Gaetano Rossi

Che originali! / Pigmalione


Giovanni Simone Mayr, Che originali!

Gaetano Donizetti, Pigmalione

★★★☆☆

Bergamo, Teatro Sociale, 25 novembre 2017

(diretta streaming)

Maestro e allievo riuniti in un originale dittico

A Bergamo il Festival Donizetti prrsenta un dittico formato da due brevi opere di Giovanni Simone Mayr e Gaetano Donizetti, ossia il maestro e l’allievo. Il primo con un lavoro della maturità, il secondo con la sua prima opera.

Che originali! è una farsa musicata da Mayr per il Teatro San Benedetto di Venezia dove andò in scena il 18 ottobre 1798. Il libretto di Gaetano Rossi è basato su una pièce francese del 1779 che mette in burla un fanatico di musica. Qui ci sono anche le ossessioni metastasiane della figlia.

Biscroma e Celestina, servitori nella casa di Don Febeo, un nobile di strette vedute e fanatico per la musica (anche se dilettante), decidono di aiutare la figlia maggiore del padrone, Aristea, lei infatuata dalla poesia di Metastasio, a sposare il suo innamorato Don Carolino. Don Febeo non solo vuole che Aristea e l’altra figlia, l’ipocondriaca e depressa Rosina, diventino affermate musiciste, ma anche che trovino un marito con un notevole talento musicale. Don Carolino, nonostante sia di rango aristocratico è musicalmente incapace agli occhi di Febeo e a causa della sua ignoranza musicale viene cacciato da Febeo. Avendo questi bisogno di un nuovo staffiere, si presenta un certo Carluccio, ma Febeo vuole che anche i suoi servitori se ne intendano di musica, perciò lo rifiuta. Carluccio risponde per le rime mettendosi a cantare e Don Febeo si convince ad assumerlo. Intanto Don Carolino con l’aiuto di Biscroma ritorna mascherato per farsi assumere come segretario. Per metterlo alla prova, Don Febeo gli detta alcune note, ma per colpa della sua ignoranza in fatto di musica viene smascherato. Don Febeo ora si deve recare all’Accademia musicale di cui è presidente per presentare la nuova opera lirica Don Chisciotte che però non piace. Si presenta nuovamente Don Carolino nei panni di un famoso maestro di cappella, tale Signor Semiminima. Don Febeo, suo grande ammiratore, va in uno stato di totale confusione, e quando Semiminima/Don Carolino chiede la mano di Aristea, gliela concede.

L’opera fu ripresa con diversi titoli: Gli originali, Il pazzo per la musica, La melomane, Il trionfo della musica, Il fanatico per la musica e La musicomania. Come Oh! che originali fu rappresentata ad esempio nel 1829 al Carcano di Milano senza il personaggio di Rosina. Appartenente ai lavori metateatrali cari al Settecento in cui si prendono in giro manie e smanie musicali e/o operistiche, il lavoro di Mayr ha un suo interesse per l’arguto libretto e la fine orchestrazione, la vivacità dei concertati e la virtuosità degli strumenti a fiato mentre le arie solistiche caratterizzano efficacemente i diversi caratteri, ovviamente in modo farsesco.

Nella versione originale, alla testa dell’Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala Gianluca Capuano fa del suo meglio con un’orchestra volenterosa, ma non sembra lo stesso di quando dirige Les musiciens du Prince-Monaco… Affidabile il cast di questa produzione del Festival Donizetti. Bruno de Simone è stato uno dei grandi buffi per molti anni e se ora la sua voce suona un po’ appannata non è uno svantaggio per la parte del “musicomaniaco” Don Febeo che comunque si fa valere nel duetto con Aristea e nella scena solista del suo Don Chisciotte. Leonardo Cortellazzi è perfettamente all’altezza delle esigenze vocali di Don Carolino. Angela Nisi (Donna Rosina) sfoggia una precisa coloratura e Gioia Crepaldi è una vivace e pimpante Celestina. Omar Montanari (Biscroma) non esagera nel macchiettismo ed è al suo massimo effetto nell’aria «Finché mie belle». Quantitativamente minore la parte di Carluccio in cui vediamo Pietro di Bianco parodiare l’aria mozartiana «Se vuol ballare signor contino» per farsi assumere. E poi abbiamo la prima donna, il mezzosoprano Chiara Amarù, la “metastasiasta” Aristea, che sfoggia buona voce, lettura sfumata ed espressiva nei recitativi e brillante nella cavatina «Chi dice mal d’amore», un pezzo che ha avuto una vita propria al di fuori dell’opera.

Roberto Catalano ambienta la lepida vicenda in un Novecento dai costumi pop di Ilaria Ariemme, dove fiori e glitter hanno il predominio. La scena unica di Emanuele Sinisi prevede una stanza con la parete di fondo occupata da una enorme tela di Lucio Fontna con i tagli che il servo Biscroma rattoppa con ago e filo e che quando viene rimossa mostra una parete semispecchiante in cui a tratti appare la scena della seconda parte, quella di Donizetti, con un effetto inquietante. La recitazione rimane sempre al di qua del farsesco ma il regista non sembra aver voluto cercare una particolare chiave di lettura.

Se nella farsa di Mayr il protagonista ostenta un’arte che non padroneggia e con cui ossessiona la sua vita e quella degli altri, nella “scena drammatica” di Donizetti l’artista è invece deluso dall’umanità e alla ricerca di un’ispirazione per arrivare all’autencità. Pigmalione fu scritto in sole due settimane nel settembre dal 15 settembre al 1° ottobre 1816 – com’è scritto sulla pagina autografa – da un diciannovenne Donizetti, studente di composizione a Bologna, probabilmente per la visita del maestro Mayr. Mai messa in scena, la prima rappresentazione avvenne il 13 ottobre 1960 a Bergamo. Il libretto di Simeone Antonio Sografi riprende l’episodio narrato nel decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio. Lo stesso Sografi aveva scritto il testo della Saffo (Venezia, 1794) di Mayr.

