo, uno scenario di morte. Si porta le mani sugli occhi e noi vedremo le sue reminiscenze, tutta la vicenda ritorna alla sua mente e la viviamo con lei, che sarà sempre presente sulla scena.

Kosky sa essere irriverente e stravagante, ma quando è il caso sa diventare serio ed è il caso di questo Rheingold tenebroso dove non siamo sul fondo del fiume Reno e l’unico elemento fluido è la resina dorata che esce dalle ferite dell’albero, liquido di cui Alberich avidamente si impossessa. Niebelheim è qui una mostruosità industriale in stile steampunk, con cinghie d’acciaio che stringono l’albero per estrarre a forza e meccanicamente il prezioso liquido per arricchire il nano, chiara metafora dello sfruttamento delle risorse naturali a beneficio di pochi. Come in M – Eine Stadt sucht einen Mörder visto a Berlino e con la regia dello stesso Kosky, sono dei bambini a portare una maschera, un’orribile faccia con la bocca spalancata in un grido, per interpretare i Nibelunghi.

Invece del mucchio di lingotti con cui celare Freia alla vista dei Giganti, qui c’è un momento Goldfinger in cui la ragazza viene sommersa nel liquido dorato in una vasca da bagno. Gli effetti magici sono realizzati in maniera teatralmente molto tradizionale, le transizioni tra un quadro e l’altro sono effettuate a sipario chiuso e non ci sono effetti speciali e tecnologici ma i particolari della vicenda sono tutti presenti, seppure adattati. Così, ad esempio, il martello di Donner è un mallet, la mazza del gioco del polo, la stessa con con cui Fafner uccide il fratello Fasolt. Gli dèi infatti, in attesa di entrare nel Walhalla, si riposano dopo una partita di polo per un picnic ben fornito di champagne e sandwich. Questa di Kosky è un’ambientazione fondamentalmente senza luogo e senza tempo, ma i costumi di Victoria Behr suggeriscono l’epoca edoardiana, con stivali e giacche da equitazione, mentre nel finale, all’ingresso nel nuovo palazzo di cui Wotan ha ossessionatamente esaminato il progetto, sotto una pioggia di lustrini gli abiti degli dèi diventano luccicanti outfit per la sera, un finale che trasmette il trionfo scintillante ma vuoto degli dèi. La luce qui non è quella iridescente dell’arcobaleno, ma un freddo fascio che inquadra per l’ultima volta Erda che ruota eternamente su sé stessa. 

Alessandro Carletti infatti isola talora i personaggi in un cono di luce, come nell’abbraccio tra Wotan ed Erda, un momento di grande emozione con la voce della dea fuori scena. Momenti che Kosky sa magicamente creare esaltando la psicologia dei personaggi, che qui non sono soltanto figure che convogliano un’idea, ma persone di grande umanità. Ecco perché alle qualità vocali gli interpreti scelti devono affiancare eccellenti capacità attoriali: i cantanti sul palcoscenico del Covent Garden non sono le solite voci “wagneriane” e generano in tal modo un piacevole effetto di sorpresa e novità. Come i due Christopher, Maltman e Purvis, due eccellenti interpreti ascoltati finora in repertori ben diversi: il primo è un Wotan che esibisce una proiezione vocale di tutto rispetto e si mostra autorevolmente nobile ma sotto sotto cela una sottile perfidia tanto che non ci sorprende quando non esita a tagliare il dito di Alberich per prendergli l’anello. Purvis connota un Alberich fisicamente simile a Wotan: è il suo fratello altrettanto deciso a fare il male per il suo tornaconto personale. Anche lui dispiega un mezzo vocale di grande espressività. Loge trova nel tenore americano Sean Panikkar un interprete vocalmente eccellente e un attore che caratterizza la vivacità e l’astuzia dl personaggio. Marina Prudenskaja (Fricka) e Kiandra Horwarth (Freia) sono un po’ in ombra rispetto agli interpreti maschili tra cui si fanno notare i fratelli giganti ai quali prestano la loro voce imponente In-Sung Sim (Fasolt) e Soloman Howard (Fafner).

Tony Pappano dirige con slancio e cura dei colori l’orchestra del teatro ma di più non si può capire dal sonoro sparato a cento decibel nella sala dell’unico cinema torinese – mentre a Milano e a Roma sono una mezza dozzina – in cui otto sparuti spettatori si sono dati appuntamento.

Cassandra

Bernard Foccroulle, Cassandra

Bruxelles, Théâtre Royale de la Monnaie, 14 settembre

★★★

(diretta streaming)

Una nuova Cassandra predice, inascoltata, la fine del mondo

«Invece di forzatamente attualizzare la lettura delle opere del passato, perché [i registi] non scrivono loro opere nuove per discutere del presente?». La proposta che i nostalgici delle regie tradizionali hanno spesso provocatoriamente posto, questa volta ha avuto una risposta affermativa. Ecco infatti un compositore – vabbè, non un regista… – prendere carta e penna e scrivere un lavoro su un tema che più impellente di questo non potrebbe essere: la catastrofe climatica che minaccia l’umanità. Come Cassandra aveva previsto la caduta di Troia senza essere ascoltata, la climatologa Sandra predice l’imminenza di una terribile tragedia, denunciando l’irresponsabilità di chi ci governa e di chi si rifiuta di riconoscere l’urgenza del problema prendendo le misure necessarie. Stavolta non è Troia a bruciare, è tutto il pianeta.

Tra queste due profetesse di ieri e di oggi, gli spiriti, eco dell’antico coro, vedono il futuro ricordando il passato, mentre le api,  simboli della vita minacciata, ronzano sempre meno forte. Citando Seneca, Eschilo, Schiller, Giovenale e Shakespeare, il libretto in inglese di Matthew Jocelyn è una miscela di serietà, umorismo e poesia, una narrazione senza soluzione di continuità in un prologo e tredici scene. 

