Domenico Oliva

Manon Lescaut

Giacomo Puccini, Manon Lescaut

★★★★☆

Monaco, Nationaltheater, 31 luglio 2015

(video streaming)

 Manon in bianco e nero

Questa produzione di Monaco doveva avere come elementi di richiamo il ritorno di Jonas Kaufmann nel ruolo di Des Grieux e il debutto di Anna Netrebko come Manon Lescaut. Il forfait del soprano russo, causato da “divergenze artistiche” col regista, aveva alimentato ancor più la curiosità sulla messa in scena. Dopo i ratti nel Lohengrin di Bayreuth, chissà cosa si sarà inventato Hans Neuenfels, uno dei maggiori rappresentanti del Regietheater?

E invece, certo non è una produzione accademica, ma anche con tutte le concessioni ai vezzi del teatro di regia contemporaneo, la sua lettura è molto coerente col libretto e l’allestimento ha un’essenzialità tale da mettere in luce il dramma di Puccini secondo la visione filosofica dell’autore, l’abbé Prevost, che nel suo romanzo “morale” voleva mostrare «un esempio terribile della forza delle passioni».

Se a tutto questo aggiungiamo il fatto che a rimpiazzare la diva schizzinosa è stata chiamata Kristine Opolais, la stessa partner di Kaufmann nell‘edizione londinese dell’anno prima che tanto scalpore aveva fatto per la sensualità d’intesa fra i due artisti, si spiega il grande successo di questa produzione.

Spoglia di qualunque orpello settecentesco, la scenografia di Stefan Mayer consiste in linee di neon che disegnano un parallelepipedo nel vuoto, una scatola nera, una gabbia senza pareti in cui agiscono dei personaggi spinti dalle passioni e osservati da una folla senza sentimenti. I costumi di Andrea Schmidt-Futterer connotano in questo senso gli attori in scena: nero per i due protagonisti principali, grigio in tutte le sfumature per gli altri. Un certo richiamo al mondo del circo è evidente nel costume da domatore di Edmondo, nei tristi clown grigi con parrucca rossa degli abitanti di Amiens, nella diligenza trainata da boys con le piume di struzzo nere in testa, nel maestro di musica scimmiesco. La complessa pantomima del secondo atto è messa a nudo da Neuenfels nella crudezza di quello che veramente è, ossia una scena di lenocinio e voyerismo: un pubblico in rossi abiti vescovili (gli «abati» del libretto) osserva la giornata della giovane mantenuta come se fosse uno spettacolo –  lo schiavo gigolo che agisce per conto del vecchio impotente, la lezione di ballo, il madrigale. Invece degli arredamenti rococo, le poche suppellettili in acciaio cromato e l’étagère piena di scintillanti oggetti di cristallo suggeriscono la freddezza glaciale dell’ambiente e la fragilità delle passioni, uno specchio sempre presente la fatuità e la civetteria di Manon, ma serve anche a riflettere l’immagine del vecchio nel confronto impietoso: «Amore? Amore!… | Mio buon signore, | ecco!… Guardatevi! | Se errai, leale | ditelo!… E poi | guardate noi!». Al terzo atto non manca la passerella che conduce alla nave, qui un buco nella parete di fondo dagli orli bruciati, un’entrata all’inferno. Le donne, nominate una a una, qui sono rese anonime da una calza sul viso così come nel primo atto le fanciulle («Tra voi, belle, brune e bionde») erano  rese indistinguibili da una felpa con cappuccio che ne nascondeva il volto. Del tutto spoglio il quarto atto: la luce dei neon è la luce accecante del sole del «deserto della Louisiana» e i due protagonisti in nero e a piedi nudi hanno soltanto la voce e il corpo per esprimere l’angoscia quasi sadica di questo finale pucciniano.

Il libretto di Manon Lescaut s’è sempre detto essere quanto mai episodico, dovendo trattare un esteso romanzo in soli quattro quadri, lasciando quindi allo spettatore il compito di riempire i gap narrativi tra il primo e il secondo atto (dopo essere fuggiti a Parigi i due giovani hanno vissuto assieme, ma Manon si è stancata della povertà e ha seguito il consiglio del fratello di ritornare tra le «trine morbide» offertele del vecchio Geronte), tra il secondo e il terzo (l’arresto e la condanna di Manon per furto) e tra il terzo e il quarto (in America il figlio del governatore si è innamorato della ragazza e Des Grieux l’ha ucciso a duello: per questo i due sono fuggiti nel deserto). Neuenfels opta per dei testi esplicativi, alcuni tratti dal romanzo di Prevost,  tra una scena e l’altra. Un espediente forse pleonastico per informare il pubblico.

