Don Giovanni

 

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

★★★☆☆

Vienna, Staatsoper, 6 dicembre 2021

bandiera francese.jpg Ici la version française

(diretta streaming)

Luci e ombre nel Mozart di Kosky

La ripresa video indugia sulle file di poltrone e sui palchi desolatamente vuoti della Staatsoper di Vienna: Don Giovanni viene rappresentato senza pubblico in seguito alla recrudescenza di infezioni da Covid-19 in Austria. Eppure solo pochi mesi fa si era ritornati a riempire i teatri con le mascherine al chiuso e senza all’aperto.

Un altro motivo di delusione è la scenografia che ci si presenta ad apertura del sipario: Katrin Lea Tag ha scelto un pendio roccioso di nera lava che non sfigurerebbero in Die Walküre o En attendant Godot. L’idea che questa ambientazione, che è difficile definire piacevole, sarà la scena fissa per tutte le tre ore di spettacolo ha un effetto sconfortante. E fissa sarà, infatti, con piccole varianti: diventerà il prato di Z la formica per la festa del cavaliere; ospiterà una specie di albero/concrezione per la scena di Donna Elvira alla finestra nel secondo atto; avrà una pozza di acqua come tomba del Commendatore. Le pietre sono dominanti: con i sassi viene ucciso il Commendatore e un sasso è la sua effigie tombale; sassi sono le armi di Masetto e ancora sassi le prelibatezze dell’ultima cena di Don Giovanni. Se il colore lavico domina nella scenografia, la stessa Katrin Lea Tag non si risparmia invece sui colori e sulle fantasie floreali degli abiti dei personaggi, tutti neo-hippie tranne Don Ottavio, nel suo completo color sabbia, e Leporello, coatto punk dagli occhi bistrati e con le unghie smaltate, di nero of course.

Si è già capito che l’ambientazione è contemporanea, ma il regista affronta la vicenda in modo nel complesso tradizionale. Dopo una serie praticamente ininterrotta di allestimenti di successo, sempre originali, spesso geniali, questa volta Kosky sembra inciampare in questo Mozart – tra l’altro anche il suo approccio a Die Zauberflöte non era stato pienamente convincente. Chi si aspettava una lettura inedita rimarrà deluso, così come chi pensava alle trovate spassose a cui ci ha abituato il regista australiano. Il senso di freddezza che dà il suo spettacolo non è soltanto dovuto alla mancanza di pubblico.

Del cast vocale si può dire che nel complesso è “interessante”. Il basso-baritono americano Kyle Ketelsen (Leporello a Londra nel 2008)  lo ricordavamo per la grande presenza scenica e la intrigante espressività. Alle prese con la vocalità mozartiana vengono a galla alcune incertezze di intonazione e un registro basso non molto sonoro. È fatta salva comunque la convincente definizione del personaggio, carico di un’energia che solo un attacco di cuore riesce a spegnere – è così infatti che muore il Cavaliere dopo la fatale stretta di mano con il Commendatore e anche lui dopo la morte si alza e lascia il palcoscenico come un fantasma. Sia lui che il Commendatore sono immortali, il primo per punire il peccatore, il secondo per continuare il suo ruolo di figura dionisiaca in equilibrio tra eros e thanatos.

Con Leporello Don Giovanni ha un rapporto da padrone col suo servo/cane, i due si completano a vicenda, si scambiano i costumi, litigano insieme, ridono insieme, imbrogliano insieme, si sballano insieme e il servo ogni tanto riceve uno schiaffo dal padrone. Nell’aria dello champagne Leporello è una marionetta nelle sue mani, ma non di rado si appoggia sul petto paterno del padrone. Alla fine dell’opera Leporello, di nuovo in felpa con cappuccio seduto su una roccia, è in attesa di un nuovo padrone, siamo al punto di partenza. Il “fantasma” del risorto Don Giovanni, mentre si allontana, lancia uno sguardo d’addio ai compagni e posa una mano teneramente sulla testa di Leporello. Con un solo gesto prova quanto fosse forte il loro legame. Ma all’inizio il risentimento del servo in attesa che Don Giovanni se la spassi con le sue donne ha toni insolitamente rabbiosi e realistici, ben caratterizzati da Philippe Sly (Don Giovanni ad Aix-en-Provence nel 2017) che, accanto a sorprendenti doti acrobatiche, dimostra anche nella voce sicurezza e agilità. Elvira qui non è una furia isterica, è una donna irrimediabilmente innamorata che non si arrende mai: «Mi tradì quell’alma ingrata» è cantata la prima volta con incredulità e solo la seconda volta, come dopo aver preso coscienza, Kate Lindsey emette un lamento rabbioso. Interprete che ha spaziato da Monteverdi all’opera contemporanea, il soprano americano affronta il personaggio con grande partecipazione, ma la vocalità non è esattamente belcantistica e se si ammira il temperamento, la linea vocale non risulta delle meglio definite. La Donna Anna di Hanna-Elisabeth Müller ha un che di acido nel timbro e come personaggio proprio non lega con Don Ottavio, qui un Stanislas de Barbeyrac più eroico che lirico e non sempre a suo agio nelle agilità. I loro rapporti sembrano labili, se non tesi, fin dal primo momento e nessuno scommetterebbe sulla loro unione coniugale. Il Commendatore di Ain Anger non manca di autorevolezza malgrado un evidente affaticamento vocale. Molto meglio la Zerlina di Patricia Nolz, bella, seducente e dalla voce incantevole, e il Masetto molto ben caratterizzato di Peter Kellner.

Il direttore musicale del teatro Philippe Jordan inizia bene, con una sinfonia travolgente ma precisamente concertata, poi talora la drammaticità ha il sopravvento su quanto avviene in scena e le voci sono spesso coperte dall’orchestra o messe in difficoltà dai tempi veloci. Molto belli in compenso i recitativi, naturali e con pause significativamente teatrali. La versione scelta è quella di Vienna ma manca il duetto Leporello-Zerlina del secondo atto e c’è il finale di Praga.

Questo è il debutto nel teatro viennese di Barrie Kosky ed è anche il primo approccio alla trilogia dapontiana che completerà con Le nozze di Figaro e Così fan tutte nelle prossime stagioni. Nel frattempo dal 13 dicembre il teatro dovrebbe riaprire col pubblico presente.