Prologo. Da qualche parte là fuori. Voci umane risuonano dal vuoto, come echi di epoche diverse. Sono rivolte a Cassandra e testimoniano la sua frenesia, le sue previsioni e la maledizione che le è stata lanciata. Vedono Troia bruciare, come predetto da Cassandra. È allora. È ora.
Scena I – Troia brucia, Cassandra osserva. Cassandra è costretta a guardare mentre Troia brucia. Grida di disperazione. Forse questo non riguarda solo il passato, ma anche il nostro futuro? «Ciò che è stato, ciò che è e ciò che verrà».
Scena II. Chiamami Cassandra. Oggi. A una conferenza sul cambiamento climatico, la dottoranda Sandra Seymour tiene una conferenza sotto forma di stand-up comedy. Spera che questo approccio spinga i suoi ascoltatori all’azione, cosa che gli scienziati non sono riusciti a fare con fatti e cifre aride. Il pubblico la applaude, ma dopo, fuori dal palco, un attivista si scaglia contro di lei: chi, sano di mente, avrebbe avuto l’idea di scherzare sul riscaldamento globale? L’attivista in questione è Blake, uno studente di Lettere e Filosofia. Nonostante la falsa partenza, tra questi due giovani c’è un’evidente chimica.
Scena III. Mi hai sputato in bocca. Il dio Apollo ha dotato Cassandra del dono di predire il futuro, ma poiché lei non si è concessa a lui, le ha sputato in bocca, in modo che nessuno credesse più alle sue previsioni. Ora Apollo fa nuove avances, ma Cassandra resiste e fa riferimento alle varie donne che ha sedotto. Lui la sfida: pensa davvero di essere l’unica persona in grado di “vedere”? Crede davvero di essere unica? Il futuro è a portata di mano, chiunque lo voglia può vederlo. Cassandra sperimenta solo dolore e tristezza.
Scena IV. Le api. Un centinaio di api sciamano.
Scena V. Ototoi popoi da. È passato un anno da quando Sandra e Blake si sono incontrati e innamorati. Ora vivono insieme ed entrambi lavorano alle loro tesi a casa. Utilizzando degli algoritmi, Sandra mappa lo scioglimento delle calotte glaciali dell’Antartide e i conseguenti cambiamenti ambientali. Blake scrive dell’Agamennone di Eschilo, citando le parole pronunciate da Cassandra in quell’opera: «Ototoi popoi da», parole apparentemente incoerenti, che simboleggiano gli orrori indescrivibili che la profetessa vede davanti a sé. Nonostante le diverse aree di ricerca, Sandra e Blake trovano molti punti in comune. Come per Cassandra, il punto di vista di Sandra sulla crisi climatica rimane inascoltato: è un «canto profetico, non invitato (akeleustos) e non gradito (amistnos)». La loro conversazione viene interrotta dal telefono: La madre di Sandra invita Sandra e Blake alla sua festa di compleanno.
Scena VI. Cena di famiglia.Si festeggia  il 55° compleanno di Victoria con le figlie Sandra e Naomi e con Blake. L’atmosfera è allegra, le battute scorrono e si discute di diversi modi di prevedere il futuro. Ma Sandra non è affatto contenta che il suo lavoro scientifico venga paragonato all’osservazione dei cristalli. La conversazione si sposta sulla visita dei genitori in Antartide e sullo stato allarmante del continente. Alexander mette da parte le previsioni catastrofiche di Sandra sulle calotte glaciali e sottolinea le opportunità, come l’estrazione mineraria, che secondo lui si presenteranno con lo scioglimento dei ghiacci polari… Sandra e Blake sono scioccati da ciò che sentono e si preparano a lasciare la festa. Ma poi viene portata la torta di compleanno. Dopo che Victoria ha spento le candeline, Naomi può finalmente condividere la notizia della sua gravidanza.
Scena VII. Nella biblioteca dei morti. Figure del passato si aggirano nella biblioteca. Re Priamo è intento a rileggere ciò che la storia ha scritto su di lui e sulla caduta di Troia. Continua inoltre a incolpare Cassandra per la distruzione della città, senza riconoscere che in realtà lei stava cercando di avvertirlo della catastrofe. Ecuba prende le difese della figlia e gradualmente Priamo si rende conto che le parole di Cassandra erano l’antitesi di una maledizione. Quando Cassandra rimane sola nella biblioteca, ha una visione. Della sua morte? O di qualcun altro?
Scena VIII. I l richiamo della maternità. Sandra e Blake sono a casa. L’atmosfera tra loro è affettuosa ma a tratti anche inquieta: Blake sta per partire per l’Antartide per una rischiosa missione eco-interventista e ha detto a Sandra che vuole avere un figlio da lei. Lei ha sentimenti contrastanti: è saggio mettere al mondo dei bambini? Blake ritiene che stiano lottando per un mondo migliore, quello dei loro figli. In fondo, Sandra deve ammettere di sentire il richiamo della maternità, ma teme il “naufragio” di questo mondo.
Scena IX. Le api. Quindici api ronzano intorno.
Scena X. Canto della culla. Naomi canta una ninna nanna al suo bambino non ancora nato: una bambina che chiamerà Alexandra.
Scena XI. Una nave in viaggio verso l’Antartide. Sandra ha finito la sua tesi. Si esibisce per l’ultima volta nel suo spettacolo comico, ma il tono è ora molto più serio e non tutti gli spettatori lo apprezzano. Vengono lanciati insulti a Sandra e alcuni membri del pubblico lasciano la sala. Sandra annuncia di aver chiuso con il palcoscenico e il mondo accademico e di voler diventare un’attivista come Blake, che sta andando in Antartide. Non sa che tra il pubblico ci sono anche i suoi genitori e sua sorella. Mentre lo spettacolo è ancora in corso, il padre di Sandra riceve la terribile notizia che la nave degli attivisti è affondata e di Blake non c’è traccia. Appresa la notizia dopo lo spettacolo, Sandra crolla. Nello stesso momento, a Naomi si rompono le acque: il bambino sta per nascere. Sandra si ritrova sola. Poi appare Cassandra.
Scena XII. Nessuno mi toglierà mai la voce. Sandra comincia gradualmente a rendersi conto di essere in presenza di Cassandra e che i loro destini sono intrecciati. È come se Cassandra, affranta dal dolore, cercasse di confortare Sandra, riconoscendo fin troppo bene quello che la giovane donna sta passando. Prima di scomparire, Cassandra ribadisce il messaggio che nessun dio può sputare in bocca a Sandra. Nessuno potrà mai impedirle di essere “ascoltata”.
Scena XIII. Le api. Cinque api ronzano intorno, ignare di ciò che sta accadendo.