Lo scultore Pigmalione è in crisi creativa, il lavoro gli appare vuoto e senza senso. Per di più ha cominciato a provare una nuova e sconosciuta passione amorosa per una sua statua femminile le cui membra sembrano muoversi quando vi si accosta con gli strumenti del mestiere. Dilaniato da sentimenti contrastanti, si rivolge agli dèi, chiedendo pace e pietà. Ogni speranza però è vana e l’unica soluzione pare essere la morte: Pigmalione si rivolge a Venere, dea dell’amore, dicendo di voler consacrare la sua vita e la sua morte alla statua che chiama per nome: «Galatea dove sei?». Quando un fulmine la colpisce, la statua si anima e l’artista le dice di esserne stato il creatore, Galatea – scoprendo i palpiti del proprio cuore – comprende di essere viva e lo abbraccia.

«Il Pigmalione è un lavoro modesto in tutti i significati del termine» sentenzia l’Ashbrook, «La scrittura vocale ha un’estensione limitata ed è parca di abbellimenti; l’orchestra comprende un flauto, un oboe, due clarinetti, due corni, due fagotti e gli archi. È l’unica opera di Donizetti il cui autografo non prevede la divisione in numeri separati e ciò indica chiaramente che fu composta come esercitazione e non ai fini dell’esecuzione della pubblicazione. […] L’azione manca di tensione drammatica. I momenti migliori sono un grazioso ritornello in forma ternaria per flauto e archi, che accompagna la contemplazione della statua da parte dell’autore, Il recitativo in cui questi, nel sollevare lo scalpello, si accorge con spavento che un potere misterioso gli trattiene la mano; larghi intervalli nella linea vocale e dissonanze senza preparazione nell’accompagnamento illustrano qui la sua agitazione. Le arie sono brevi e simmetriche; tutti i recitativi sono accompagnati e, purtroppo, il duetto finale è il punto debole della partitura. L’influsso di Mayr è evidente in varie parti, quello di Rossini invece quasi non si nota».

Nella lunga scena solistica di Pigmalione Antonino Siragusa si conferma come sempre refrattario a qualunque ipotesi di recitazione ed è talora troppo squillante. Aya Wakizono ha poco da dimostrare nella parte di Galatea, che occupa i pochi minuti del duetto finale.

La scultura Uovo di Fontana collega iconograficamente questa seconda parte alla prima, ma la messa in scena è meno convincente e la regia non risolve il passaggio da statua a vivente del personaggio femminile. In questa ambientazione contemporanea, un’asettica camera d’albergo, le invocazioni agli dèi e a Venere suonano piuttosto incongrue.

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L’italiana in Algeri


Gioachino Rossini, L’italiana in Algeri

★★★☆☆

Amsterdam, Het Muziektheater, 13 gennaio 1995

(registrazione video)

Fo insiste con Rossini

Nella sterminata carriera teatrale di Dario Fo c’è stato posto anche per il teatro in musica con la messa in scena di L’histoire du soldat (1978) e di Pierino e il lupo (1992) mentre per quanto riguarda l’opera lirica vera e propria si ricordano le regie di Il barbiere di Siviglia (1986), L’Italiana in Algeri (1994), La Gazzetta (2001) e Il viaggio a Reims (2002). Solo Rossini quindi per Fo che lo ha ritenuto il compositore più affine al suo modo di far teatro, anche se c’è chi come Elvio Giudici che non apprezza il suo approccio: «Tradurre in scena lo scatenamento ritmico rossiniano sembrerebbe pane ideale per i denti aguzzi della mimica di Dario Fo, capace come nessuno di rivisitare i moduli teatrali antichi ristrutturandoli e ricomponendoli con modernità stupefacente. Ma Rossini è una brutta bestia per i registi. Quei ritmi che sembrano reiterarsi di continuo e sono invece sempre diversi, nutriti per giunta d’una sottile, quasi inavvertibile vena di languida di sensualità, costruiscono personaggi definiti non dalla situazione ma da quegli “accenti nascosti” sardonicamente indicati da Rossini quale meta espressiva ai propri interpreti. […] Mimi a profusione, dunque, vorticanti per ogni dove con in mano gli oggetti più disparati, ivi compresi e inutili e banalissimi cartelli con lacerti di testo. Gestualità a macchinetta nel tentativo (forse) di tradurre lo scatenamento ritmico rossiniano. Personaggi annegati nel profluvio di gente che passa, ripassa, piroetta, si maschera in varie forme zoomorfe e insomma rompe le scatole in sovrana e prosopopeica indifferenza alle vicende, ambiente o situazione sentimentale. Spettacoli di Fo musica di Rossini, insomma».

Non fa eccezione questa Italiana in Algeri che da Pesaro arriva al Muziektheater di Amsterdam, teatro che aveva già ospitato il suo Barbiere. A cominciare dagli animali in scena (uccelli vari, cammelli, leoni, scimmie, struzzi, zebre, giraffe…) cui si aggiungono giocolieri, saltimbanchi, acrobati, sbandieratori, trampolieri, ciclisti, mangiafuoco, giostre del saracino, marionette volanti, eunuchi, danzatori e danzatrici, colonne semoventi, per non parlare dei portatori di pali appuntiti di varie dimensioni… E tutto sul ritmo della musica con un senso di horror vacui che è accettabile solo per il sicuro senso del teatro di Fo e per il surreale umorismo della musica del pesarese. Scene e costumi, disegnati dallo stesso regista, costruiscono un mondo coloratissimo e folle (impagabile il trono-portantina di Mustafà di forma fallica) in cui la finzione teatrale è spesso messa allo scoperto: le onde da cui saltano i pesci sulle note puntate dell’ouverture si rivelano dei teli azzurri che, dopo essere agitati per rendere alla perfezione il moto ondoso di quel mare in cui naufraga il «vascello rotto ad uno scoglio e disalberato dalla burrasca», vengono ritirati ripiegandoli accuratamente.

