Manon Lescaut

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★★☆☆☆

Un Carsen non ispirato

Il musicista Ruggero Leoncavallo, il verista Marco Praga, il giornalista Domenico Oliva, i librettisti Luigi Illica e Giuseppe Adami, il compositore stesso e pure l’editore Ricordi avevano tutti messo le mani su quel testo che fin dal 1889 aveva solleticato la vena di Puccini dopo il parziale insuccesso della sua seconda opera, Edgar. Impegnato con il rifacimento di quest’ultima, Puccini termina la sua nuova opera solo a fine 1892 e Manon Lescaut è pronta al debutto per il carnevale del 1893 al Teatro Regio di Torino dove ottiene un successo clamoroso. L’opera avrà poi molte revisioni in seguito ai ripensamenti dell’autore.

Nonostante la fortuna della Manon di Massenet (1884) tratta dallo stesso romanzo dell’abbé Prévost e l’esistenza di un’altra Manon Lescaut di Auber (1856), Puccini si era incaponito a fare la ‘sua’ Manon. E in effetti il suo è un prodotto molto originale, già molto pucciniano, addirittura iper-pucciniano, con quelle arie liricamente struggenti e quella straziante, quasi insopportabile scena della morte in diretta di Manon che confina con la morbosità se non addirittura con il sadismo in musica. Vero però che il compositore lucchese infonde nella partitura gioielli musicali di cui non si finisce mai di scoprire il valore. Valga per tutti l’intermezzo tra il secondo e il terzo atto. In Manon Lescaut Puccini è poi il primo compositore italiano a misurarsi con l’idea wagneriana delle reminiscenze motiviche (motivi conduttori), «ritorni logici» li definisce in una sua lettera del 1896. Già all’indomani della prima il critico Giovanni Pozza parla di un «dramma musicale […] intessuto di melodie senza contorsioni artificiose, che s’inseguono e ritornano naturalmente come lo vogliono l’azione, il concetto, o la simmetria del pezzo».

L’articolato romanzo di Prévost era stato sintetizzato dai librettisti di Massenet in sei quadri (cinque atti), ma qui in Puccini abbiamo solo quattro flash, quasi sequenze cinematografiche, che hanno bisogno di didascalie per collegare la vicenda da uno all’altro.

L’atto primo, come in Massenet, si svolge ad Amiens davanti alla locanda del cambio di cavalli. Da una carrozza scendono Manon Lescaut e il fratello. La ragazza è destinata al convento, ma quando incontra il cavaliere Des Grieux i giovani si innamorano e fuggono con la carrozza che il ricco Geronte aveva approntato per rapire la ragazza e portarla con sé a Parigi con la complicità del fratello. Geronte vuole vendetta, ma Lescaut lo rassicura sul fatto che Manon non sopporterà a lungo la vita modesta che Des Grieux le può offrire.
Infatti nel secondo atto, saltato a piè pari il romantico ma breve ménage idillico fra i due giovani (che in Massenet ci regala i meravigliosi momenti di «Adieu, notre petite table» o «En fermant les yeux»), qui siamo nel ricco boudoir di Geronte dove Manon si annoia ai madrigali e ai balli che le impone il ricco protettore e «tra quelle trine morbide» pensa con nostalgia agli slanci passionali che le regalava il giovane Des Grieux. Ed è lui stesso a irrompere ora nel salotto del rivale e a risvegliare nella ragazza i non sopiti sentimenti. I due si abbracciano, ma vengono scoperti dal vecchio che accusa Manon del furto dei gioielli che l’incauta ragazza non aveva resistito a raccattare prima della fuga.
Nel terzo atto Manon è dunque nel carcere di Le Havre in attesa di essere imbarcata per il Nuovo Mondo. Lescaut organizza una fuga per evitarle la deportazione, ma il piano fallisce e Des Grieux per non lasciar andare via sola la ragazza si fa imbarcare come mozzo sulla stessa nave. Qui finiva l’opera di Massenet, Puccini invece non ci risparmia la straziante morte di Manon nel deserto del quarto atto.

Si erano dunque messi addirittura in sette (nell’edizione a stampa di Ricordi è riportato infatti «testi di autori vari» mentre altrove è indicato «di anonimo»), ma il libretto che ne è uscito fuori è uno dei più raffazzonati, con quelle stucchevolezze ‘setteciuento’ (il «senso dell’antico» lo definisce bonariamente Emanuele d’Angelo) che le regie moderne evitano come la peste – vedi l’ultima di Jonathan Kent a Londra e prima ancora quella di Graham Vick vista a Venezia. Ma così l’ambientazione moderna fa a pugni con i cocchi, gli ostieri, i tricorni, i calamistri, la cerussa, il minio, la giunchiglia ecc. citati nel libretto.

Nel 1991 alla Vlaamse Opera di Anversa Robert Carsen, reduce dal trionfo internazionale del suo Mefistofele, non casca in questa trappola dell’attualizzazione e il suo è un iper-settecento che però a sua volta non è scevro di contraddizioni.

All’inizio vediamo in scena un gioioso carnevale in cui si scherza sui temi della giovinezza e dell’amore. L’alto muro claustrofobico di fondo è dipinto come un cielo di Magritte (siamo in Belgio, no? A Torino lo avremmo definito invece un cielo di Antonio Carena…). L’improbabile pavimento a specchio (le scene e i decoratissimi costumi sono di Anthony Ward) è più adatto alla ricca sala dorata in cui si svolge il secondo atto. Ma la stessa sala dorata ce la ritroviamo nel terzo, la prigione di Le Havre, e infine, ridotta a detriti, anche nel quarto, quello del deserto. Le disgraziate che sono imbarcate per il viaggio transoceanico salgono con i loro dorati costumi ingombranti di crinoline, che non devono essere però troppo di impaccio giacché Manon non ci rinuncia neanche nel deserto. L’imbarco dei due giovani avviene sotto una ironica pioggia di monetine d’oro lanciate da una folla di damine che esibiscono un’altissima parrucca sormontata da un veliero dorato. Quando si dice: non farsi mancare niente… Ancora impregnato di quello spirito camp che nel Mefistofele aveva funzionato perfettamente, qui Carsen soffre di un accumulo di idee non necessarie e si capisce che non crede molto all’opera. Altrove la sua adesione alla musica si è dimostrata molto più convinta.

Il direttore Silvio Varviso conduce con polso l’orchestra coprendo però talora i cantanti. E pensare che di voce i due interpreti principali ne hanno da vendere: sia Miriam Gauci che Antonio Ordóñez esibiscono potenza e squillo invidiabili. La prima ha ripreso il ruolo molte altre volte e il secondo è passato sempre più spesso a cantare zarzuelas. Da dimenticare il Lescaut di Jan Dankaert, mentre in Geronte abbiamo un Jules Bastin classe 1933 ancora in piena forma.

Immagine in 4:3 e voci fastidiosamente riverberate.

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