Nato nel 1953 a Liegi, Bernard Foccroulle è un organista di fama internazionale che accanto alla passione per la musica barocca (ha registrato tutte le opere per organo di Bach e Buxtehude suonate sugli strumenti storici meglio preservati) ha presentato numerosi lavori in prima mondiale di compositori quali Philippe Boesmans o Pascal Dusapin. Ultimamente ha affrontato progetti multidisciplinari che all’organo hanno affiancato la danza e la creazione video. Direttore generale de La Monnaie di Bruxelles tra il 1992 e il 2007, è poi succeduto a Stéphane Lissner alla direzione del Festival Internazionale Lirico di Aix-en-Provence fino al 2018. Le sue composizioni sono principalmente per organo, viola da gamba e voce con liriche su testi di Rilke, Verlaine, Erri de Luca, Dante. Cassandra è la sua prima opera. Commissionata dal teatro belga viene presentata in prima mondiale per l’inaugurazione della stagione con la direzione musicale di Kazushi Ono e la messa in scena di Marie-Ève Signeyrole, la scenografia minimalista di Fabien Teigné – un cubo che si apre e funge da mura di Troia, iceberg, biblioteca, alveare… – , i costumi firmati da Yashi, le luci di Philippe Berthomé e video in bianco e nero di ghiacciai e api. Accurata la direzione attoriale ed efficaci alcune immagini dello spettacolo come quelle ricorrenti delle api minacciate di estinzione. Derisoria l’immagine del cavallino di legno che rappresenta l’infanzia violentata quanto il simbolo di quello che ha portato alla distruzione di Troia.

Passato e contemporaneità sono presenti e la musica di Foccroulle li evoca con sapienza: il mondo del mito è un mondo di suoni acuti degli ottoni che ricordano l’universo barocco monteverdiano prediletto dal compositore. Per la contemporaneità utilizza la marimba per connotare Sandra e il sassofono per Blake mentre il coro omofonico degli spiriti dispiega lunghe frasi sopra strati di suoni trattenuti e respiri ventosi. Nel finale l’autore  cita il corale della Cantata BWV 26 di Bach (le isole antartiche prendono il nome dai compositori…) Ach wie flüchtig, ach wie nichtig (Ah quanto fugace, ah quanto effimera) che esprime la vanità della vita umana. Per le api, il loro ronzio è rappresentato da tremolii di archi che suonano microintervalli sul ponticello. La densa scrittura orchestrale lascia spazio a tocchi solistici che punteggiano il discorso dei cantanti o lo riecheggiano in modo imitativo. La tessitura vocale è sostanzialmente un affare individualizzato e nei pochi ensemble si sovrappongono linee che quasi mai si incontrano. L’unico vero duetto, che combina le sonorità degli ottoni, della marimba e del sassofono (in memoria di Blake), è l’incontro nella scena 12 delle due profetesse.

Anche se dice di non aver voluto fare un’opera attivista, Bernard Foccroulle non riesce a evitare una certa tendenza alla semplificazione che mina un po’ alcune scene della parte contemporanea e rende poco convincente la figura della scienziata che usa la comicità per far ascoltare le sue idee. Nelle tredici scene che compongono questo atto unico, l’alternanza tra le due eroine tende a privilegiare la figlia di Priamo, figura imponente nella sua tragica impotenza di fronte alla distruzione di Troia. Alla fine i due personaggi si riuniscono in una scena che risulta un po’ troppo ricapitolativa e semplificata, se non didascalica: forse sarebbe stato meglio terminare con il grido di Sandra quando apprende della morte del suo compagno, «Ototoi popoi da», lo stesso grido pronunciato dall’antica profetessa di fronte all’orrore della catastrofe.

Il coro bendato – non solo c’è chi non vuole sentire, ma neanche vedere – è spesso presente in scena dando voce agli spiriti. Kazushi Ono realizza con passione la preziosa partitura e concerta con precisione le voci in scena per le quali è stata creata l’opera: le due voci complementari della tragica Cassandra del mezzosoprano serbo Katarina Bradić e la Sandra del soprano americano Jessica Niles; l’Apollo necrofilo del baritono canadese Joshua Hopkins; il bel timbro chiaro del tenore americano Paul Appleby; il basso Gidon Saks come Priamo e come padre di Sandra; il soprano belga Sarah Defrise, Naomi.

Possiamo vivere in un mondo senza api, senza Bach? La domanda che ci pone Cassandra aspetta ancora una risposta da un’umanità distratta e incosciente.




Don Carlos

foto © Magali Dougados

Giuseppe Verdi, Don Carlos

Ginevra, Grand Théâtre, 15 settembre 2023

★★★☆☆

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La produzione ginevrina mette in discussione l’attualizzazione a tutti i costi di una vicenda storica

L’anno scorso la stagione del Grand Théâtre si era aperta con La Juive, i cui temi erano il fanatismo e l’intolleranza religiosa. Quest’anno, con il titolo “Giochi di potere”, la stagione di Ginevra inizia ancora con un altro grand opéra dominato dall’ingerenza religiosa negli affari politici e politica in quelli personali: il Don Carlos, la stessa opera che a dicembre inaugurerà la stagione del Teatro alla Scala, là nella versione italiana, qui invece nella versione originale francese completa in cinque atti e con i ballabili. Un titolo tormentato su cui Verdi ritornerà più volte tanto da lasciarci con numerose versioni, ognuna con i suoi pregi e i suoi difetti: in questa prima versione la complessità dei temi esposti giustifica le quattro ore e mezza di spettacolo, con un solo intervallo, ma i tagli apportati nelle versioni seguenti renderanno il lavoro più drammaturgicamente efficace.

Qui assistiamo all’opera come fu scritta per l’Esposizione Universale del 1867 di Parigi con la quale Verdi ritornava al suo autore preferito, Friedrich Schiller, per mettere in musica il suo Dom Karlos, Infant von Spanien del 1787, un dramma che incarnava perfettamente lo spirito dello Sturm un Drang con la sua contrapposizione tra Rodrigo, Marchese di Posa, simbolo della libertà e della tolleranza contro l’assolutismo monarchico di Filippo II di Spagna. A Verdi piaceva il contrasto tra genitore e figlio, così come il conflitto tra Stato e Chiesa, impersonata qui dalla figura del Grande Inquisitore. La libertà di trattamento dei fatti storici a favore della complessità dei personaggi ha portato Verdi a scrivere un lavoro dove il grado di elaborazione degli elementi e il respiro concesso all’orchestrazione fanno di Don Carlos un assoluto capolavoro.

A Ginevra per la terza volta consecutiva alla direzione musicale di un grand opéra dopo Les Huguenots di Meyerbeer e La Juive di Halévy, Marc Minkowski affronta il titolo verdiano con una concertazione precisa e ricca di colori ma non esasperata: i contrasti sonori non sono mai portati all’eccesso, anzi. Sotto la sua guida l’orchestra della Suisse Romande si esprime con morbidezza, i suoni dei legni e degli archi hanno una eleganza e una trasparente chiarezza, il dramma non si esplicita per il volume sonoro, ma per la tensione che si innesta in un discorso musicale sempre fluido e senza asperità. Il coro, protagonista essenziale in questo dramma, trova nella compagine del teatro uno strumento duttile ed espressivo, sia che si tratti del popolo oppresso dalla guerra del primo atto, sia dei lugubri canti dei religiosi.