Alberto Zedda sul podio garantisce sull’operazione a livello musicale con ritmi vivaci che diventano quasi forsennati nei concertati mettendo talora a disagio i cantanti, nella quasi totalità non italiani. Isabella è qui affidata ai modi manierati e alla voce che non conosce sensualità di Vesselina Kasarova, che dipana le agilità con meccanica freddezza. Non meglio l’Elvira di Elena Vink dal tono petulante. Il Mustafà di Peter Rose non strafà, è simpatico e vocalmente pregevole ma la dizione è quella che è. Non male il Taddeo di Jan Opalach, meno piacevole lo Haly di Eduardo Chama. Il meglio nel cast lo dà il Lindoro di William Matteuzzi che sfoggia con agio ed eleganza agilità, variazioni e puntature come se non ci fosse un domani. In alternativa alla cavatina «O come il cor di giubilo» presenta l’aria alternativa «Concedi amor pietoso», impegnativo pezzo musicale preceduto da una lunga introduzione al clarinetto.

Linda di Chamounix

Gaetano Donizetti, Linda di Chamounix

★★★☆☆

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 10 gennaio 2021

(diretta streaming)

Linda o il primo caso di musicoterapia

Nel libretto a stampa della Linda di Chamounix il nome della protagonista è all’ultimo posto, dopo quello della madre Maddalena, l’altro unico personaggio femminile di questo melodramma andato in scena il 19 maggio 1842 al Kärntertortheater di Vienna. Sì, Vienna perché dal 1838 Donizetti aveva praticamente lasciato l’Italia. Si era tsasferito a Parigi dove aveva scritto La fille du régiment (Opéra-Comique, febbraio 1840), Les martyrs (Opéra National, aprile 1840, versione francese del Poliuto che la censura napoletana gli aveva bloccato), La favorite (Opéra National, settembre 1840, riscrittura de L’ange de Nisida). Su raccomandazione di Rossini, il Metternich lo aveva poi invitato a Vienna dove avvenne appunto la prima dell’opera.

Nonostante abbia l’ultimo posto nell’elenco dei personaggi, la parte di Linda è sempre stata tra le favorite dalle prime donne del belcanto, dalla Eugenia Tadolini del debutto viennese, alla Fanny Tacchinardi che si fece scrivere la “tyrolienne” per la ripresa a Parigi sei mesi dopo, da Margherita Rinaldi a Lucia Aliberti a Mariella Devia, da Edita Gruberová a Diana Damrau. Jessica Pratt non poteva mancare all’appello: l’artista anglo-australiana, ora italiana di adozione e habituée del teatro fiorentino, l’aveva già cantata a Roma nel 2016 nella produzione del Liceu e ora è la protagonista di questa nuova edizione che inaugura la stagione 2021 del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, uno spettacolo registrato a porte chiuse e ora disponibile in streaming.

La Pratt è migliorata molto sul piano dell’espressività e della presenza scenica, le agilità sono sempre gloriosamente risolte e il fraseggio, se non la dizione, un esempio di stile. Qualche nota può non essere pulita ma gli acuti sono generalmente sicuri e precisi. Dopo averla spesso trovata un po’ gelida, ora sembra non compiacersi più troppo della mera tecnica vocale per cercare di dare una più convincente interpretazione della protagonista. Per quanto riguarda il Visconte Carlo, non è certo colpa di Francesco Demuro se il personaggio è del tutto insulso, ma il tenore sardo fa del suo meglio e si fa apprezzare per le belle mezze voci e le intenzioni espressive, così come per lo squillo luminoso. Delizioso Pierotto è quello di Teresa Iervolino mentre a Fabio Capitanucci tocca la parte più insopportabile, quella del Marchese di Boisfleury, disimpegnata con un certo distacco ch ela rende meno grottesca. Prefetto di lusso è quello di Michele Pertusi, come al solito autorevole, mentre chissà perché panzuto e decrepito molto più del dovuto l’Antonio di Vittorio Prato, che adatta con abilità la voce e il portamento alla scelta registica. Marina de Liso cerca di dare spessore alla inconsistente madre Maddalena. Conferma la buona impressione avuta al suo Il barbiere di Siviglia in questo stesso teatro pochi mesi fa e prima ancora in un altro Donizetti, L’elisir d’amore, a Torino, la direzione di Michele Gamba, che evidenzia le differenti atmosfere (le gelide montagne della Savoia, l’ambiente borghese della città) e le preziosità timbriche di una partitura destinata all’esigente pubblico viennese. «La tavolozza orchestrale è ricercatissima, le linee melodiche nobili anche quando di origine popolare. La musica si fa Koinè che affonda le radici nello spirito europeo del suo tempo» afferma il direttore. E non è da tutti poi saper ricreare in orchestra una ghironda con i suoi toni trasognati.

Come quello del fantastico, il genere dell’opera di demi-caractère non ha mai goduto di buona fama presso il pubblico al di qua delle Alpi, polarizzato da dramma romantico prima, realistico poi, e commedia più o meno buffa. Né aiuta, anzi mette in difficoltà il regista che lo mette in scena, come succede anche questa volta. La lettura di Cesare Lievi tenta la strada dell’ironia (lo sguardo obliquo di Demuro per le forme opime della Pratt…), ma si ferma a metà strada e lo spettacolo risulta piuttosto scialbo. Per di più le esigenze sanitarie della pandemia ci mettono del loro a complicare le cose portando a scene surreali come quella con cui inizia il terzo atto: i coristi impalati e distanziati con lo spartito in mano giubilano «Evviva, evviva […] facciamo un brindisi» in un’atmosfera che più lugubre non potrebbe essere mentre l’azione è demandata a figuranti che fingono di abbuffarsi con la mascherina sulla bocca. Peccato, perché la cura attoriale, soprattutto nel secondo atto, è evidente e anche i rimandi scenografici di Luigi Perego (che firma anche i costumi), con una contrapposizione non banale tra ambiente rurale e urbana, sono non spregevoli: una ferrosa paratia in lamiera chiude il cielo sia del villaggio rurale sia di quello parigino a sottolineare che la rivoluzione industriale è vicina e presto quei montanari scenderanno dai monti per entrare nelle fabbriche della pianura.

