I Capuleti e i Montecchi

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Vincenzo Bellini, I Capuleti e i Montecchi

Parigi, Opéra Bastille, 15 giugno 2008

(registrazione video)

Molto Bellini, poco Shakespeare

«Negli ultimi giorni del 1829 Bellini si trovava a Venezia per curare l’allestimento del Pirata, che sarebbe andato in scena alla Fenice, con gli opportuni adattamenti, ai primi del gennaio 1830. Come terza opera della stagione, il teatro veneziano aveva programmato un nuovo lavoro di Pacini. Ma non appena fu chiaro che quest’ultimo, oberato di lavoro, non avrebbe tenuto fede all’impegno, la presidenza del teatro, l’impresario e l’intera città si diedero a pregare Bellini perché scrivesse lui un’opera al posto del collega inadempiente. Il compositore fu dapprima riluttante, non amando lavorare assillato dalla fretta e nutrendo forti timori che il poco tempo a disposizione avrebbe portato a un insuccesso; ma finì per cedere alle pressioni. Convocato a Venezia Romani, compositore e librettista convennero di utilizzare nuovamente il libretto che lo stesso Romani aveva scritto, pochi anni prima, per Nicola Vaccai (Giulietta e Romeo, Milano 1825), rimaneggiandolo e mutandone il titolo. Il libretto si prestava perfettamente alla compagnia di canto scritturata dalla Fenice per quella stagione: compagnia nella quale primeggiava il mezzosoprano Giuditta Grisi, cui Bellini affidò la parte di Romeo. Assegnando il ruolo del giovane amoroso a una donna in abiti maschili, il compositore si inseriva in una tradizione di lunga data, che in quegli anni non era ancora avvertita come antiquata, nonostante fosse ormai prossima a cadere in disuso. […] Il finale dell’opera è assolutamente degno di nota: tutto in stile declamato, in un’alternanza continua tra recitativo accompagnato e arioso, presta la massima attenzione ai trapassi psicologici dei personaggi in scena e raggiunge vette d’alto patetismo. Per la sua novità, il finale sconcertò una parte del pubblico ed ebbe un’accoglienza controversa. Se a tutto ciò si unisce il fatto che esso poco si presta ad assecondare le velleità esibizionistiche di una primadonna, si comprende perché ben presto (a partire dalle rappresentazioni di Firenze nel 1831) si affermasse la consuetudine di eseguire l’opera belliniana sostituendone il finale con quello, più tradizionale, dell’opera scritta da Vaccai». (Claudio Toscani)