Ricco di forti personalità il reparto vocale, a partire dal meraviglioso Stéphane Degout, sensibile Rodrigo dalla grande proiezione e perfetta articolazione della parola, alla Elisabetta di Rachel Willis-Sørensen dalla voce ricca di sfumature e soavità di timbro. Charles Castronovo è un Don Carlos di sicura presenza vocale e scenica che cerca di dare spessore a un personaggio non trascinante. Qualche intemperanza espressiva di Dmitrij Ul’ianov trasforma il suo Filippo II in un despota dai tratti talora volgari, coerenti se non altro con la scelta registica, come vedremo, dal possente registro basso ma dalla discutibile dizione in cui prevale l’accento slavo. Quella che viene a mancare è la regalità del personaggio e il confronto con Grande Inquisitore impressiona meno del solito anche per somiglianza col timbro del basso Liang Li. La principessa Eboli trova in Ève-Maud Hubeaux un’interprete di grande temperamento che però sa anche gestire le esigenze belcantische del ruolo. Ena Pongrac (Thibault), William Meinert (un Monaco), Julien Henric (Conte di Lerma), Giulia Bolcato (Voce dal cielo) e il sestetto di deputati fiamminghi completano degnamente il ricco cast.

Sembra che nell’agonia della morte Filippo II di Spagna si sia pentito di non avere sterminato un maggior numero di eretici. Nella produzione affidata a Lydia Steier l’esecuzione capitale di questi è presente fin dalla prima scena dell’atto di Fontainebleau con l’impiccagione di un meschino che rimarrà lì a penzolare durante il duetto d’amore dei due giovani e anche all’arrivo della notizia della destinazione al padre Filippo della principessa francese. Poi, nel quadro dell’auto da fé a quelli già appesi al lampadario si aggiungeranno i sei deputati fiamminghi e nel finale anche Don Carlo ed Elisabetta finiranno col cappio al collo.

L’ambientazione scelta dalla regista tedesco-americana è trasferita dal XVI secolo agli anni della DDR sotto il controllo della Stasi: vediamo infatti che, travestiti da monaci, numerosi funzionari spiano i personaggi dalle intercapedini dei muri attrezzate con microfoni e apparecchi di registrazione. Nella scenografia di Momme Hinrichs domina il grigio nella immancabile struttura rotante, nei video in bianco e nero, nelle luci ossessionatamente fisse di Felice Ross, nei lugubri costumi di Ursula Kudma. Filippo veste come un dittatore d’un regime totalitario, stivali, pantaloni, giacca e mantello tutti di cuoio nero e ricoperti di medaglie. Le spoglie di Carlo V riposano in una nicchia dorata che serve anche da consolle o addirittura da giaciglio per Eboli che ha passato la notte col re tradendo doppiamente la regina con il trafugamento del suo cofanetto di gioielli. Questa non è una novità registica, ma qui la donna rimane presente anche durante «Elle ne m’aime pas», riducendo il possente monologo allo sfogo/giustificazione di un marito che ha appena tradito la moglie. Eboli continua a essere presente, nascosta dietro una colonna, anche durante il successivo incontro col Grande Inquisitore e se contiamo anche i due accompagnatori, ben cinque persone affollano una scena che fa dello scontro fra due personaggi soli la sua assoluta grandezza. Altre cadute registiche rendono meno efficace il dramma, come avviene nella scena dei deputati fiamminghi ai quali il cappio al collo viene messo e tolto varie volte con effetto non esattamente tragico, o nel finale, poco convincente nel libretto e ancora meno nella realizzazione scenica della Steier. Due invece i momenti che si staccano volutamente dall’atmosfera lugubre della vicenda: il primo la scena nel giardino con Eboli e le dame della regina che, chissà perché, vengono fatte salire su una bilancia e la più magra premiata dopo la “chanson sarrasine”; il secondo il momento dei ballabili del terzo atto, trasformati in un’orgia stile Eyes Wide Shut comprese le maschere, con la struttura che ruota in maniera vertiginosa e un assassinio, totalmente gratuito, alla fine. 

Proprio pochi giorni fa Le Temps, il quotidiano di Ginevra, ha ospitato nella sezione Dibattiti un intervento di Emiliano Gonzalez Toro dal titolo “Quand l’opéra doit réapprendre le respect” in cui il cantante deplora come «troppi registi maltrattino i cantanti, le opere e il pubblico con produzioni elitarie e tutte uguali […] A forza di rincorrere l’anticonformismo e la modernità, il Regietheater appare sempre più banale, convenzionale, una forma di moderno accademismo». Il tenore svizzero dà così voce ad artisti che si sentono sempre meno a loro agio in produzioni che cercano quasi solo la provocazione e in cui la visione del regista è predominante e non rispetta né la partitura né il libretto. Non è il caso di questa produzione ginevrina la quale, nonostante qualche incongruenza e caduta di gusto, ha incontrato il favore del pubblico che alla prima ha risposto con intensi calorosi.

Però… chissà quando potremo assistere di nuovo a una produzione intelligente e intrigante ma ambientata nei tempi previsti dalla vicenda e dal libretto? Sta diventando cosa sempre più rara – e proprio per questo desiderabile.

Intervista con Eva-Maria Sens

Innsbruck, 13 settembre 2023

Orlando Perera ha intervistato la nuova Direttrice Artistica delle Settimane di Musica Antica di Innsbruck

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Dopo Ottavio Dantone, nuovo Direttore Musicale delle Festowochen der Alten Musik di Innsbruck, ci pare giusto sentire la voce anche dalla nuova Direttrice Artistica, Eva-Maria Sens. Bavarese di Norimberga, 42 anni, ha cominciato a studiare musica quand’era ancora una bimbetta volitiva. I genitori raccontano che il solo modo di mandarla a dormire era farle ascoltare i dischi di Frans Bruggen. Dopo il diploma al Liceo Musicale, si iscrive all’Università di Friburgo in Brisgovia, dove studia letteratura tedesca e storia medievale e moderna. La svolta professionale avviene nel 2008, quando viene assunta come project manager dall’Orchestra da camera di Basilea. Qui vive esperienze per lei fondamentali e conosce grandi artisti come Cecilia Bartoli, Sol Gabetta, Giovanni Antonini, lo stesso Dantone. Nel 2015 si trasferisce a Innsbruck con l’incarico di Capo dell’Amministrazione Artistica delle Festwochen. Infine, pochi mesi fa la nomina a Direttrice Artistica. La sua passione non segreta è il lavoro a maglia.

