Aida

foto © W. Hösl

Giuseppe Verdi, Aida

Monaco di Baviera, Nationaltheater, 1 giugno 2023

★★★★☆

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Aida e Radames, moderni Giulietta e Romeo di paesi in guerra fra loro

La terz’ultima opera di Giuseppe Verdi fu commissionata dal khedivè del Cairo Isma’il Pascià, lo stesso che nel 1861 aveva domato un’insurrezione in Sudan. Con quest’opera richiesta al maggior operista dell’epoca – in caso di suo rifiuto si sarebbero fatti i nomi di Massenet e Wagner! – Isma’il intendeva celebrare l’imperialismo del suo paese, quel colonialismo interno al continente africano che prendeva a modello quello delle grandi potenze europee. Nel suo paese, l’Egitto, Aida era dunque l’illustrazione del pericolo che un paese a sud, l’Etiopia, poteva costituire per il suo «sacro suolo». L’inaugurazione del canale di Suez e del teatro khedivale dell’opera del Cairo (novembre 1869) erano dunque un pretesto per l’ufficializzazione di un progetto politico ben preciso. Nello stesso tempo però il libretto di Ghislanzoni sembrava voler mettere in guardia l’Egitto contro pretese territoriali nel corno d’Africa su cui l’Italia avrebbero avuto le mire espansionistiche che si realizzarono poco dopo.

Per il pubblico italiano della prima europea alla Scala di Milano l’otto febbraio 1872, Aida rievocava invece i sentimenti patriottici del Risorgimento, ancora una volta sentimenti nazionalistici, comunque. Insomma, l’opera di Verdi era una vera “opera politica”.

E per noi, oggi nel 2023, centocinquanta anni dopo, che cosa rappresenta Aida? Certo non le mire espansionistiche del khedivè d’Egitto o i sentimenti risorgimentali della Milano post-risorgimentale, ma non è neppure un esemplare di quel gusto dell’esotico tanto caro alla borghesia che affollava i teatri d’opera nella seconda metà dell’Ottocento. Questa domanda se la sono già posta molti di quelli che l’hanno messa in scena in questi ultimi anni, dando riposte diverse e più o meno convincenti. L’iraniana Shirin Neshat a Salisburgo nel 2017 aveva messo in luce le condizioni sociali della donna nell’attuale mondo islamico: in quanto esiliata dal suo paese era la persona giusta per leggere la vicenda di una figlia di re diventata schiava e della guerra tra due etnie nemiche. Qui sia Aida che Amonasro avevano la pelle chiara e non avevano sollevato quindi problemi di black face. Lo stesso era avvenuto a Parigi nel 2021 con l’Aida messa in scena da Lotte de Beer con burattini e un’ambientazione ottocentesca – e dove la pelle nera qui l’aveva l’interprete del Faraone!

Mentre in questi stessi giorni si può vedere alla Deutsche Oper di Berlino un’Aida in una messa in scena molto particolare di Benedikt von Peter, alla Bayerische Staatsoper di Monaco Damiano Michieletto fornisce la sua lettura. La vicenda di Aida si svolge durante una guerra, e una guerra di oggi è quello che vediamo in scena: in una palestra scolastica dal soffitto perforato dalle bombe vi sono degli sfollati che hanno ottenuto rifugio qui dalle loro case bombardate, da una città distrutta. Si vedono anche i prigionieri nemici ed è magra consolazione scoprire che sono in condizioni appena più misere degli stessi rifugiati “locali”. Il Messaggero arriva in scena col cadavere di un bambino e il suo breve intervento assume così un rilievo assai più tragico. Il ritorno trionfale dei vincitori è una triste parata di mutilati o di soggetti mentalmente disturbati che ricevono in stato catatonico le loro medaglie al valore. Anche Radames è ritornato segnato dalla guerra mentre immagini proiettate sullo sfondo ci mostrano feriti e volti stravolti. Dai palchi di proscenio le “tube egizie” aggiungono un tono crudelmente beffardo. Diavolo d’un Michieletto: è riuscito a commuovere anche con la “marcia trionfale”!

Prima Aida aveva cantato «Ritorna vincitor!… E dal mio labbro | uscì l’empia parola!» con una madre china sulla piccola bara bianca del figlioletto ucciso. «È una guerra civile. La gente non è preparata alla violenza. La morte ha un effetto così devastante perché irrompe nella vita quotidiana, nelle famiglie, non risparmia i bambini. Non voglio proporre questo racconto come una vicenda di militari, ma di civili» dice il regista e non si può non pensare all’insensato conflitto in corso ai confini dell’Europa.