Così inizia la nuova gestione Pereira, con un titolo ai suoi tempi frequentatissimo, ora molto raro. Tutto sommato la Linda merita di tornare regolarmente nei cartelloni, anche soltanto per quel momento magico in cui tutto si risolve alle note di un tema cantato. Non esiste un’altra testimonianza più sincera del potere della musica e della sua funzione lenitiva. Ancora una volta dobbiamo ringraziare il buon Donizetti per avercelo ricordato.

Linda di Chamounix

Gaetano Donizetti, Linda di Chamounix

★★★★☆

Barcellona, Gran Teatre del Liceu, 20 dicembre 2011

(registrazione video)

«Pastrocchio melodrammatico di sesquipedale idiozia»

Il lapidario giudizio di Elvio Giudici è riferito a quello «squadernato dal second’atto: quattro duetti in fila in cui Linda si confronta con il bamboccione canterino, col giovane libertino ma non troppo e non fino in fondo, con il nobile malandrino, col babbo nobile ma ahimè tanto indisponente – e lei resta sempre uguale a sé stessa, innocente e pura oppure scema, dipende dalle personali reazioni», ma è facilmente estensibile a tutta l’opera. Il genere semi-serio o di mezzo-carattere non ha mai portato molta fortuna ai compositori italiani.

Eppure la musica della Linda di Chamounix è bellissima, a partire dall’esaltante duetto del primo atto il cui tema ritornerà come Leitmotiv per tutto il lavoro, uno dei più trascinanti duetti d’opera mai scritti. O il coro «O tu che regoli» che echeggia da vicino «Dal tuo stellato soglio», la preghiera del Mosè di Rossini. Ovunque nel corso dell’opera ci sono gemme melodiche e strumentali con cui Donizetti voleva fare colpo a Vienna, ma la drammaturgia del libretto era appena proponibile anche allora e ci si chiede se con quest’opera gli autori volessero farsi beffa del moralismo borghese. Se la Lucia manzoniana lasciava i «monti sorgenti dalle acque» per sfuggire al lubrico signorotto locale – gli anni sono quelli: nel 1840 era stata pubblicata la seconda e definitiva edizione del romanzo, nel 1841 Donizetti componeva l’opera –  lo stesso è per la Linda de La Grace de Dieu ou La nouvelle Franchon di Adolphe-Philippe d’Ennery e Gustave Lemoine che lascia i monti della Savoia per scappare alle sozze brame di «un indegno seduttor» per poi vivere nella città peccaminosa mantenuta dall’amato che crede pittore e che è invece visconte, ma non gli si cede per rimanere pura fino al sacro vincolo matrimoniale tanto agognato e non fare la fine della «buona figlia» della ballata di Pierotto.. 

Non sono frequenti le rappresentazioni di Linda di Chamounix anche per l’esigenza di un soprano e di un tenore di prim’ordine. Nel 2011 il Liceu du Barcellona fa il colpo grosso di ingaggiare due stelle del firmamento lirico. Della Linda di Diana Damrau si può parlate di un perfetto equilibrio raggiunto tra espressività e purezza della linea vocale. Delle perfette agilità non fa sfoggio vocale fine a sé stesso nella “tyrolienne” o nella scena della pazzia: tutta la parte dell’insopportabilmente ingenua fanciulla sembra sublimarsi nella tecnica e nella intensa presenza scenica del soprano tedesco e gli interminabili applausi che salutano la sua performance lo dimostrano.

Juan Diego Flórez da parte sua riesce quasi a rendere plausibile un personaggio insulso qual è quello del Visconte Carlo. Vocalmente è una prova magistrale quella che dipana sulla scena del Liceu, tutto un gioco di chiaroscuri e sfumature, fraseggio e filati di sogno, fiati e acuti luminosissimi accolti da un delirio di acclamazioni del pubblico. Flórez riuscirebbe a dare senso anche all’elenco del telefono, ci riesce anche stavolta con i versi di Gaetano Rossi. Vero è che a Carlo e a Linda Donizetti ha dedicato pagine di indicibile bellezza che hanno tra i vertici quello del loro duetto nel primo atto con quel tema che ti rimane appiccicato addosso anche quando esci dal teatro.

Il Marchese di Boisfleury, l’incongruo vilain che si esprime nei tipici sillabati rossiniani da basso buffo, è affidato a Bruno de Simone che riesce quasi a convincerci a voler tagliare la sua parte, quasi. Meno melenso del solito è il piacevole Pierotto della bravissima Silvia Tro Santafé. Molto efficaci Simón Orfila quale Prefetto e Pietro Spagnoli protoverdiano padre povero ma onorato.

Marco Armiliato alla guida dell’orchestra del teatro non sempre riesce a dare unità di intenzioni a questo ibrido pasticcio semiserio (semiscemo direbbe Mattioli) e manca la leggerezza di mano che si vorrebbe trovare in questa partitura strumentalmente molto curata da Donizetti. Non sempre l’equilibrio tra voci e orchestra è ottimale, ma tanto di più non si può dire data la qualità un po’ precaria di una captazione che non è mai stata oggetto di una registrazione commerciale.

La regia di Emilio Sagi è quasi inesistente, senza idee particolari: tutto è lasciato agli interpreti, ma solo la Damrau riesce a fornire una recitazione convincente, quasi tutti gli altri cantano e basta. Non aiutano certo le stilizzate scenografie di Daniel Bianco o i costumi di Pepa Ojanguren, troppo chic per un villaggio savoiardo di inizio secolo XX – lo slittamento temporale è evidenziato dall’entrata in scena del nobilastro seduttore su una splendida auto d’epoca. Ma che importa quando le orecchie sono deliziate dalle sublimi melodie del bergamasco in bocca a due fuoriclasse.