Orlando Perera – La sua nomina a Direttrice Artistica delle Innsbrucker Festwochen der Alten Musik, per la quale le faccio molte congratulazioni, si accompagna a importanti cambiamenti organizzativi. Se ho capito bene, scompare il ruolo di sovrintendente, ora affidato a un team amministrativo, e si aggiunge quello di direttore musicale, per il quale lei ha scelto una figura prestigiosa come Ottavio Dantone. Che cosa vi proponete con questa riforma?
Eva-Maria Sens – In realtà, i cambiamenti strutturali non sono così grandi come potrebbero sembrare: nella gestione del Festwochen c’è sempre stato un direttore commerciale esecutivo a fianco del direttore artistico. Nel corso degli anni, era però diventato chiaro come quest’ultimo ruolo, di Direttore artistico strategico, fosse diventato duplice, assorbendo di fatto anche quello di direttore musicale. Il nuovo organigramma fa chiarezza: abbiamo ora, con ruoli distinti, un direttore commerciale esecutivo, un direttore artistico. e un direttore musicale..

OP – Anche lei ha avuto un peso nella nomina di un musicista/direttore di fama internazionale come Dantone?
EMS – C’era una commissione apposita per la selezione del direttore musicale, composta da esperti esterni e da dirigenti delle Festwochen, Markus Lutz e me stessa.

Concerto di mezzogiorno, Hofgarten Pavillon

OP – Come vi dividerete la responsabilità sulle scelte artistiche e musicali?
EMS – Entrambi mettiamo sul tavolo i nostri punti di forza, competenze, opinioni, prospettive, suggerimenti. Ottavio Dantone da un punto di vista puramente musicale, io in una prospettiva artistico-strategica. Tutto è proposto in modo aperto, poi valutiamo, anche con il nostro drammaturgo, quale sorta di mosaico musicale colorato possiamo creare. Dalle diverse idee emergono poco a poco i singoli progetti e alla fine il programma completo di un’edizione delle Festwochen.

OP – A parte gli aspetti organizzativi, che cosa pensate di mantenere delle scelte della passata gestione di Alessandro De Marchi, e cosa cambierà?
EMS – Posso dire che resteranno certamente il Concorso Cesti e il ciclo Barockoper:Jung, entrambi destinati ai giovani interpreti. Che cosa cambierà lo riveleremo alla presentazione del nostro programma a novembre.

OP – Le Festwochen anche quest’anno si sono chiuse con un bilancio di pubblico e di critica molto brillante. Qual è secondo lei il futuro del repertorio musicale antico?
EMS – È un grosso interrogativo. Per rispondere probabilmente avrei bisogno di una sfera di cristallo o possedere doti da chiaroveggente. In ogni caso è importante che esistano in futuro luoghi come Innsbruck, dove la musica antica e la prassi storicamente informata abbiano un loro ancoraggio sicuro, dove possono essere riscoperte ed esplorate.

Concerto nella Riesensaal, Hofburg

OP – A proposito, negli anni scorsi abbiamo assistito a ottime esecuzioni di autori come Paër e Mercadante, che appartengono di diritto all’Ottocento. Quali sono secondo lei i limiti temporali del concetto di musica antica?
EMS – Non sono fra quelli che pensano che tutto ciò che è stato composto ieri sia già musica antica. Ma dobbiamo certamente fare i conti con il fatto che ad ogni decennio che passa, anche i confini di ciò che retrospettivamente chiamiamo musica antica in teoria si spostano. Alla fine, il focus delle Festwochen è decisamente sulla pratica esecutiva storica. Ciò apre nuove prospettive anche per la definizione di musica antica.

OP – Parlando di Alte Musik, viene spontaneo pensare non solo al Sei-Settecento, ma anche a epoche precedenti, ad esempio il Tre-Quattrocento, periodo di grande fioritura musicale in Europa. Però finora non ricordo di aver visto molto di questo repertorio nei cartelloni delle Festwochen. Che cosa ne pensa?
EMS – In passato abbiamo sempre avuto in repertorio musica del Medioevo e del Rinascimento. Ad esempio con i fantastici musicisti de La Fonte Musica, Tasto Solo e altri. Naturalmente continuerà ad essere così anche in futuro.

L’Olimpiade di Vivaldi, regia di Stefano Vizioli e scenografia di Emanuele Sinisi, estate 2023

OP – Come italiano mi permetta un pizzico di vanità. Fin dalla nascita i compositori e i musicisti del mio paese hanno sempre avuto un ruolo centrale nei vostri cartelloni. Credo sarà difficile cambiare questa realtà, oppure puntate anche su altro?
EMS – Innsbruck e la sua storia musicale hanno sempre avuto forti legami con l’Italia, non fosse che per la posizione geografica. E l’Italia aveva e ha tuttora grandi artisti. Ma questo vale anche per altri paesi, ed è nostro compito come Festival non guardare in una sola direzione.

OP – Sappiamo tutti come oggi sia complicato far quadrare i bilanci nelle attività musicali. A Innsbruck su quali risorse potete contare? Cercherà nuovi sponsor?
EMS – Siamo sostenuti dalla città di Innsbruck, dal land del Tirolo e dal governo federale. In più abbiamo un consolidato rapporto con i nostri sponsor. Siamo enormemente grati a chi ci offre questa solida base sulla quale possiamo lavorare con una certa tranquillità.

OP – Ancora un paio di questioni organizzative. Con altri colleghi critici, ci siamo spesso confrontati sul calendario molto esteso delle Festwochen. Con una normale trasferta di tre-quattro giorni è difficile riuscire a vedere più di un’opera e uno o due concerti. Per vedere di più, bisognerebbe fermarsi a Innsbruck almeno quindici giorni. Vi siete mai posti il problema?
EMS – Il nostro festival si svolge da metà luglio a fine agosto. È nella natura delle cose che non possiamo realizzare tutti i nostri format in pochi giorni: è logisticamente impossibile.

OP – Altro aspetto non secondario, i programmi di sala e la documentazione sono quasi tutti solo in tedesco, lingua che non tutti conoscono. Non sarebbe il caso di affiancare una traduzione almeno in inglese dei testi principali?
EMS – Devo rimandarvi al nostro sito web in inglese, ai sottotitoli in tedesco e inglese nonché ad alcuni testi riassuntivi del nostro programma serale. Ma ovviamente c’è sempre e comunque spazio e modo per migliorare.

OP – Per finire, è vero che la sua passione è il lavoro a maglia? C’è una relazione tra musica e tricot?
EMS – Molto probabilmente sì. Per me il lavoro a maglia ha qualcosa di meditativo. Se devo realizzare un modello ai ferri, penso a un ritmo melodico che si auto-esegue senza sosta nella mia testa con fraseggi, accenti, ritardandi, semiminime costanti e crome fluenti, mentre sferruzzo. Non esiste nient’altro. Solo questo ritmo ticchettante. La musica tende ad avere un effetto simile se permetti a te stesso di abbandonarti completamente.