In questo allestimento minimalista tutto è puntato sull’abilità attoriale degli interpreti, qui eccezionali. Sulla vocalità c’è poco da aggiungere: la gloriosa prestazione di Kaufmann qui è ancora più intensa e della Opolais si confermano la sensibilità e il timbro. Ottimi sono il Lescaut di Markus Eiche e il Geronte di Roland Bracht, quest’ultimo supplisce alla stanchezza della voce con un’efficace prestazione scenica. Nel breve intervento madrigalistico si fa notare Okka von der Damerau mentre Edmondo trova in Dean Power la giusta vivacità.

Improntata a grande drammaticità e teatralità la direzione di Alain Antinoglu anche se l’orchestra talora copre i cantanti, o per lo meno così sembra nella registrazione il cui audio non è ottimale.

FG_Manon_Lescaut_15

Pubblicità

Manon Lescaut

Giacomo Puccini, Manon Lescaut

★★★★☆

Londra, Royal Opera House, 24 giugno 2014

(video streaming)

Una Manon Lescaut a luci rosse

Il problema della Manon Lescaut è sempre lo stesso: il libretto. Da tempo però i registi che la devono mettere in scena non si lasciano più condizionare da quell’indigeribile “setteciuento” con cui è narrata la vicenda e la propongono in costumi contemporanei, come Jonathan Kent al Covent Garden. L’osteria di Amiens qui diventa un motel squalliduccio, il “palazzo aurato” di Geronte un boudoir/teatrino pesantemente decorato, il piazzale presso il porto di Le Havre un deposito di masserizie con sullo sfondo il retro del motel aperto sulle camere delle prostitute, la landa sterminata della Louisiana un viadotto semicrollato con un poster della Monument Valley.

Nel primo atto Manon arriva su un’auto dell’est e non c’è dubbio che – altro che convento! – le idee del fratello siano fin da subito chiare nello sfruttare la ragazza proponendola al vecchio Geronte, il quale da par sua nel secondo atto la utilizza per far girare dei video per adulti. Il maestro di danza è qui infatti un regista di porno e il minuetto uno spettacolino per un pubblico di vecchi libidinosi. Uno di questi è lo stesso Des Grieux travestito che è venuto a riprendersi la ragazza. Segue il duetto ardente dei due giovani: Manon in parrucca biondo platino, guépière rosa e calze bianche accoglie sul suo letto il giovane appassionato per un fuggevole incontro prima dell’arrivo di Geronte. Anche la deportazione avviene sotto l’occhio delle telecamere, come in un reality show e l’appello delle donne è una squallida e impietosa sfilata di esemplari femminili degradati. La regia video rende molto cinematografica la resa visiva dello spettacolo.

Pappano solleva ondate di musica dall’orchestra, ma fa anche assaporare le finezze e audacie strumentali di una partitura che appartiene sì al Verismo, ma risente della temperie culturale dell’epoca ancora impregnata di wagnerismo e allo stesso tempo alla ricerca di nuovi linguaggi.

In scena due cantanti di eccezione che debuttano nei ruoli: Kristīne Opolais è una seducente Manon che passa dalla gonna a fiori e dal giubbino di jeans all’outfit sexy all’agonia finale in maniera convincente e con una vocalità sontuosa. La voce scura e lo squillo potente di Jonas Kaufmann aiutano a delineare un Des Grieux appassionato e scenicamente fulgido. Christopher Maltman si conferma grande attore e ottimo cantante nel proporre un fratello Lescaut meschino e corrotto mentre Maurizio Muraro, unico italiano del cast ma la dizione è eccellente in tutti gli altri interpreti, è un autorevole Geronte.