La cambiale di matrimonio

Gioachino Rossini, La cambiale di matrimonio

★★☆☆☆

Pesaro, Teatro Rossini, 8 agosot 2020

(diretta video)

La Cambiale dei due tenori

I festival estivi cercano di sopravvivere in tempo di coronavirus. Riducendo tutti il programma, qualcuno riducendo le opere stesse. A Pesaro il Rossini Opera Festival ha la fortuna di avere a disposizione dei lavori già originariamente brevi, ossia le farse in un atto del giovane pesarese, come La cambiale di matrimonio, appunto. Non il suo primo lavoro (che è Demetrio e Polibio), ma il primo a essere messo in scena, debuttando il 3 novembre 1810 al Teatro San Moisè di Venezia per supplire al ritiro di un altro lavoro in cartellone. Rossini aveva allora diciotto anni. Con questa prima opera nasceva l’immagine di un compositore «comico nella sostanza, drammatico negli accidenti» come scrive il Carli Ballola  che così descrive questo primo fecondo periodo creativo di Rossini: «Nelle farse veneziane Rossini ha trovato prontamente una formula sua e la cavalca allegramente come un giovane stallone focoso. Il demone o non piuttosto la furia creativa che nel giro di pochi mesi gli consentiranno di buttar giù i quattro atti unici per Venezia [La cambiale di matrimonio, L’inganno felice, La scala di seta, L’occasione fa il ladro], i due atti di un’opera buffa per Bologna [L’equivoco stravagante] e i due di un’opera-oratorio per Ferrara [Ciro in Babilonia] hanno del prodigioso, portano necessariamente allo sveltimento di una mano e al consolidamento di un formulario, elementi di supporto all’immancabile clinamen della pagina unica e memoranda».

La cambiale di matrimonio è l’unica nuova produzione rimasta nel cartellone del ROF, essendo le altre rimandate all’anno prossimo. L’atto unico è già passato sul palcoscenico pesarese, l’ultima volta nel 2006 con la direzione di Umberto Benedetti Michelangeli e la regia di Luigi Squarzina che ne firmava anche l’elegante impianto scenico. Qui sono due tenori a tenere a battesimo questa produzione che però fa rimpiangere quella. Alla direzione dell’Orchestra Rossini posta nella platea sgombera di poltrone – il pubblico è sistemato nei palchi – c’è Dmitrij Korčak, voce rossiniana qui impegnata a concertare gli interpreti in scena in modo accettabile ma con colori un po’ sbiaditi nel rendere la partitura. Alla regia c’è Laurence Dale, ex-tenore inglese, che costruisce uno spettacolo di tradizione senza una particolare chiave di lettura oscillante tra realismo e surrealismo, quando il grizzly che Mr. Slook si è portato dal Canada si rivela in cucina un raffinato confezionatore di torte nuziali a cui basta cambiare le statuine in cima per adattarle alla nuova coppia di sposi.

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Una facciata in stile georgiano si apre per rivelare gli ambienti interni della casa del ricco mercante Tobia Mill, commerciante di tessuti preziosi con cui sono confezionati il turbante e gli abiti suoi e della figlia Fannì, qui una sciantosa con lo strascico e le piume di struzzo in testa – d’accordo che il padre le aveva chiesto di indossare un vestito della festa, ma per stare in casa sembrano eccessivi. Nella scena del duello l’interno si trasforma in un paesaggio romantico con frasche uscite dalle quinte, nebbioline e luci radenti tali da rendere fantasmatico Slook che entra dicendo «Ma son risorto». Un po’ troppa roba per una semplice battuta.

Il cast è dominato da quella vecchia volpe di Carlo Lepore (Tobia Mill) che nei duetti ha facilmente la meglio per proiezione della voce ed espressività con lo Slook di Jurii Samoilov, giovane baritono ucraino di bella presenza – sembra Giuliano Gemma da giovane – e molto più attraente di Milford (e qui la regia manca l’occasione per rendere più intrigante la vicenda!) interpretato da Davide Giusti, interprete elegante ma un po’ stinto. «Vorrei spiegarvi il giubilo» è la pièce de résistance del soprano che interpreta Fannì,  una Giuliana Gianfaldoni che esibisce buona tecnica ma il timbro non è tra i più piacevoli.

Dopo Pesaro lo spettacolo parte per Muscat che l’ha coprodotto. L’atto unico era stato preceduto dalla cantata Giovanna d’Arco nella versione per orchestra con la voce di Marianna Pizzolato. Versione già eseguita al Festival Rossini in Wildbad nel 2011.

L’italiana in Algeri

Gioachino Rossini, L’italiana in Algeri

★★★☆☆

Pesaro, Teatro Rossini, 10 agosto 2013

(registrazione video)

Barbarella in Algeri

Con Il barbiere di Siviglia e Cenerentola, L’italiana in Algeri forma una trilogia fondamentale quanto quella di Da Ponte/Mozart per il teatro in musica.

Anche se i librettisti sono diversi (Cesare Sterbini, Jacopo Ferretti e Angelo Anelli rispettivamente), gli anni di composizione sono compresi in un quadriennio come per Mozart e Rossini crea uno stile riconoscibilissimo che avrebbe rivoluzionato il concetto di opera buffa, dove la comicità dall’azione scenica passava alla musica. Elemento fondamentale è il concertato di fine atto: in quello mozartiano, capolavoro indiscusso quello del secondo atto de Le nozze di Figaro, la comicità è data dalle azioni dei protagonisti che si accumulano in una frenesia incontenibile e con un perfetto ritmo teatrale. Nei concertati rossiniani – «Mi par d’esser con la testa» finale primo del Barbiere, «Mi par d’essere sognando» finale primo de La cenerentola, «Nella testa ho un campanello» finale primo de L’italiana – l’azione è completamente sospesa e l’effetto esilarante deriva esclusivamente dalla musica con i suoi effetti ritmici e onomatopeici e l’irresistibile crescendo.

Le note puntate dei violini della celebre ouverture qui seguono i movimenti delle pompe che estraggono petrolio dal deserto nel video che accompagna la musica. Lindoro esce da un condotto in smoking bianco e pistola in mano come 007 e dopo vedremo Mustafà accarezzare un gatto come il capo della Spectre. I colpi d’arma da fuoco sono dei fumettistici “BANG” e l’italiana esce dai rottami dell’aereo a cui il Bey ha sparato.

Ecco in pochi tratti la cultura cinematografica e pop anni ’60 (Blake Edwards e la commedia ll’italiana) scelta da Davide Livermore per sua lettura de L’italiana in Algeri al Rossini Opera Festival del 2013, esattamente duecento anni dopo la prima veneziana al San Benedetto il 22 maggio 1813.

