Le château de Barbe-Bleu / La voix humaine

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Béla Bartόk, Il castello del duca Barbablù

Francis Poulenc, La voix humaine

Parigi, Opéra Garnier, 12 dicembre 2015

★★☆☆☆

La bella e la bestia

Due opere diversissime separate da quarant’anni, ma entrambe ambientate in un ambiente claustrofobico (un castello misterioso, una camera). Entrambe trattano dell’amore disperato di una donna: per un bel tenebroso dal passato inquietante, quella di Bartόk, per un mascalzone che le telefona da un ristorante in cui si trova presumibilmente con la sua nuova fiamma, quella di Poulenc. Ma qui terminano le analogie: il primo è tratto da un racconto popolare che si perde nel tempo, il secondo è una moderna conversazione telefonica. E non basta eseguire senza soluzione di continuità le due opere e usare come trait d’union alcune sequenze del film di Cocteau La belle et la bête per dare unità alle due opere. Da un regista come Warlikowski, visto quello che aveva fatto col Don Giovanni di Mozart, ci saremmo aspettati poi un trattamento osé della vicenda: il testo di Béla Balázs è pieno di allusioni sessuali neanche troppo velate. Oppure horror.

Invece, Warlikowski ci offre una lettura prosaica a cominciare dalle scelte visive improntate alla più banale rappresentazione di quello che dice il testo. Per la camera delle torture avremmo visto almeno un bell’armamentario bondage e sadomaso invece di una tinozza con un drappo rosso. Così per quella delle armi qualcosa di più di un set di coltelli da cucina. Le porte che si aprono fanno scorrere in scena delle grandi teche trasparenti contenenti oggetti che alludono a quello che vede Judith, ma il giardino splendidamente fiorito è una banale aiuola di fiori di plastica; la camera dei tesori una vetrina di gioielliere; lo sterminato paesaggio del regno di Barbablù una sfera di vetro di quelle con la neve dentro; il lago di lacrime un blocco di ghiaccio (perlomeno così sembra) e un bambino (Barbablù da piccolo) che piange.

Lo spettacolo era iniziato in maniera originale: ancora prima del prologo parlato, che spesso viene omesso ma che qui è invece presente, Barbablù si era presentato come un prestigiatore e aveva fatto magicamente lievitare la sua bionda assistente e fatto comparire dal cilindro colombe e conigli di prammatica. Sul fondo della scena, realizzata in una specie di vetrocemento, si susseguono videoproiezioni che insistono sul viso di un bambino in lacrime o col naso sanguinante. Si sa, i cattivi hanno avuto tutti un’infanzia difficile. Per di più un incidente tecnico ha disturbato la serata allorché un grande tendaggio della scenografia si è inceppato e dietro le quinte hanno trafficato non poco per risolvere il problema mentre il pubblico di Palais Garnier (tra un contrappunto di colpi di tosse e zaffate di fiati agliati) si interessava di più alla tenda che non ne voleva sapere di sparire che alla musica. Il mistero, il simbolismo, la metafora psicanalitica dell’opera di Bartόk non interessano al regista polacco che riduce la vicenda a una storia di semplice poligamia: Barbablù ama quattro donne diverse, ognuna per ogni fase della giornata e infatti nell’ultima teca troviamo proprio le tre mogli precedenti, signore non proprio giovani ma tirate a lucido, cui si vede costretta a unirsi la povera Judith.

Una quinta donna appare alla fine. È “Elle”. Infatti senza interruzione si innesta la vicenda della Voix Humaine (1959) di Poulenc con un’unica protagonista, un lui che non sentiamo all’altro capo del telefono e un cane che non vediamo. Ma il vero altro personaggio è proprio il telefono, una macchina che per la prima volta entra da protagonista nell’opera lirica (una comparsa il nuovo mezzo di comunicazione l’aveva già fatta in Intermezzo di Strauss e nel Console di Menotti). Ma nell’allestimento di Warlikowski il telefono non è usato, rimane lì in bella vista sulla commode déco che ospita anche il mobile bar da cui la protagonista si rifornisce con abbondanza. “Elle” smania al vento, si rotola sul divano e per terra con il viso sfatto dal trucco e a un certo punto entra un uomo insanguinato (“Lui”? Un altro ancora? Il Barbablù di prima?), lei tira fuori un revolver, forse per finirlo, invece no, lo usa per ammazzarsi e il testo di Cocteau, che è stato cavallo di battaglia per tutte le dive della scena (Simone Signoret, Ingrid Bergman, Anna Magnani tra le tante), diventa un’altra cosa: il soliloquio allucinato prima del suicidio di una donna disperata che ha ucciso il suo amante.

La presenza di un solo personaggio ha indotto il regista a moltiplicare in un grande schermo dietro di lei la sua immagine ripresa dall’alto (però registrata precedentemente e con un divano leggermente diverso). Ma così invece di concentrarci sulla prestazione vocale della bravissima Barbara Hannigan ci si distrae a guardare i suoi contorcimenti corporei.

La Judith dell’opera di Bartόk è una manierata Ekaterina Gubanova dagli acuti facili ma dal registro basso deludente. John Relyea ha la giusta presenza e la voce è scura quanto necessario. Espone molto bene il prologo, generalmente affidato a un attore, in ungherese, quella lingua strana e dolcissima in cui abbiamo solo quest’opera.

Vero trionfatore della serata è Esa-Pekka Salonen che della partitura di Bartόk svela tutta la spettrale densità e di quella di Poulenc rende magnificamente i colori lirici e intimi.