Atto primo. A Verona nel XIII secolo. La città è dilaniata dalla lotta che oppone la famiglia dei Capuleti, guelfi, a quella dei Montecchi, ghibellini. Capellio, principale esponente dei Capuleti, ha chiamato i suoi a raccolta per esortarli alla lotta contro la fazione avversaria: informa gli astanti che i Montecchi, sostenuti dall’amicizia di Ezzelino, hanno per capo Romeo, l’odiato uccisore di suo figlio, e che questi sta per inviare un ambasciatore con proposte di pace. Lorenzo, contro il parere generale, consiglia di ricevere e ascoltare il messaggero. Capo della fazione guelfa è Tebaldo, che promette di vendicare col sangue di Romeo (“È serbata a questo acciaro”) l’uccisione del figlio di Capellio. Quest’ultimo gli offre in sposa la figlia Giulietta: le nozze si celebreranno la sera stessa. Lorenzo, che conosce il segreto legame della fanciulla con Romeo Montecchi, sconsiglia il matrimonio accampando il pretesto della malattia di Giulietta. Tebaldo si dichiara pronto a rinunciare alle nozze, se dovessero costare una sola lacrima alla fanciulla; ma Capellio lo rassicura che Giulietta sarà eternamente devota a chi vendicherà il fratello ucciso. Giunge, intanto, l’ambasciatore dei Montecchi con proposte di pace: questi non è altri che Romeo, rientrato in Verona sotto mentite spoglie. Propone che la pace sia suggellata dalle nozze tra Romeo e Giulietta (“Se Romeo t’uccise un figlio”); ma Capellio e i suoi rifiutano sdegnati, rinnovando anzi i loro propositi bellicosi. Intanto Giulietta, sola nei suoi appartamenti, ha appreso la decisione paterna: compiange la sua sorte e invoca l’amato Romeo, che crede lontano (“Oh, quante volte, oh, quante”). Lorenzo le rivela che il giovane è tornato in città, in incognito, e lo introduce per un uscio segreto nella stanza di Giulietta. Romeo si getta nelle braccia dell’amata; alla sua proposta di fuggire con lui (“Sì, fuggire: a noi non resta”), la giovane rifiuta in nome del dovere e dell’obbedienza filiale. Romeo cerca inutilmente di persuaderla; poi, al risuonare della musica nuziale, si fa convincere ad allontanarsi e a mettersi in salvo. Nel palazzo di Capellio dame e cavalieri festeggiano le imminenti nozze di Giulietta con Tebaldo. Romeo, introdottosi tra i convitati in abiti guelfi, confida a Lorenzo che nel frattempo mille ghibellini armati sono penetrati in Verona, pronti a cogliere di sorpresa gli avversari. Lorenzo cerca invano di convincerlo ad allontanarsi da Verona e a rinunciare ai suoi propositi. S’ode un tumulto: un gruppo di Capuleti è assalito da alcuni Montecchi in armi; i convitati fuggono, Romeo corre ad unirsi ai suoi. Mentre si spegne il clamore, giunge Giulietta in abito da sposa, in ansia per l’esito dello scontro. Romeo la raggiunge e cerca nuovamente di convincerla a seguirlo; ma irrompono Tebaldo e Capellio, alla testa dei guelfi armati. Romeo, riconosciuto, riesce a sottrarsi all’ira dei nemici solo grazie all’intervento dei suoi.
Atto secondo. Giulietta è sola nei suoi appartamenti: la battaglia è ripresa e la fanciulla attende, in ansia, che Lorenzo le comunichi l’esito dello scontro. Apprende che Romeo è salvo, ma che una minaccia incombe su di lei: l’indomani sarà condotta al castello di Tebaldo e costretta alle nozze. Lorenzo le consiglia allora uno stratagemma: le consegna un filtro in grado di simulare la morte, che la fanciulla beve dopo qualche esitazione (“Morte io non temo, il sai”). Giunge Capellio, che impone alla figlia di ritirarsi e di prepararsi alle nozze. Giulietta scongiura il padre di abbracciarla; questi è turbato, ma mette a tacere i propri rimorsi. Manda a cercare Tebaldo e gli ordina di sorvegliare Lorenzo, di cui comincia a diffidare. In una via di Verona, intanto, Romeo – allarmato dalla mancanza di notizie – è in cerca di Lorenzo. S’imbatte in Tebaldo, che lo sfida a duello (“Stolto, a un sol mio grido”); ma sul punto di battersi, i due rivali sono trattenuti da una musica funebre: è il corteo che accompagna alla tomba Giulietta, creduta morta da tutti. Romeo e Tebaldo si abbandonano alla disperazione. Nel luogo in cui è sepolta Giulietta giunge Romeo, con seguito di Montecchi; fa aprire la tomba e parla, in delirio, all’amata. Ordina ai suoi di allontanarsi, invoca nuovamente la salma di Giulietta (“Deh, tu, bell’anima”) e si avvelena. Giulietta si risveglia, pronunciando il nome di Romeo: scorge il giovane ai piedi del sepolcro e pensa l’abbia raggiunta perché avvertito da Lorenzo. Appresa la terribile verità, i due amanti si stringono in un ultimo abbraccio; Romeo muore e Giulietta cade riversa sul suo corpo. Giungono i seguaci di Romeo, inseguiti da Capellio e dai suoi: di fronte alla tragica scena, Capellio sente ricadere su di sé tutte le conseguenze dell’odio tra le due fazioni nemiche.

