Il turco in Italia

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Gioachino Rossini, Il turco in Italia

★★★☆☆

Pesaro, Teatro Rossini, 9 agosto 2016

Rossini 8 ½

La sfortuna de Il turco in Italia (1814) di Rossini è sempre stata quella di essere considerato il tentativo di riprendere, sfruttandolo, il successo dell’Italiana in Algeri dell’anno precedente – se non una parodia mal riuscita. Eppure i due lavori appartengono a generi differenti: come scrive Alberto Zedda, ne l’Italiana abbiamo l’esempio massimo di comique absolu, nel Turco invece «alberga largamente il comique significatif, che ricerca motivi d’allegrezza nei comportamenti quotidiani, traendone fuori i tic, i difetti, le diversità, i vizi per ingrandirli con la lente dell’ironia e deformarli con l’acido del sarcasmo». Anche il libretto è di pasta differente: là nel testo dell’Anelli abbiamo la classica opera buffa fatta di azioni inverosimili disinvoltamente iterate secondo quella folie organisée che aveva incantato Stendhal, qui nella commedia del Romani «sono gli attori stessi a determinare il procedere del dramma servendosi di un ingegnoso meccanismo metateatrale».

Nella lettura di Davide Livermore il meccanismo diventa metacinematografico: il poeta Prosdocimo ha le fattezze di Federico Fellini, regista e sceneggiatore della vicenda napoletana che, avviluppato nei teli bianchi di Mastroianni di 8 ½, scrive, dirige e filma le due storie intersecanti di Zaida e Selim («schiava promessa sposa di Selim, ora zingara» e «principe turco che viaggia») e di Fiorilla e Gironio («donna capricciosa ma onesta» e «marito debole e pauroso»). La trasposizione felliniana di Livermore non può fare a meno del circo ed ecco allora che il «coro di zingari, zingare, turchi e maschere» ne diventa la variopinta troupe (stupendi come sempre i costumi di Gianluca Falaschi) mentre Prosdocimo/Federico gira attorniato dalle sue invenzioni femminili, tra cui la Saraghina, la Gradisca, la ballerina d’avanspettacolo con il suo truc en plumes un po’ spelacchiato. Fiorilla ha l’acconciatura e l’abito a pois bianchi e neri della Claudia Cardinale; Zaida è la donna barbuta, imprescindibile corredo circense; il turco Selim uno Sceicco bianco che ha gli stessi gesti dell’indimenticabile Alberto Sordi; Narciso è l’immancabile prete un po’ lubrico in tonaca nera. L’impianto scenico è perfettamente coerente alla vicenda anche se riprende idee già viste, come il Prosdocimo alla macchina da scrivere dell’allestimento di Christopher Alden ad Aix-en-Provence con lo stesso interprete.

L’aspetto visivo è la componente più riuscita di questo spettacolo che dal punto di vista musicale soffre di un’orchestra, la Filarmonica Gioachino Rossini, non all’altezza della situazione e per la quale neanche le cure di Speranza Scappucci sono riuscite a sopperire ai difetti: l’incertezza di intonazione dei fiati dell’inizio e una generale grossezza nella resa dei colori e dei volumi sonori sono solo in parte migliorati nel corso della serata. Meglio il coro del Teatro della Fortuna M. Agostini disinvolto nei ruoli di equilibristi, clown, giocolieri e domatori.

La compagnia di canto è stata dominata dalla presenza mattatoriale di Erwin Schrott nel ruolo titolare. Vero animale di palcoscenico, con indubbia magnetica presenza scenica e gag iterate, sembra però aver trascurato la sua parte vocale, dimenticandone anche qualche battuta con relativo sfasamento con la buca. Il suo timbro tonitruante spesso sopra le righe ha per di più rimarcato l’esilità della voce degli altri comprimari. Olga Peretjat’ko, dal timbro un po’ pungente e nasale, ha risolto la sua parte con le precise agilità che le riconosciamo e l’avvenente aspetto, ma non ha fatto molto per rendere più vera la sua parte, che è fatta anche di trasalimenti e dolcezze espressive che sembrano essere mancate qui. Non la miglior serata per la signora Mariotti. Il goffo e ingombrante Geronio ha trovato in Nicola Alaimo un interprete la cui resa vocale a tratti timida se non incerta è risultata per lo meno consona al personaggio. Narciso dal timbro petulante è quello di René Barbera che risolve con un acuto finale talora ben piazzato una prestazione non esente da incertezze di intonazione. Immaturo l’Albazar di Pietro Adaini, qui improbabile gitana con gonna lunga a balze, cui Rossini dedica un numero, «Ah! sarebbe troppo dolce | il servir al dio d’amore», che si aggiunge alla serie di arie solistiche di cui è fatta principalmente la seconda parte, la più debole dell’opera.

Più a fuoco i ruoli di Prosdocimo, in cui si cala Pietro Spagnoli per l’ennesima volta dimostrando perfetta adesione al personaggio che risolve con la solita eleganza, e di Zaida, una sensibile Cecilia Molinari.

Su tutti quanti si rivela l’attento gioco attoriale fatto dal regista, festeggiato anche lui dagli applausi finali del pubblico del teatro Rossini. Lo spettacolo è coprodotto con il Palau de les Arts valenciano di cui Livermore è direttore e arriverà al Comunale di Bologna nel febbraio 2017.

Aggiornamento: si è saputo in seguito che Olga Peretjat’ko la sera della prima era decisamente indisposta e ciò spiega la sua performance non al massimo. Nelle repliche la cantante ha ripreso la forma smagliante ammirata ad Aix.

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