Manon Lescaut

Giacomo Puccini, Manon Lescaut

Milano, Teatro alla Scala, 3 aprile 2019

★★☆☆☆

(video streaming)

Manon à la gare

Da tempo i registi che mettono in scena Manon Lescaut si sbarazzano tranquillamente del suo “setteciuento”, aspetto consustanziale al testo che gli innumerevoli librettisti avevano ricavato dall’opera di Prévost.

Ultimo arrivato, David Pountney per la sua produzione scaligera ambienta la vicenda al tempo della Belle Époque, l’epoca che ha scoperto i mezzi della modernità: le stazioni, i treni, i transatlantici, le macchine fotografiche – come in un romanzo di Jules Verne. E tra le invenzioni che rendono la vita più facile ed eccitante, in uno dei vagoni del treno di lusso di proprietà di Geronte fa bella mostra di sé la chaise de volupté che il futuro re d’Inghilterra Edoardo VII si era fatto costruire a Parigi e che utilizzava nella camera a lui riservata allo Chabanais, il postribolo più lussuoso della capitale. Questa è una delle trovate più piccanti della scenografia di Leslie Travers, l’aspetto migliore di uno spettacolo che ha nella regia la componente più contestata dal pubblico e dalla critica.

Il regista inglese, ora cittadino polacco, popola la scena di tante Manon Lescaut nelle varie fasi d’età per evidenziare la sottomissione della protagonista all’uomo da cui accetta fin da bambina le “caramelle”. La vicenda è poi rivissuta dalla donna come il solito flashback: fin dall’inizio la vediamo sdraiata sul carrello ferroviario su cui spirerà all’ultimo atto. Il suo ingresso nell’azione avviene tramite una controfigura cui presta la voce (!) e a cui si sostituisce a un certo momento – e qui la regista televisiva Patrizia Carmine non perde l’occasione per la solita dissolvenza in stile cinematografico…

Pountney rinuncia a un qualunque lavoro attoriale sugli interpreti: qui abbiamo un soprano e un tenore che arrivano in scena e cantano la loro parte, occhi fissi al direttore d’orchestra, e che nei duetti stanno alla maggior distanza possibile l’uno dall’altra senza il minimo coinvolgimento tra loro né col pubblico. Non commuoversi alla Manon di Puccini è quasi impossibile, eppure. O forse il regista non riesce ad ottenerlo, questo lavoro attoriale: Roberto Aronica sostituisce all’ultimo momento in Des Grieux Marcelo Álvarez la cui gola è vittima, a suo dire, dello smog milanese mentre da Maria José Siri l’ultima cosa che ci si aspetta è una spigliata e convincente presenza scenica. Vocalmente il soprano uruguaiano si conferma all’altezza, ma di sensualità e malizia non c’è traccia nel suo personaggio. Meno convincente vocalmente è Aronica. Massimo Cavalletti e Carlo Lepore delineano i due personaggi di Lescaut e Geronte, fin troppo simpatico il secondo, ma vocalmente più interessante.

Riccardo Chailly continua la sua proposizione di originali pucciniani: quella che concerta ora è l’edizione che videro i torinesi al teatro Regio il primo febbraio 1893, non una delle altre sette revisioni. Le maggiori differenze si trovano nel finale del primo atto e nel postludio all’aria di Manon nel quarto. Difficile giudicarne la resa dalla registrazione televisiva e dall’uso dei microfoni: il suono dell’orchestra e quello delle voci rimangono come separati nella ripresa. È comunque evidente la lettura analitico-filologica di Chailly che esalta i momenti “sinfonici” della partitura che viene suonata senza interruzione e spazi per gli applausi – se mai ce ne fossero stati.

Manon Lescaut

Giacomo Puccini, Manon Lescaut

Venezia, Teatro la Fenice, 2 febbraio 2010

Una Manon Lescaut in stile fassbinderiano

Inaugurazione del Carnevale Veneziano con Manon Lescaut alla Fenice. Per le calli maschere finto Settecento, mentre in teatro il Settecento di Graham Vick e dei suoi scenogafi e costumisti Andrew Hays e Kimm Kovac lo troviamo solo nelle crinoline/gabbie delle prostitute del terzo atto.

