La donna del lago

 

_MG_3014.jpg

Gioachino Rossini, La donna del lago

★★★★★

Pesaro, Adriatic Arena, 8 agosto 2016

Lettura sotto il segno della nostalgia del capolavoro rossiniano

E se La donna del lago fosse la più grande opera di Rossini? Alberto Zedda nel programma di sala la definisce «affascinante e misteriosa, tra le più belle di un compositore che non conosce la mediocrità», ma dopo averla ascoltata nell’interpretazione di Michele Mariotti all’inaugurazione della 37esima edizione del Rossini Opera Festival sono tanti i motivi per ritenerla la più bella. La modernissima struttura formale (siamo nel 1819!), l’invenzione musicale senza pari, la particolare distribuzione strumentale fanno di questo lavoro un unicum nella carriera del pesarese e il lavoro di concertazione del maestro ne mette in luce tutte le qualità dimostrando una volta di più la straordinaria attitudine verso il teatro rossiniano di Mariotti che dal podio più che dirigere fa riemergere dalla partitura con il suo gesto una musica di trascendentale bellezza e modernità. Sempre accompagnata dal canto (Mariotti canta sempre tutte le parti di qualunque opera diriga!) non c’è iato tra la scena e la fossa orchestrale, è un tutt’uno che serve a ricreare la magia di un’invenzione che solo un genio venticinquenne qual era Rossini allora poteva ideare. In questo bisogna dire che Mariotti è coadiuvato da un’orchestra in stato di grazia, un coro esemplare e una compagnia di canto di sogno.

Ormai Juan Diego Flórez ha superato i limiti umani possibili: l’abilità con cui sviluppa la parte di Uberto/Giacomo V lascerebbe stupefatti se non fosse per l’agio e la facilità con cui ne porge l’impervia vocalità, l’eleganza del fraseggio, la fluidità di emissione, il controllo dei fiati, la presenza scenica, ebbene sì anche quella, non sempre il punto di forza del tenore peruviano. Secondo concorrente alla mano di Elena qui è il trucido Rodrigo cui dà voce uno stupefacente Michael Spyres che passa dai sopracuti alle note basse utilizzando con pienezza di voce le sue due ottave di estensione per delineare un personaggio a cui  neanche il peggior padre vorrebbe consegnare la figlia, qui invece Duglas (sic) lo fa. Tra il tenore del Perù e quello dell’Arkansas è una gara alla quale il pubblico pesarese tributa alternatamente le maggiori ovazioni, in quanto se Flórez è a un livello di perfezione stilistica difficilmente superabile, Spyres ha raggiunto e dispiegato una pienezza vocale e una duttilità sorprendenti. Terzo pretendente è il Malcon en travesti di Varduhi Abramahyan, il contralto armeno dal timbro caldo e dal gesto musicale che pur nella eccellente sensibilità interpretativa ha quel tocco di spavalderia maschile che è utile al carattere.

Infine la sorpresa della serata, l’Elena di Salome Jicia (per chi non mastica il georgiano si pronuncia ‘jikia’). Scelta tra talenti poco conosciuti dall’inossidabile coppia Zedda/Mariotti (padre), quella del soprano georgiano si è rivelata una decisione più che vincente. Fin dalla prima frase quasi sussurrata con un flebile filo di voce di «Oh mattutini albori!» alla pienezza vocale degli ultimi versi della sua aria di apertura, la Jicia ha evidenziato un timbro e un’intelligenza musicali non comuni. Se il primo può ricordare quello di un’altra grande Elena di oggi, quella di Joyce DiDonato – ma la freschezza della voce e la mancanza di vibrato sono caratteristiche che la rendono ancora superiore – per la seconda sono testimoni i tanti duetti e terzetti previsti dalla sua parte culminante con il fantasmagorico rondò finale, qui reso con una sensibilità e una proprietà vocale che raramente si sono riscontrate in questo ruolo. Tutto questo è stato ottenuto anche grazie anche alla regia di Damiano Michieletto che dopo il Guglielmo Tell londinese ha fornito in quest’altro Rossini serio una lettura altrettanto commovente.

L’idea di partenza non è nuova: il flash back di due vecchi, Elena e Malcom appunto, interpretati da due attori, che con commossa e talora dolorosa partecipazione rivivono, cinquanta e più anni dopo, la loro storia sul Loch Katrine. La cadenza di otto battute strumentali iniziali emerge dall’orchestra mentre in scena un interno borghese ci presenta l’anziana coppia tra cui si indovina una certa tensione a causa, sembra, del ritratto incorniciato di un monarca, ritratto posto su un tavolino basso. Un moto di stizza dell’uomo rovescia il vaso di fiori posto accanto alla cornice e l’acqua che ne esce non smette di colare dal tavolino: andrà a formare un piccolo stagno che ha preso posto nell’interno in rovina del secondo ambiente che si svela ai nostri occhi allorché le pareti del salotto scompaiono sollevate in alto. Rigogliose erbe palustri invadono gli spazi, una volta nobili, di una casa devastata dal tempo e qui assistiamo all’incontro di Elena con Uberto, il re in incognito di cui abbiamo visto il ritratto. Elena vecchia si rivede giovane rivivere i turbamenti amorosi provati con lo sconosciuto e quando sopraggiungerà il giovane Malcom sarà il Malcom vecchio a rievocare con la memoria le proprie vicende. Il gioco di doppie presenze è abilmente diretto da Michieletto che così evidenza ed esalta i sentimenti che il testo del Tottola trattiene in maniera reticente, «personaggi scarni di manifestazioni emotive e di reazioni concrete», come vengono giustamente descritti dallo Zedda. È la musica di Rossini che li accende e li fa vivere, per cui talora la presenza dei figuranti si rivela un po’ pleonastica, ma sempre drammaturgicamente funzionale.

La suggestiva scena di Paolo Fantin è genialmente efficace: le pareti che ancora una volta si alzano per rivelare il paesaggio lacustre e della scena della grotta del secondo atto, i lampadari di cristallo sfavillanti di luci a creare «la stanza della reggia di Sterling» della scena quarta e del finale. Appropriati i costumi di Klaus Bruns ad eccezione di quello incongruo di Giacomo che sembra uscito dalla Cenerentola di Emma Dante e affascinante il gioco di luci di Alessandro Carletti che “mette in luce” la straordinaria varietà di colori scenici di questa incredibile partitura da cui nascerà il teatro romantico della musica italiana.

Per una volta l’allestimento di Michieletto non ha suscitato il benché minimo disappunto nel compassato pubblico della prima pesarese, anzi è stata palpabile l’intensa commozione che ha soggiogato la platea dell’Arena per tre ore di fila.

Nell’entusiasmo della cronaca dimenticavo l’ottima resa degli altri interpreti: Marko Mimica (Duglas), Ruth Iniesta (Albina) e Francisco Brito (Serano, Bertram). Lo spettacolo è coprodotto con l’Opéra Royal de Wallonie-Liège ed è stato dedicato al ricordo di Gae Aulenti.

08:08

attachment.jpg

Pubblicità