Più che alla patria, Aida pensa alla sua famiglia, lei che è orfana di madre ed è stato strappata al padre. Vediamo infatti il suo doppio di bambina felice, come felici e incoscienti sono i bambini che giocano tra le macerie. Questi momenti onirici non mancheranno nello spettacolo e ad essi è affidato il finale: i due giovani non muoiono, ma finalmente si uniscono per l’eternità accompagnati da un corteo felliniano che si muove sulle parole di «A noi si schiude il ciel».

Un intervallo divide in due parti i quattro atti. Nella seconda parte la scenografia, come sempre sorprendente, di Paolo Fantin riempie il grande ambiente di una cenere nera che abbiamo visto cadere prima dagli squarci nel soffitto. La riva del Nilo è un ripido pendio che, senza pareti, diventa la tomba dei due giovani. Il sapiente gioco di luci radenti di Alessandro Carletti dà profondità alla scena e traghetta lo spettatore dalle scene più crude a quelle oniriche. Appropriati come sempre sono i costumi di Carla Teti che non connotano un paese in particolare, mentre hanno la loro forza ed efficacia i video della Rocafilm. La drammaturgia porta le firme di Katharina Ortmann e di Mattia Palma, il quale per il programma di sala analizza la storia delle rappresentazioni di Aida chiedendosi se sia un’opera «monumentale, grandiosa, spettacolare» o piuttosto un’opera “da camera”. Sì, c’è un po’ di grand-opéra in Aida, ma i vuoti prevalgono sui pieni: l’opera inizia in pianissimo (pp) con il motivo ondulante dei violini con sordina e termina ancora più piano (ppp) con il “morendo” degli stessi violini. Questa insolita trasparenza è ben evidente nella magnifica interpretazione di Daniele Rustioni che ottiene dall’orchestra del teatro, più avvezza in realtà a Richard Strauss, tempi sempre precisi, suoni di grande morbidezza e colori tenui, ma anche volumi sonori adeguati nei momenti più intensi. Per di più, pur salvaguardando la cantabilità “italiana”, Rustioni mette in luce gli aspetti più moderni della partitura, uno per tutti l’effetto dell’appena udibile rullo della gran cassa che segue al silenzio di Radames alle accuse di tradimento di cui non si discolpa. Perfetto risulta l’equilibrio sonoro tra buca e scena, con l’orchestra che non copre le voci. Voci che comunque hanno una loro imponente presenza.

Il soprano russo Elena Stikhina è un’Aida di bel timbro, delicate mezze voci, lunghi filati, elegante fraseggio e acuti luminosi. Anche con abiti dimessi rivela un’efficace presenza scenica e la sua sensibile interpretazione ha conquistato senza riserve il pubblico. In sostituzione di Anita Rachvelishvili, indisposta, il mezzosoprano Clémentine Margaine, a parte qualche momento di perfettibile intonazione, ha dimostrato un bel temperamento. La voce non è sempre omogenea nei passaggi di registro, con alcune note gridate, ma nel complesso ha delineato una figura tormentata e umana che è stata molto apprezzata dagli spettatori. Amneris è qui concupita da Ramfis, non un sacerdote ma un arrampicatore sociale che dopo aver eliminato Radames si capisce che arriverà al potere tramite la figlia del faraone. Il personaggio trova una forte caratterizzazione nel basso rumeno-ungherese Alexander Köpeczi dal possente registro grave e dalla eccezionale proiezione vocale. Un altro basso, questa volta greco, è il giovane Alexandros Stavrakakis, un Re vocalmente autorevole. Finalmente un Amonasro non trucido, ma amorevole padre, è quello di George Petean, il baritono rumeno che conferma la personalità interpretativa che già conoscevamo. 

Brian Jagde, giovane ma affermato tenore americano, ci porta indietro nei tempi: il suo Radames è vocalmente molto generoso ed estroverso, anche troppo, le mezze voci sono trascurate, l’emissione è sempre forte. Da anni ormai si sente il finale di «Celeste Aida» con il si♭prescritto in partitura pianissimo – pp, ma due battute prima Verdi arriva addirittura a pppp! – Jagde invece lo spara a tutti decibel senza neppure tentare di smorzarlo. Nel finale recupera un po’ di espressività, ma nel complesso la sua performance delude. Non quella del coro, che fornisce invece un’ottima prova sotto la guida di Johannes Knecht.

Il pubblico di Monaco di Baviera non sembra sia rimasto deluso dalla assenza di sfingi e piramidi in scena e ha tributato agli artefici dello spettacolo grandiose e insistenti ovazioni.