Il pubblico risponde con dissensi alla messa in scena del regista inglese, non rendendosi conto che la sua lettura è più vicina alle intenzioni originali di quanto faccia il “setteciuento” di maniera di tante regie. La descrizione dei personaggi è coerente e così pure la drammaturgia. I quattro atti sono chiaramente connotati: nel primo studenti in pantaloncini corti e una Manon bambina spaventata con le trecce e la piazza di Amiens che da aula scolastica si trasforma in un luna park con i cigni su cui fuggono i due amanti; nel secondo la casa di Geronte è un bordello dove Manon non si fa truccare o acconciare, bensì tatuare la caviglia; nel terzo non vediamo la nave ma solo una passerella con le deportate sospese nel vuoto prima di essere imbarcate come carne da macello per le americhe e già si vede lo scavo che inghiottirà le povere anime; nel quarto una voragine di sbancamento prende il posto del “deserto della Louisiana”.

Manon è Martina Serafin, successo pieno meritato; Lescaut Dimitris Tiliakos dalle buone doti sceniche ma dal volume di voce limitato; piatto e stentoreo il Des Grieux di Walter Fraccaro; efficace il Geronte di Alessandro Guerzoni. Renato Palumbo sul podio è un po’ troppo melodrammatico e il pubblico esprime qualche dissenso nei suoi confronti.

 

Manon Lescaut

Giacomo Puccini, Manon Lescaut

★★★☆☆

Turin, Teatro Regio, 14 March 2017

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

In this Manon Lescaut the most convincing interpreter is Geronte’s!

After Auber (1856) and Massenet (1884), the third operatic adaptation of Prévost’s novel, Puccini’s Manon Lescaut, premiered at Turin Teatro Regio in 1893. It was the composer’s first mature work, a big step forward compared with Edgar, but it was not yet the level of La bohème.

The libretto had a troubled genesis, to say the least: seven people got their hands on it. With its unnecessary repetitions, linguistic ambitions and inconsistencies it did not bode well, but the rich melodic invention of the composer prevailed and the success was resounding…

continues on bachtrack.com

Manon Lescaut

Giacomo Puccini, Manon Lescaut

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 14 marzo 2017

Union-jack.jpg  Click here for the English version

Quando nella Manon Lescaut l’interprete più convincente è quello di Geronte…

Terzo adattamento operistico della vicenda creata dall’abate Prévost. Dopo Auber (1856) e Massenet (1884), quello di Puccini vede la luce al Teatro Regio di Torino il primo febbraio 1893. Manon Lescaut è la prima opera matura del compositore, certamente un bel passo avanti rispetto all’Edgar, ma non è neanche ancora La bohème. Il libretto aveva avuto una genesi a dir poco tormentata: ben sette persone vi avevano messo mano! Con le sue inutili ripetizioni, le velleità linguistiche e le incoerenze, non faceva presagire nulla di buono, ma la seducente invenzione melodica del compositore che ha rivestito quel testo pretenzioso ebbe la meglio e il successo fu clamoroso. L’opera resta comunque un insieme discontinuo: nella prima parte fa il verso a un Settecento fastidiosamente di maniera, ma poi con l’intermezzo sinfonico vira in una seconda parte fortemente drammatica, addirittura insopportabilmente tragica nell’angoscioso finale. Qui la morte della protagonista non ha nulla della cristiana speranza ultraterrena, né della trasfigurazione metafisica realizzata nel teatro wagneriano: è la fine di una giovane ancora rivolta ai piaceri e alle illusioni di quell’unica vita che sta perdendo

Nella stessa città dello storico debutto, Jean Reno nel gennaio 2006 aveva allestito una Manon Lescaut destinata al suo amico Roberto Alagna, il quale però dovette lasciare la produzione per motivi di salute. Undici anni dopo, di quell’allestimento, unico caso di regia lirica dell’attore francese, rimangono solo le scenografie di Thierry Flamand, che vengono ora riutilizzate dal regista Vittorio Borrelli. Non erano particolarmente interessanti allora e non lo sono neanche adesso, ma in tempi di ristrettezze economiche i teatri riesumano quello che hanno in magazzino senza andare troppo per il sottile.

L’occasione poteva essere la proposta di due giovani promettenti da lanciare nei ruoli di Manon e Des Grieux, ma neanche questo sembra sia stato il motivo, visto che la scelta è ricaduta su due cantanti in maniera diversa affermati, ma per entrambi i quali occorre adottare una generosa dose di suspension of disbelief: la gaia quindicenne ha l’età e il fisico di una florida signora a cui sono stati per di più imposti costumi impietosi, mentre lo studente Des Grieux è più âgé del vecchio Geronte!