Juditha Triumphans di Vivaldi, regia di Elena Barbalich e scenografia di Massimo Checchetto, estate 2023

TEATRO COMUNALE ZANDONAI

Teatro Comunale Zandonai 

Rovereto (1784-1871)

470 posti

La costruzione del Teatro Comunale “Riccardo Zandonai” un tempo chiamato “Sociale”, avvenne per opera dell’architetto bolognese Filippo Macari, allievo di Carlo Galli da Bibbiena, nel 1783. Il modello architettonico era quello del Teatro Filarmonico veronese. Fu il primo teatro del Trentino, frutto dell’atmosfera culturale aristocratico-borghese della Rovereto del secolo XVIII. In origine era una semplice costruzione in legno, e si limitava solo al corpo del palcoscenico e alla sala. Poi fu sostituita da un’opera in muratura, con il progetto di Macari, e nel 1871 venne completata con la nuova facciata, opera dell’architetto Saverio Tamanini.

Il teatro senza la facciata, l’atrio e il salone al primo piano, venne inaugurato il 26 maggio 1784 con l’ opera Giannina e Bernardone di Cimarosa. Nel 1870-71 si costruì il corpo verso il corso, che comprendeva l’atrio ed il pianoterra, il salone al primo piano e la bella facciata attuale. Nel 1827, per speciali convenzioni, il teatro roveretano diventò proprietà privata, mentre i palchi rimasero ai singoli palchettisti. Per rendere possibili i vari restauri e completamenti, ostacolati dalle divergenze insorte tra i palchettisti e i proprietari, il Comune lo acquistò nel 1867 e lo cedette gratuitamente ai palchettisti, con l’obbligo però di eseguire prontamente i necessari lavori di restauro.

Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale il teatro subì le più barbare devastazioni, venne usato come stalla, magazzino e caserma. Fu ristrutturato in breve tempo e riaperto con l’opera Francesca da Rimini dell’illustre cittadino Riccardo Zandonai. In questa occasione si decise di intitolare il teatro al grande compositore. Dall’ottobre all’aprile del 1924 il teatro venne rimesso completamente a nuovo, ed inaugurato con Giulietta e Romeo di Zandonai alla presenza del principe Umberto di Savoia.

L’ultima fase del restauro del Teatro Zandonai, iniziata nel 2010, si è conclusa alla fine del 2013. Le complesse ed articolate fasi del restauro hanno interessato principalmente la verifica tecnica e la realizzazione dell’intera impiantistica termica, elettrica e di condizionamento, la realizzazione del sistema antincendio e di sicurezza; il recupero ed il restauro degli elementi storici ancora esistenti nel teatro che ospita ogni anno una stagione di prosa molto qualificata ed è il “tempio” della cultura cittadina e dei grandi eventi.

   

MITO

foto © Lorenza Daverio

MITO Settembre Musica

Torino, Auditorium Giovanni Agnelli, 8 settembre 2023

Leonard Bernstein, Wonderful Town

(esecuzione in forma di concerto)

Il pubblico balla la conga all’inaugurazione di MITO Settembre Musica

A Milano al Teatro alla Scala e a Torino all’Auditorium Giovanni Agnelli il giorno dopo, MITO Settembre Musica, quest’anno dedicato a “Città”, inizia all’insegna del musical: viene eseguito infatti Wonderful Town, lavoro di Leonard Bernstein su libretto di Joseph A. Fields e Jerome Chodorov e con i testi delle canzoni di Betty Comden e Adolph Green. Basato sulla pièce teatrale My Sister Eileen di Fields e Chodorov (1940), a sua volta nata da racconti autobiografici di Ruth McKenney pubblicati per la prima volta sul New Yorker alla fine degli anni Trenta, racconta delle due sorelle Ruth e Eileen partite dall’Ohio e che a New York aspirano al successo, la prima come scrittrice, la seconda come attrice.