La presenza in questa produzione di artisti appartenenti a case discografiche diverse e/o problemi sindacali non hanno permesso la registrazione per un DVD di questo allestimento parigino che è stato ripreso più volte in Italia con interpreti diversi. Non che manchino registrazioni video dell’opera di Bellini (Frizza a San Francisco dirige Cabell e DiDonato nell’allestimento di Boussard con i costumi di Christian Lacroix; Acocella al festival di Martina Franca è con Ciofi e Polito e la regia di Krief), ma l’accoppiata DiDonato-Netrebko si poteva avere solo dal vivo alla Bastille di Parigi. Della cantante russa, incinta di alcuni mesi, non si può non ammirare la potenza vocale, il timbro sontuoso, la tecnica magistrale, la luminosità del registro acuto. Al massimo si può notare una certa mancanza di leggerezza e freschezza, doti che ci si aspetterebbe dal personaggio di Giulietta. Ma averne di cantanti così!

Del Romeo di Joyce DiDonato si apprezza sì l’omogeneità di registro, la proiezione delle noti gravi, la perfetta dizione, ma soprattutto la totale incarnazione col personaggio: ogni gesto, ogni parola (ah, i recitativi!)  ha senso ed è credibile. Da adolescente gradasso che sfida la parte avversaria a innamorato pieno di ardore ad amante disperato, non c’è momento in cui la cantante americana sia meno convincente ed emozionante. Teobaldo di lusso è quello di Matthew Polenzani, perfettamente a suo agio come belcantista. Mikhail Petrenko e Giovanni Battista Parodi (Lorenzo e Capellio) completano l’eccellente cast .

La regia di Carsen era nata nel 1996, «una regia che non ha la forte impronta di altre produzioni del canadese ma che ha il pregio di narrare chiaramente la storia, facendo trasparire la claustrofobicità della vicenda, che ha unica via di uscita nella morte. Michael Levine crea un impianto scenico minimalista e funzionale, alte mura rivestite di pannelli rossi che scuriscono nel nero verso l’alto a denotare una invalicabilità che è in primis nella mente e nel cuore. Le pareti divisorie, nel finale del primo atto, al momento dello scontro fra Capuleti e Montecchi, sono montate su di una piattaforma girevole per cambiare gli squarci visivi con l’aiuto delle luci azzeccate di Davy Cunningham. Solo due colori, il rosso e il nero, per esemplificare in modo immediato una vicenda di amore e odio, abnegazione e passione, sangue e morte. Scarni arredi di sapore monastico annegati in un ambiente sviluppato in altezza, un lungo tavolo schiacciato contro il sipario schizzato di sangue, un piccolo lettino sormontato da una croce, una cassapanca dove Giuletta custodisce il suo abito, poche sedie. Lungo una prospettiva obliqua vaga Giulietta fra sedie rovesciate e cadaveri guelfi e ghibellini, che si rialzeranno al rallentatore in una danza macabra dominata dal clarino quando la giovane si affloscerà a terra come un fiore reciso per effetto della pozione (ecco il Carsen che ci aspettiamo). Il sepolcro è un rettangolo disegnato sul pavimento dalla luce che filtra da un vano scale, una tomba che Romeo non osa avvicinare lasciando sgorgare dall’oscurità un lamento intimo e disperato; poi oltrepasserà la linea d’ombra per spirare sull’altare di luce insieme a Giulietta.» (Francesco Rapaccioni e Ilaria Bellini)

La dicotomia di colori si estende anche ai costumi: dal rosso per i guelfi Capuleti e dal nero per i ghibellini Montecchi solo si stacca il bianco di Giulietta, estranea e vittima dell’odio delle due casate, ma neanche la sua morte e quella di Romeo pongono fine al conflitto nella regia di Carsen.

Durante la pimpante sinfonia, che Pidò dirige come se si trattasse di Rossini, i Capuleti entrano in scena e prendono ognuno una spada conficcata in proscenio per salire poi per una ripida scala. La stessa scala la ritroveremo di nuovo alla fine, ma stavolta per scendere alla tomba di Giulietta (un cambio di prospettiva che il regista canadese riprenderà nel suo ultimo Flauto magico).

Una registrazione di fortuna dello spettacolo è al momento disponibile su youtube, sicuramente la prova generale giacché Pidò è in jeans e t-shirt.