Manon Lescaut

Giacomo Puccini, Manon Lescaut

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 14 marzo 2017

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Quando nella Manon Lescaut l’interprete più convincente è quello di Geronte…

Terzo adattamento operistico della vicenda creata dall’abate Prévost. Dopo Auber (1856) e Massenet (1884), quello di Puccini vede la luce al Teatro Regio di Torino il primo febbraio 1893. Manon Lescaut è la prima opera matura del compositore, certamente un bel passo avanti rispetto all’Edgar, ma non è neanche ancora La bohème. Il libretto aveva avuto una genesi a dir poco tormentata: ben sette persone vi avevano messo mano! Con le sue inutili ripetizioni, le velleità linguistiche e le incoerenze, non faceva presagire nulla di buono, ma la seducente invenzione melodica del compositore che ha rivestito quel testo pretenzioso ebbe la meglio e il successo fu clamoroso. L’opera resta comunque un insieme discontinuo: nella prima parte fa il verso a un Settecento fastidiosamente di maniera, ma poi con l’intermezzo sinfonico vira in una seconda parte fortemente drammatica, addirittura insopportabilmente tragica nell’angoscioso finale. Qui la morte della protagonista non ha nulla della cristiana speranza ultraterrena, né della trasfigurazione metafisica realizzata nel teatro wagneriano: è la fine di una giovane ancora rivolta ai piaceri e alle illusioni di quell’unica vita che sta perdendo

Nella stessa città dello storico debutto, Jean Reno nel gennaio 2006 aveva allestito una Manon Lescaut destinata al suo amico Roberto Alagna, il quale però dovette lasciare la produzione per motivi di salute. Undici anni dopo, di quell’allestimento, unico caso di regia lirica dell’attore francese, rimangono solo le scenografie di Thierry Flamand, che vengono ora riutilizzate dal regista Vittorio Borrelli. Non erano particolarmente interessanti allora e non lo sono neanche adesso, ma in tempi di ristrettezze economiche i teatri riesumano quello che hanno in magazzino senza andare troppo per il sottile.

L’occasione poteva essere la proposta di due giovani promettenti da lanciare nei ruoli di Manon e Des Grieux, ma neanche questo sembra sia stato il motivo, visto che la scelta è ricaduta su due cantanti in maniera diversa affermati, ma per entrambi i quali occorre adottare una generosa dose di suspension of disbelief: la gaia quindicenne ha l’età e il fisico di una florida signora a cui sono stati per di più imposti costumi impietosi, mentre lo studente Des Grieux è più âgé del vecchio Geronte!

Il soprano uruguaiano Maria José Siri aveva già affrontato con successo un ruolo pucciniano per l’apertura quest’anno della stagione della Scala, ma la sua Madama Butterfly era sembrata allora più convincente di questa sua attuale Manon, una Manon senza malizia e sensualità. Sul piano vocale l’emissione è precisa e il fraseggio accurato, ma il personaggio non esce fuori e non commuove. Neanche Gregory Kunde riesce a convincere come giovane Des Grieux, ma vocalmente il suo canto è quanto di più incisivo si possa immaginare: ogni frase ha la sua giusta espressione, le mezze voci sono belle e gli acuti ben piazzati ed è sempre un piacere ascoltare il miracolo della sua resa vocale pressoché intatta, però…

Dalibor Jenis non fa molto per rendere il suo tenente Lescaut più interessante, mentre Carlo Lepore si distingue invece per un sapido Geronte di Ravoir dal bel timbro e mai incline ad effetti caricaturali nella sua definizione del personaggio. La direzione di Gianandrea Noseda è vigorosa e non arretra di fronte agli effetti veristici in orchestra, ma sa anche esaltare la meravigliosa vena melodica sparsa nella partitura o i fremiti di sensualità che pervadono i duetti dei due amanti e i momenti sinfonici.

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