Atto I. Estate 1935, al Greenwich Village di New York. Una guida conduce un gruppo di turisti alla scoperta di Christopher Street e dei suoi variopinti abitanti. Entrano Ruth ed Eileen, appena arrivate con l’ultimo treno dall’Ohio. Ruth, la sorella più grande, è una scrittrice intelligente, mentre Eileen, una bionda affascinante che attira l’attenzione di tutti, vorrebbe fare l’attrice. Un proprietario del quartiere le convince con l’inganno ad affittare un minuscolo e malridotto monolocale nel seminterrato di un condominio. L’appartamento si trova sopra un cantiere della nuova metropolitana in costruzione in cui si trivella con l’esplosivo. L’unica finestra è sotto il livello della strada e fa entrare la luce accecante di un lampione. L’inquilina precedente, Violet, è la “signora della notte” del quartiere i cui clienti continuano ancora a bussare alla porta. Scoraggiate, le ragazze si fanno prendere dalla nostalgia di casa. Il giorno dopo, è con rinnovato ottimismo che le due ragazze riprendono da dove erano rimaste. Ruth viene accolta con indifferenza professionale, mentre Eileen, altrettanto sfortunata, conosce Frank Lippencott, un giovane commesso presso un emporio alimentare, che naturalmente si innamora subito di lei. Ruth è stupefatta dalla capacità di Eileen di attrarre gli uomini e la confronta con la propria incapacità al riguardo. A forza di chiacchiere, Ruth riesce a intrufolarsi nella redazione di una prestigiosa rivista letteraria. Qui conosce Bob Baker, un redattore disilluso che critica l’ingenuità dei racconti della giovane, consigliandole di scrivere di cose che ha vissuto sulla sua pelle. Le suggerisce inoltre di non perdere tempo a New York, una città difficile in cui anche le persone di talento si perdono per strada. Eileen, intanto, si è innamorata di Frank che l’ha sedotta offrendole pranzi gratis presso il locale in cui lavora. Più tardi, nella stessa giornata, evidentemente interessato a Ruth e desideroso di parlarle dei suoi racconti, Bob Baker riesce a rintracciare l’appartamento in cui vivono le sorelle. Anziché Ruth, si trova di fronte Eileen, che rimane colpita favorevolmente dai suoi modi distinti. Viene a fare visita un altro personaggio: Wreck, un giocatore di football americano ai tempi del college. Wreck convive con la fidanzata Helen, che è in attesa di una visita da parte della madre. Preoccupati dall’impressione che potrebbero fare sulla signora, Wreck e Helen chiedono a Ruth ed Eileen se lui potrà soggiornare da loro per la durata della visita. Eileen si dice d’accordo e Wreck ricorda i giorni felici al college di Trenton Tech. Compare Ruth che, trovandosi di fronte Bob, lo invita alla cena che le sorelle intendono improvvisare la sera stessa. Eileen, da parte sua, ha già invitato il suo Frank e Chick Clark, un losco cronista cittadino. Si tratta di una comitiva improbabile in cui la conversazione fatica a fluire con spontaneità. La serata s’interrompe quando Ruth e Bob iniziano a litigare. Uscendo dall’appartamento, Bob si chiede se riuscirà mai a trovare il tipo di ragazza che cerca. Per avere una scusa per stare da solo con Eileen, Chick Clark affida a Ruth un reportage giornalistico inventato di sana pianta. Credendo che si tratti della sua grande occasione, Ruth si dirige al cantiere navale di Brooklyn per intervistare un gruppo di marinai brasiliani appena sbarcati. Armata di domande su ogni tema di attualità americana, dal baseball alla politica estera, Ruth scopre che l’unico argomento d’interesse per i marinai è il ballo. I marinai inseguono Ruth, ormai disperata, fino all’appartamento, ballando per tutto il tragitto. Quando conoscono Eileen, si sfiora il caos. In mezzo alla confusione, Ruth s’imbatte in Bob e gliene dice quattro. Eileen viene arrestata per turbamento dell’ordine pubblico.
Atto II. La sempre affascinante Eileen ha trasformato il carcere in un hotel privato e gli agenti le dedicano addirittura una serenata, ma Ruth poi riesce a farla scarcerare. La stessa Ruth, che nel frattempo non è riuscita a mantenersi con la scrittura, accetta un lavoro da “donna sandwich” che la costringe a girare per la città esibendo un cartello pubblicitario per il Village Vortex, il nuovo night alla moda. A causa dell’arresto di Eileen, il proprietario sfratta le sorelle dal monolocale. Bob Baker viene a trovare Eileen per dirle che si è licenziato per via di una discussione col capo sui meriti letterari di Ruth. Eileen è emozionata: il fatto, per Rudi, può significare una cosa sola. Grazie alla fama acquisita (è apparsa, infatti, in prima pagina sui giornali), a Eileen è offerta la possibilità di cantare al Village Vortex e lo sfratto viene annullato. Mentre al Vortex l’ambiente prende una piega jazzistica, Eileen, presa dalla paura del pubblico, chiede a Ruth di raggiungerla sul palco per cantare una delle canzoni preferite dalla loro famiglia, che riscuote un clamoroso successo. Bob trova Ruth e le fa una dichiarazione d’amore. E la serata si conclude con la convinzione che New York è in grado davvero di essere una meravigliosa città, una “Wonderful Town”. 

Wonderful Town aveva debuttato nel 1953 a Broadway con Rosalind Russell, la stessa attrice che aveva interpretato il ruolo di Ruth Sherwood nel film My Sister Eileen del 1942. Il musical ha vinto cinque Tony Awards, tra cui quello per il miglior musical e quello per la migliore attrice, e ha dato vita a diverse produzioni. Nel 1958 è stato oggetto di una registrazione televisiva della CBS ed è uscito nel West End londinese nel 1955 e 1986. Nel 2003 ha visto un revival a Broadway e nel 2016 la Staatsoperette di Dresda ne ha messo in scena una versione in tedesco. Composto in poco più di un mese, in Wonderful Town gli autori rivivono la loro vicenda biografica quando, alla fine degli anni ’30, avevano condiviso un appartamento al Village e si esibivano al Village Vanguard, un locale che nel musical diventa il Village Vortex. Per di più anche Bernstein era arrivato dalla provincia. Forse è per questo che la musica ha una spontaneità e una vivacità così particolari. 

Ora, in forma concertistica, con i dialoghi quasi completamente tagliati e in mancanza di un qualsivoglia tentativo di drammaturgia, la concentrazione è tutta sulla gioiosa e trascinante musica del trentacinquenne direttore e compositore che firma qui il suo secondo musical – nel 1944 c’era stato On the Town – ma aveva già scritto la musica di due balletti e un’opera, Trouble in Tahiti. I venti numeri sono affidati all’esperta bacchetta di Wayne Marshall che ricrea con grande sensibilità e verve questa insolita partitura che sembra un divertissement musicale ricco di citazioni e stili differenti. Vi si trovano infatti i modelli delle musiche anni ’30 ben conosciuti al pubblico di allora: stilemi jazz, ritmi di foxtrot e ragtime, blues ma anche temi irlandesi, melodie alla Cole Porter, colori caraibici, swing e molto altro ancora. Vero è che nella fretta Bernstein utilizza musiche già da lui composte, ma così riesce a ricreare l’estrema varietà di quel melting pot che era allora la “wonderful town”.

L’Orchestra del Regio risponde con grande duttilità ed entusiasmo, pur non essendo abituata a questi ritmi. Vengono così esaltati i momenti melodici e messi in evidenza nei vari momenti solistici i suoi migliori strumentisti – particolarmente apprezzato l’interventi del clarinetto nella seconda parte  – e la brillantezza dei colori. La precisione degli attacchi e la pienezza dei suoni sono esaltati dall’acustica della sala ideata da Renzo Piano. Il coro partecipa con lo stesso entusiasmo e i maschi forniscono anche voci singole ai poliziotti e agli abitanti del Greenwich Village, mentre per Violet c’è il soprano Eugenia Braynova.

Eccellenti interpreti specializzati in questo genere si confermano i cinque cantanti, anche se più che nella coppia di innamorati Eileen (Lora Lee Gayer) e Robert (Ben Davis) si apprezza la duttilità vocale e la presenza comica di Ruth, personaggio originalmente cucito sulla personalità di Rosalind Russell, che Alysha Umphress ricrea con irresistibile comicità. Suo è il pezzo più applaudito dal pubblico, l’esilarante “One Hundred Easy Way to Lose a Man”, i cento facili metodi per perdere un uomo, in cui la camaleontica e graffiante voce del mezzosoprano americano dà vita musicale ai divertenti versi di Comden e Green. Il tenore Ian Virgo e il baritono Adrian Der Gregorian coprono con grande efficacia numerosi personaggi: il primo Lonigan, un Redattore e Chick Clarke, il secondo si fa ammirare come Guida, Secondo Redattore, Frank e soprattutto Wreck, il giocatore di baseball che ha fatto una brillante carriera universitaria non per meriti culturali, ma per saper «passare la palla» come nessun altro. Tra gli ensemble, della spassosa e surreale “Conversation Piece” Bernstein si ricorderà per il suo Candide, così come nel “Wrong Note Rag” sembra fare il verso a certa musica d’avanguardia dell’epoca. 

