
∙
Giacomo Puccini, Manon Lescaut
Milano, Teatro alla Scala, 3 aprile 2019
(video streaming)
Manon à la gare
Da tempo i registi che mettono in scena Manon Lescaut si sbarazzano tranquillamente del suo “setteciuento”, aspetto consustanziale al testo che gli innumerevoli librettisti avevano ricavato dall’opera di Prévost.
Ultimo arrivato, David Pountney per la sua produzione scaligera ambienta la vicenda al tempo della Belle Époque, l’epoca che ha scoperto i mezzi della modernità: le stazioni, i treni, i transatlantici, le macchine fotografiche – come in un romanzo di Jules Verne. E tra le invenzioni che rendono la vita più facile ed eccitante, in uno dei vagoni del treno di lusso di proprietà di Geronte fa bella mostra di sé la chaise de volupté che il futuro re d’Inghilterra Edoardo VII si era fatto costruire a Parigi e che utilizzava nella camera a lui riservata allo Chabanais, il postribolo più lussuoso della capitale. Questa è una delle trovate più piccanti della scenografia di Leslie Travers, l’aspetto migliore di uno spettacolo che ha nella regia la componente più contestata dal pubblico e dalla critica.
Il regista inglese, ora cittadino polacco, popola la scena di tante Manon Lescaut nelle varie fasi d’età per evidenziare la sottomissione della protagonista all’uomo da cui accetta fin da bambina le “caramelle”. La vicenda è poi rivissuta dalla donna come il solito flashback: fin dall’inizio la vediamo sdraiata sul carrello ferroviario su cui spirerà all’ultimo atto. Il suo ingresso nell’azione avviene tramite una controfigura cui presta la voce (!) e a cui si sostituisce a un certo momento – e qui la regista televisiva Patrizia Carmine non perde l’occasione per la solita dissolvenza in stile cinematografico…
Pountney rinuncia a un qualunque lavoro attoriale sugli interpreti: qui abbiamo un soprano e un tenore che arrivano in scena e cantano la loro parte, occhi fissi al direttore d’orchestra, e che nei duetti stanno alla maggior distanza possibile l’uno dall’altra senza il minimo coinvolgimento tra loro né col pubblico. Non commuoversi alla Manon di Puccini è quasi impossibile, eppure. O forse il regista non riesce ad ottenerlo, questo lavoro attoriale: Roberto Aronica sostituisce all’ultimo momento in Des Grieux Marcelo Álvarez la cui gola è vittima, a suo dire, dello smog milanese mentre da Maria José Siri l’ultima cosa che ci si aspetta è una spigliata e convincente presenza scenica. Vocalmente il soprano uruguaiano si conferma all’altezza, ma di sensualità e malizia non c’è traccia nel suo personaggio. Meno convincente vocalmente è Aronica. Massimo Cavalletti e Carlo Lepore delineano i due personaggi di Lescaut e Geronte, fin troppo simpatico il secondo, ma vocalmente più interessante.
Riccardo Chailly continua la sua proposizione di originali pucciniani: quella che concerta ora è l’edizione che videro i torinesi al teatro Regio il primo febbraio 1893, non una delle altre sette revisioni. Le maggiori differenze si trovano nel finale del primo atto e nel postludio all’aria di Manon nel quarto. Difficile giudicarne la resa dalla registrazione televisiva e dall’uso dei microfoni: il suono dell’orchestra e quello delle voci rimangono come separati nella ripresa. È comunque evidente la lettura analitico-filologica di Chailly che esalta i momenti “sinfonici” della partitura che viene suonata senza interruzione e spazi per gli applausi – se mai ce ne fossero stati.
⸪