Le gag sono innumerabili, una generosità di trovate che da tempo è diventata una cifra stilistica del regista e che in questo caso alla “follia organizzata” del lavoro ha aggiunto la sua, ed è incontenibile. Alcuni esempi. Per servilismo c’è chi offre la mano come posacenere per Mustafà, ma questo sadicamente ci spegne pure i sigari che fuma in continuazione. Potrebbe finire lì, invece il/la malcapitato/a corre a immergerla in una caraffa d’acqua da cui però non riesce a tirarla via. Oppure, la babbiona “atterrata” assieme a Isabella anche lei è resa schiava e la vediamo passare l’aspirapolvere. Ma neanche questo basta: inavvertitamente aspira il pappagallo che prima aveva beccato, a turno, gli altri personaggi. Oppure ancora le pastiglie di Viagra trangugiate dal Bey e la “piccola disavventura” col revolver o le dosi di acido lisergico che sono all’origine dello stato confusionale generale, «Va sossopra il mio cervello». O le due sempre presenti hostess che traducono in una loro lingua dei segni le parole dell’aria di Lindoro. E tutto questo solo al primo atto. Non tutto è di buon gusto e ciò ha fatto storcere un po’ il naso al pubblico del ROF. Quello di Torino nel 1979 era stato ancora più insofferente con L’italiana in Algeri di Ugo Gregoretti, con lancio di monetine e fischi. Uno spettacolo dal quale, come i Rossini di Dario Fo, questo sembra essere la naturale evoluzione fino a una certa saturazione visiva.

Le scene di Nicolas Bovey consistono in una pedana rialzata e rotante con un elemento curvo che fa da schermo alle proiezioni in cui vediamo Lindoro pulire la piscina infestata da uno squalo, o che diventa un televisore durante l’aria «Pensa alla patria» con le rappresentazioni del boom economico, ma quando dovrebbero andare in onda «gli esempi di ardire e di valore» si perde l’immagine nonostante gli sforzi di Taddeo a orientare l’antenna. Se poi Haly canta «Le femmine d’Italia» davanti al sipario, questo rimanda le pagine delle riviste femminili del tempo. Come sempre negli spettacoli di Livermore l’aspetto visivo è estremamente curato. Così come i costumi, disegnati da quel genio di Gianluca Falaschi che dopo il bianco e nero del Ciro in Babilonia punta al technnicolor pescando nel pop anni ’60, tra Carnaby Street, Courrèges e Barbarella, Chanel e odalische del Crazy Horse con le nappine sui capezzoli. Un caso a parte di trionfo del trash il guardaroba di Mustafà, con tessuti stampati nei colori solari del nord’Africa e babbucce incrostate di gemme di plastica.

Quella di José Ramón Encinar alla guida dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna è una direzione tirata via e imprecisa in cui i concertati denunciano in più punti scollamenti tra scena e buca. Il cast vocale vede come interprete protagonista Anna Goriačëva, mezzosoprano di bel timbro ma carente nel registro basso, più a suo agio nella tessitura acuta. Niente da dire sulla sua avvenenza fisica generosamente esibita da Bond Girl, ma il personaggio non arriva a destare simpatia e resta una certa impressione di freddezza nonostante tutto l’impegno profuso. Lindoro è affidato a Yijie Shi, tenore dalla grande tecnica e dal timbro luminoso che lo fa svettare nei concertati, ma il tono è un po’ petulante. In Mustafà c’è Alex Esposito, istrionico animale da palcoscenico, ma di gran voce e ben utilizzata. Mariangela Sicilia delinea con stile e acuti ben piazzati un’Elvira qui quasi caricaturale a fianco della convincente Zulma di Raffaella Lupinacci. Haly elegante e sornione quello di Davide Luciano, mentre il Taddeo di Mario Cassi risulta vocalmente un po’ troppo leggero. Fra i tanti figuranti un irresistibile Sax Nicosia è un maldestro manicurista e svolazzante capo degli eunuchi in short rosa e vestaglia di seta.

Il crociato in Egitto

★★☆☆☆

Tra belcanto e quasi grand opéra

Ultimo dei sei melodrammi scritti da Meyerbeer nel suo periodo italiano, Il crociato in Egitto è quello che ebbe il maggior successo: una quarantina di allestimenti nei primi sedici anni. Ricavato da un mélodrame di Jean-Antoine-Marie Monperlier, Jean-Baptiste Dubois e Hyacinte Albertin, Les chevaliers de Malte ou L’ambassade à Alger, il libretto è di Gaetano Rossi, il librettista del Teatro La Fenice, dove l’opera andò in scena il 7 marzo 1824.