Successo travolgente e insistita richiesta di bis: vengono concessi ovviamente “It’s Love” e il finale primo, quella “Conga” a cui gli spettatori in piedi si lasciano andare ballando. E c’è chi dice che il pubblico torinese è freddo…

Calibano

Calibano, l’Opera e il mondo

112 pagine, numero uno, giugno 2023

Madama Butterfly, l’orientale

Il numero uno della rivista Calibano rimane sul tema del razzismo affrontando questa volta i luoghi comuni sulla donna orientale. Spunto dell’analisi è la produzione all’Opera di Roma di Madama Butterfly, il capolavoro di Puccini «che naturalmente non deve in alcun modo essere messo in discussione, anche perché Puccini, con la sua immensa arte e la sua acutissima sensibilità, crea una figura femminile che nella sua tragicità smaschera l’ipocrisia del maschio occidentale. Pinkerton la vorrebbe come un trastullo servizievole, ma Butterfly si eleva su di lui di mille altezze con la sua umanità potentissima», scrive Paolo Cairoli direttore della pubblicazione.

Nei dotti interventi si parla del rapporto del compositore con le donne, del giapponismo, di geishe e prostitute, ma anche di manga, teatro kabuki e dell’influenza del Giappone sull’immaginario architettonico novecentesco, sulla moda, nel cinema.

Sempre intriganti le illustrazioni create con Text To Image, il software di intelligenza artificiale a cui sono fornite parole chiavi o brani contenuti nel testo degli articoli, oltre a specifiche indicazioni stilistiche, perché si generino immagini in un processo ripetuto più volte per ciascuna immagine fino a raggiungere il risultato desiderato: il frutto di una comunicazione ciclica fra persona e macchina.

La colonia

Pierre de Marivaux, La colonia

Torino, Teatro Romano, 3 settembre 2023

Protofemminismo nel secolo dei lumi

“Commedia utopica”, La colonie fu pubblicata sul Mercure de France nel dicembre nel 1750 riadattando una vecchia commedia che non aveva avuto successo: i tre atti de La nouvelle colonie ou la Ligue des Femmes del 1729 diventano un atto unico e questo secondo tentativo è destinato alla lettura “dans une Société”, non sembrando i tempi ancora maturi per declamare parole tanto sovversive sulle tavole di un palcoscenico. Era successo d’altronde a un altro testo di Marivaux ispirato alle idee dell’Illuminismo, L’Isola della Ragione, che dopo il buon esito riscontrato attraverso le letture ad amici e intellettuali non si era però trasformato in un successo teatrale.

«Ah çà, Madame Sorbin, ou plutôt ma compagne, car vous l’êtes, puisque les femmes de votre état viennent de vous revêtir du même pouvoir dont les femmes nobles m’ont revêtue moi-même ; donnons-nous la main, unissons-nous et n’ayons qu’un même esprit toutes les deux». (Oh sì, Signora Sorbin, o meglio mia compagna, perché lo siete, visto che le donne del vostro Stato vi hanno appena rivestito dello stesso potere di cui mi hanno rivestito le nobildonne; diamoci la mano, uniamoci e sia unico lo spirito di tutte e due). Così inizia con la prima battuta che la “femme noble” Arthénice rivolge alla “femme d’artisan” Madame Sorbin. Da qui parte la rivoluzione con cui le donne intendono appropriarsi di quello che fino a quel momento è stato prerogativa dei soli uomini: «Vogliamo essere coinvolte in tutto, esercitare con voi tutti i lavori, quelli della finanza, della magistratura e della spada». Ma, ahimè, le prime crepe nella “lega” delle donne non si devono alla tracotanza del sesso forte, ma si formano proprio all’interno dell’universo femminile e di fronte alla necessità di imbracciare le armi di fronte all’attacco di forze ostili le donne preferiscono cedere il comando ai maschi.

«Tra ventimila anni saremo ancora la notizia del giorno» ripete nel finale Mme Sorbin. «E se non ci riusciremo, ci riusciranno le nostre nipoti» aggiunge Arthénice. Dopo meno di trecento anni noi oggi vediamo che molte delle istanze “utopiche” si sono realizzate, ma ancora molto resta da fare. Anche in questo testo Marivaux si dimostra maestro nello smontare e mettere a nudo la complessa macchina nel mondo degli uomini. «Un precursore dell’analisi dell’anima e, in quanto tale, inevitabilmente contemporaneo» sintetizza efficacemente Beppe Navello.

Ospite un po’ incongruo della rassegna Torino Crocevia di sonorità – che ha presentato concerti jazz, di musica da camera, di percussioni e fiati realizzati con il Conservatorio Statale di Musica “Giuseppe Verdi di Torino” e con formazioni di musicisti del repertori folk e contemporaneo – e in collaborazione con i Musei Reali e l’associazione Teatro Europeo, lo spettacolo che era stato programmato l’anno scorso a Firenze occupa ora quello spazio centralissimo ma molto poco utilizzato dei resti del Teatro Romano compreso tra la Manica Nuova di Palazzo Reale e la Torre Palatina. Lasciato l’intimo saloncino Paolo Poli del Teatro della Pergola, gli spazi aperti sembrano ancora più adatti alla vicenda ambientata in un’isola inospitale su cui si sono rifugiati i personaggi fuggiti alla minaccia di chi ha invaso la loro patria. Prima assoluta in italiano, il testo è stato tradotto da Beppe Navello, qui anche regista, nell’ambito della SEM (Scènes Européennes Marivaux), un progetto internazionale che ha anche avviato la versione nella nostra lingua dell’integrale del teatro di Marivaux. Se ne aveva avuto un assaggio un anno fa con La seconda sorpresa dell’amore vista al milanese Teatro Grassi. Assieme a cinque pièces, tra cui le altre due del “trittico delle isole”, questo testo entra nel terzo dei sette volumi previsti presso l’editore CuePress.

 

Con la stessa compagnia de La seconda sorpresa dell’amore Beppe Navello allestisce questo apologo venato di amarezza con le giuste scenografie e i gustosi costumi di Luigi Perego e le luci di Orso Casprini. Le musiche di Germano Mazzocchetti, rese efficacemente al pianoforte da Alessandto Panatteri, danno un ironico tono da cabaret che però ben si adatta alla parola del drammaturgo francese – «un ricamo linguistico di matematica perfezione» come è stato definito – realizzato nella sciolta dizione dei dieci bravissimi attori guidati con precisione dalla mano sapiente del regista.

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