Il soprano uruguaiano Maria José Siri aveva già affrontato con successo un ruolo pucciniano per l’apertura quest’anno della stagione della Scala, ma la sua Madama Butterfly era sembrata allora più convincente di questa sua attuale Manon, una Manon senza malizia e sensualità. Sul piano vocale l’emissione è precisa e il fraseggio accurato, ma il personaggio non esce fuori e non commuove. Neanche Gregory Kunde riesce a convincere come giovane Des Grieux, ma vocalmente il suo canto è quanto di più incisivo si possa immaginare: ogni frase ha la sua giusta espressione, le mezze voci sono belle e gli acuti ben piazzati ed è sempre un piacere ascoltare il miracolo della sua resa vocale pressoché intatta, però…

Dalibor Jenis non fa molto per rendere il suo tenente Lescaut più interessante, mentre Carlo Lepore si distingue invece per un sapido Geronte di Ravoir dal bel timbro e mai incline ad effetti caricaturali nella sua definizione del personaggio. La direzione di Gianandrea Noseda è vigorosa e non arretra di fronte agli effetti veristici in orchestra, ma sa anche esaltare la meravigliosa vena melodica sparsa nella partitura o i fremiti di sensualità che pervadono i duetti dei due amanti e i momenti sinfonici.

Manon Lescaut

dvd

★★☆☆☆

Un Carsen non ispirato

Il musicista Ruggero Leoncavallo, il verista Marco Praga, il giornalista Domenico Oliva, i librettisti Luigi Illica e Giuseppe Adami, il compositore stesso e pure l’editore Ricordi avevano tutti messo le mani su quel testo che fin dal 1889 aveva solleticato la vena di Puccini dopo il parziale insuccesso della sua seconda opera, Edgar. Impegnato con il rifacimento di quest’ultima, Puccini termina la sua nuova opera solo a fine 1892 e Manon Lescaut è pronta al debutto per il carnevale del 1893 al Teatro Regio di Torino dove ottiene un successo clamoroso. L’opera avrà poi molte revisioni in seguito ai ripensamenti dell’autore.

Nonostante la fortuna della Manon di Massenet (1884) tratta dallo stesso romanzo dell’abbé Prévost e l’esistenza di un’altra Manon Lescaut di Auber (1856), Puccini si era incaponito a fare la ‘sua’ Manon. E in effetti il suo è un prodotto molto originale, già molto pucciniano, addirittura iper-pucciniano, con quelle arie liricamente struggenti e quella straziante, quasi insopportabile scena della morte in diretta di Manon che confina con la morbosità se non addirittura con il sadismo in musica. Vero però che il compositore lucchese infonde nella partitura gioielli musicali di cui non si finisce mai di scoprire il valore. Valga per tutti l’intermezzo tra il secondo e il terzo atto. In Manon Lescaut Puccini è poi il primo compositore italiano a misurarsi con l’idea wagneriana delle reminiscenze motiviche (motivi conduttori), «ritorni logici» li definisce in una sua lettera del 1896. Già all’indomani della prima il critico Giovanni Pozza parla di un «dramma musicale […] intessuto di melodie senza contorsioni artificiose, che s’inseguono e ritornano naturalmente come lo vogliono l’azione, il concetto, o la simmetria del pezzo».

L’articolato romanzo di Prévost era stato sintetizzato dai librettisti di Massenet in sei quadri (cinque atti), ma qui in Puccini abbiamo solo quattro flash, quasi sequenze cinematografiche, che hanno bisogno di didascalie per collegare la vicenda da uno all’altro.