La complessa vicenda ha un antefatto che lo stesso librettista si premura di raccontare nella Protasi del libretto a stampa: «In una spedizione accaduta nella VI crociata [1228-29], sulle coste d’Egitto, sotto Damiata, un corpo di cavalieri di Rodi, comandato da Esmengardo di Beaumont, sorpreso, tradito, oppresso dal numero de’ nemici, dopo luminosi sforzi d’eroico valore tutto sul campo rimase; que’ prodi non cessero la vittoria che colle loro vite. Armando d’Orville, giovine cavalier di Provenza, iniziato, era fra que’ valorosi: il sangue perduto da una ferita l’avea tratto da’ sensi; rinvenuto alla vita, nel fosco di notte, altro non vide mezzo a salvarsi da infame schiavitù, che le armi vestirsi d’egizio estinto guerriero, e fra’ nemici confuso, attendere di fuggire il momento, e le forze, e i disegni intanto rilevar degli Egizi. Armando, sotto il nome d’Elmireno, ebbe occasione di segnalare il proprio valore, e la vita salvare d’Aladino sultano di Damiata. Il creduto giovine soldato di fortuna, il suo non comune valore, i gentili suoi modi interessarono l’animo del sultano: amico gli divenne, e nell’interno di sua famiglia l’ammise. Figlia del sultano era Palmide, fior di bellezza chiamata fra le egizie donzelle. Ella vide il supposto Elmireno, lo conobbe, e l’amò. Lontano dalla patria, quasi senza speranze di più ritornarvi, giovine, col cuore il più ardente, Armando obliò sé stesso, i suoi doveri, la fede promessa a Felicia, nobile fanciulla di Provenza, e all’amore di Palmide s’abbandonò. Segretamente de’ riti della di lui fede la istrusse, nodo segreto ad essa l’unì, e n’ebbero un figlio. Ma l’onore, la sua patria, i suoi falli, erano sempre al di lui cuore presenti, e funestavano la sua felicità. Aladino vedeva il reciproco loro affetto, e non attendeva che il ritorno da gloriosa campagna d’Elmireno onde unirli. I cavalieri di Rodi trattavano intanto del riscatto, del cambio di prigionieri, e pace anche offrivano, e una lor ambasciata era a Damiata rivolta. L’azione comincia all’arrivo dell’ambasciata».
Atto I. Un giardino nel palazzo del sultano Aladino di Damietta. Palmide, figlia del sultano, porta agli schiavi cristiani, impegnati in un duro lavoro, i doni di Elmireno, del quale è innamorata senza sapere che la sua vera identità è quella di Armando d’Orville. La giovane è presto raggiunta dal padre Aladino, che l’informa dell’imminente ritorno del vittorioso Elmireno. Squilli di tromba annunciano l’arrivo di una delegazione dei cavalieri di Rodi, che accende in tutti speranze di pace. Aladino annuncia a Palmide l’intenzione di darla in sposa a Elmireno, suscitando l’invidia del visir Osmino, innamorato della donna e desideroso di succedere ad Aladino sul trono, e al tempo stesso destando l’inquietudine di Palmide che, segretamente unita a Elmireno con rito cristiano, ha generato il figlio Mirva. Nei giardini del sultano, Elmireno raggiunge Palmide e Mirva: incalzato dagli eventi confessa a Palmide di essere cavaliere dell’ordine di Rodi e nipote del Grande Maestro Adriano di Montfort; inoltre, prima di incontrarla, era promesso sposo della nobile Felicia. La situazione incerta accresce l’agitazione dei due amanti, proprio mentre approdano navi europee nel porto di Damietta. Ne discende per prima Felicia, che reca l’offerta di pace dai cavalieri di Rodi e fra sé ricorda che proprio su quel suolo è perito il suo Armando. Questi incrocia in una spiaggia Adriano, che subito lo riconosce come il nipote dato per disperso. redarguendolo severamente per essersi alleato al nemico. Armando gli confida che non ama più Felicia, e immagina il dolore che arrecherebbe a Palmide se la abbandonasse; questo suo pensiero è però contrastato dal ricordo della madre, che lo richiama prepotentemente a casa. Nei giardini del sultano, Felicia incontra Palmide e apprende che Mirva è il frutto della sua unione con Armando; ella si appresta a dare il proprio definitivo addio all’amato e si nasconde quando lui entra per dire addio a Palmide. Nel palazzo di Aladino tutto è pronto per accogliere la delegazione di pace e per celebrare, insieme, le nozze di Elmireno e Palmide. Le bande militari delle due opposte fazioni sovrappongono musiche diverse, ma grande è il clamore soprattutto quando avanza Armando, vestito in abiti europei. Quando Aladino fa per avventarsi su di lui per pugnalarlo, s’interpone Felicia, suscitando in tutti confusione e costernazione. Serrate le fila, Aladino ordina che Armando venga imprigionato, mentre il clamore delle due bande sovrapposte sancisce sonoramente lo scontro in atto.
Atto II. A palazzo, il visir Osmino non riesce ad accettare che Palmide gli preferisca un cristiano e, scoperto di chi è figlio Mirva, trama per suscitare una rivolta nell’intero dominio del sultano. Di seguito Felicia esprime tutto il grande amore che, nonostante tutto, ancora la lega all’infedele Armando. Mentre Palmide ricorda gl’incontri amorosi con lo sposo nei giardini del palazzo, giunge Osmino, insieme al sultano, cui ha appena svelato l’esistenza del bambino. Aladino vuole uccidere Mirva, ma l’opposizione strenua della madre riesce a scuotergli l’animo; ordina quindi che Armando e Adriano siano condotti al proprio cospetto e restituisce loro la libertà, ma quando Adriano apprende della paternità di Armando, lo ripudia. In una spiaggia remota Osmino ed un gruppo di emiri spiano Armando, che supplica Palmide di fuggire con lui. Sopraggiungono Adriano e altri cavalieri e Palmide accetta di rendere pubblica la sua conversione al cristianesimo. Armando intona allora una preghiera, cui si uniscono via via gli altri cristiani, ma irrompe Aladino che, inferocito di fronte all’abiura della figlia, ordina che gli infedeli siano uccisi. Rimasto solo, Osmino medita ad alta voce sul piano già predisposto: armare i cavalieri cristiani in modo da deporre Aladino e conquistare il regno. Nel carcere, Adriano sprona i confratelli ad accettare eroicamente il destino: l’ora della morte si avvicina. Armando ha appena espresso il proprio amore per Palmide quando entrano Osmino e gli emiri, che offrono le spade ai cavalieri. Quando Aladino giunge per ordinare lo sterminio, Osmino gli si rivolta contro, ma i cristiani, invece di assecondarlo, si schierano a difesa del Sultano, su istigazione di Armando. Colpito da tanta generosità, Aladino libera i cristiani e approva le nozze fra Armando e Palmide, i quali partono per l’Europa insieme ai cavalieri.

Nella parte di Armando/Elmireno si esibì Giovanni Battista Velluti, l’ultimo dei castrati. In seguito, il ruolo fu affidato a interpreti femminili en travesti. Subito dopo la prima veneziana, Il crociato in Egitto fu rappresentato in altre città italiane e per alcune di queste rappresentazioni Meyerbeer compose pezzi nuovi, mentre per altre sezioni dell’opera procedette a sostituzioni, rielaborazioni e spostamenti. Il 25 settembre 1825 l’opera approdò al Théâtre Italien su invito di Rossini che ne era direttore artistico e la parte di Armando fu affidata a Giuditta Pasta, per la quale il compositore scrisse una nuova aria d’esordio. Fu questo suo successo nella capitale francese ad aprire a Meyerbeer le porte dell’Opéra.