L’atto primo, come in Massenet, si svolge ad Amiens davanti alla locanda del cambio di cavalli. Da una carrozza scendono Manon Lescaut e il fratello. La ragazza è destinata al convento, ma quando incontra il cavaliere Des Grieux i giovani si innamorano e fuggono con la carrozza che il ricco Geronte aveva approntato per rapire la ragazza e portarla con sé a Parigi con la complicità del fratello. Geronte vuole vendetta, ma Lescaut lo rassicura sul fatto che Manon non sopporterà a lungo la vita modesta che Des Grieux le può offrire.
Infatti nel secondo atto, saltato a piè pari il romantico ma breve ménage idillico fra i due giovani (che in Massenet ci regala i meravigliosi momenti di «Adieu, notre petite table» o «En fermant les yeux»), qui siamo nel ricco boudoir di Geronte dove Manon si annoia ai madrigali e ai balli che le impone il ricco protettore e «tra quelle trine morbide» pensa con nostalgia agli slanci passionali che le regalava il giovane Des Grieux. Ed è lui stesso a irrompere ora nel salotto del rivale e a risvegliare nella ragazza i non sopiti sentimenti. I due si abbracciano, ma vengono scoperti dal vecchio che accusa Manon del furto dei gioielli che l’incauta ragazza non aveva resistito a raccattare prima della fuga.
Nel terzo atto Manon è dunque nel carcere di Le Havre in attesa di essere imbarcata per il Nuovo Mondo. Lescaut organizza una fuga per evitarle la deportazione, ma il piano fallisce e Des Grieux per non lasciar andare via sola la ragazza si fa imbarcare come mozzo sulla stessa nave. Qui finiva l’opera di Massenet, Puccini invece non ci risparmia la straziante morte di Manon nel deserto del quarto atto.

Si erano dunque messi addirittura in sette (nell’edizione a stampa di Ricordi è riportato infatti «testi di autori vari» mentre altrove è indicato «di anonimo»), ma il libretto che ne è uscito fuori è uno dei più raffazzonati, con quelle stucchevolezze ‘setteciuento’ (il «senso dell’antico» lo definisce bonariamente Emanuele d’Angelo) che le regie moderne evitano come la peste – vedi l’ultima di Jonathan Kent a Londra e prima ancora quella di Graham Vick vista a Venezia. Ma così l’ambientazione moderna fa a pugni con i cocchi, gli ostieri, i tricorni, i calamistri, la cerussa, il minio, la giunchiglia ecc. citati nel libretto.

Nel 1991 alla Vlaamse Opera di Anversa Robert Carsen, reduce dal trionfo internazionale del suo Mefistofele, non casca in questa trappola dell’attualizzazione e il suo è un iper-settecento che però a sua volta non è scevro di contraddizioni.

All’inizio vediamo in scena un gioioso carnevale in cui si scherza sui temi della giovinezza e dell’amore. L’alto muro claustrofobico di fondo è dipinto come un cielo di Magritte (siamo in Belgio, no? A Torino lo avremmo definito invece un cielo di Antonio Carena…). L’improbabile pavimento a specchio (le scene e i decoratissimi costumi sono di Anthony Ward) è più adatto alla ricca sala dorata in cui si svolge il secondo atto. Ma la stessa sala dorata ce la ritroviamo nel terzo, la prigione di Le Havre, e infine, ridotta a detriti, anche nel quarto, quello del deserto. Le disgraziate che sono imbarcate per il viaggio transoceanico salgono con i loro dorati costumi ingombranti di crinoline, che non devono essere però troppo di impaccio giacché Manon non ci rinuncia neanche nel deserto. L’imbarco dei due giovani avviene sotto una ironica pioggia di monetine d’oro lanciate da una folla di damine che esibiscono un’altissima parrucca sormontata da un veliero dorato. Quando si dice: non farsi mancare niente… Ancora impregnato di quello spirito camp che nel Mefistofele aveva funzionato perfettamente, qui Carsen soffre di un accumulo di idee non necessarie e si capisce che non crede molto all’opera. Altrove la sua adesione alla musica si è dimostrata molto più convinta.

Il direttore Silvio Varviso conduce con polso l’orchestra coprendo però talora i cantanti. E pensare che di voce i due interpreti principali ne hanno da vendere: sia Miriam Gauci che Antonio Ordóñez esibiscono potenza e squillo invidiabili. La prima ha ripreso il ruolo molte altre volte e il secondo è passato sempre più spesso a cantare zarzuelas. Da dimenticare il Lescaut di Jan Dankaert, mentre in Geronte abbiamo un Jules Bastin classe 1933 ancora in piena forma.

Immagine in 4:3 e voci fastidiosamente riverberate.