Il crociato in Egitto viene un anno dopo la Semiramide di Rossini e come quella rappresenta una cerniera tra l’opera italiana belcantistica e il nuovo spirito romantico. Sia nel caso di Rossini che di Meyerbeer aprirà il periodo francese che culminerà nel silenzio per il compositore italiano, mentre per quello tedesco nel fragore del Grand Opéra.

Il lavoro di Meyerbeer richiede molto ai protagonisti: la vocalità è riccamente fiorita, tipicamente rossiniana, ma lascia presagire lo sviluppo di tipologie romantiche. Drammaticamente e musicalmente si tratta di un’opera estremamente complessa e l’orchestrazione è molto più ampia del solito. Anche la forma è spesso libera: la cabaletta di Palmide («Soave immagine in quel momento | a te sorridere il cor io sento») viene improvvisamente interrotta dall’arrivo del padre che ne riprende poi il tema in un duettino mentre nel finale primo sul palco sono presenti due bande distinte che si alternano in temi tipici delle due culture contrapposte.

«Per molti aspetti Il crociato guarda alle scene teatrali francesi e anticipa i caratteri che saranno, pochi anni più tardi, del grand opéra: così l’ampio tableau dell’introduzione, arricchita da una pantomima nella quale la musica descrive l’azione dei gruppi e delle singole persone; la scena della congiura; gli effetti orchestrali; l’impiego di gruppi corali contrapposti. In anticipo sui tempi è la proiezione dei conflitti privati su uno sfondo storico: il contrasto tra crociati ed egiziani, ad esempio, è vissuto come il confronto fra due culture e due religioni, ed è realizzato anche musicalmente con mezzi diversi (nel primo finale si fronteggiano, sul palcoscenico, due bande che impiegano strumenti e idiomi differenti, con un effetto oltremodo spettacolare). L’impianto generale dell’opera, tuttavia, è mediato dal melodramma rossiniano; a esso sono chiaramente riconducibili sia l’articolazione in ‘numeri’ chiusi, sia l’uso copioso della coloratura vocale. (Claudio Toscani)

Gaetano Rossi, autore anche del Tancredi e della Semiramide rossiniani, imbastisce una vicenda squinternata i cui personaggi sono in preda a sentimenti altalenanti in cui furori di vendetta si alternano senza logica a momenti di grande afflato affettivo. Un bel problema per gli interpreti che la mancanza di drammaturgia in questa produzione veneziana non fa che aggravare. Pier Luigi Pizzi opta per una mise en décor minimalista nelle scenografie – un drappo bianco con la parola Allah in arabo e la croce a otto punte, bianca su fondo nero, per i crociati a sintetizzare lo scontro di civiltà e di religioni – e nella regia, che è quasi nulla essendo la recita poco più che un’esecuzione oratoriale, a parte il roteare di scimitarre e le espressioni minacciose dei volti. Tutto il budget sembra sia stato destinato ai sontuosi costumi dei musulmani, per i quali si è saccheggiato il magazzino dei tessuti broccati di Rubelli.

Nella parte di Armando/Elmireno esordisce Michael Maniaci, un sopranista americano che dichiara di non utilizzare il falsetto, ma di possedere quel particolare registro acuto per una naturale conformazione fisica. Il timbro è piacevole, le agilità precise e lo stile appropriato, ovviamente il volume è quello che è e se anche con i microfoni della ripresa è evidente l’esilità, immagino che dal vivo la proiezione della voce fosse ancora più problematica. Non è un problema di volume invece per l’Aladin di Marco Vinco dalla presenza scenica un po’ rigida. Non memorabile l’Adriano di Monfort di Fernando Portari. La Palmide di Patrizia Ciofi è tra i personaggi meno improbabili della vicenda e il soprano toscano, a parte il poco piacevole colore della voce, affronta le difficoltà vocali con agio e intensa espressività, ma ancora più convincente è la Felicia di Laura Polverelli dalla bellissima linea di canto. Emmanuel Villaume fornisce una lettura corretta della partitura mentre il coro del teatro si disimpegna onorevolmente.

Il doppio disco della Dynamic non offre alcun extra se non i sottotitoli e due tracce sonore.

Semiramide

Gioachino Rossini, Semiramide

★★★★☆

Pesaro, Vitrifrigo Arena, 14 agosto 2019

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Edizione XL per la Semiramide (1)

Grazie anche alla presenza dell’Orchestra Sinfonica Nazionale, la RAI registra e trasmette la produzione ROF dell’opera monstre di Rossini, quattro ore di musica finalmente senza tagli. Un’opera con pochi recitativi e un flusso musicale quasi continuo che aveva fatto gridare al “germanismo” i critici del tempo.

Michele Mariotti porta a termine l’impresa con impegno encomiabile: la fatica e il caldo non gli impediscono di mettere in luce le straordinarie architetture di questo imponente e ambizioso lavoro con cui il compositore rendeva omaggio all’opera del passato e contemporaneamente guardava al futuro. Dopo Semiramide seguiranno le opere francesi e i rifacimenti – Il viaggio a Reims, Le siège de Corinthe, Moïse et Pharaon, Le Comte Ory, Guillaume Tell – e poi il lungo silenzio.

Il direttore pesarese espone la partitura in tutta la sua magnificenza musicale dopo averla presentata a Monaco di Baviera (che la scopriva per la prima volta) e anche qui conferma i pregi di una lettura che esalta il sinfonismo dell’opera – e non poteva essere diversamente con un’orchestra prettamente sinfonica – mettendone in luce le sottigliezze strumentali e gli intrecci tra musica e canto. Dinamiche e colori sono raffinati e sempre attenta la concertazione con i cantanti.

Semiramide è un’opera che richiede interpreti di eccezione e qui, anche se non stratosferici, sono di grande qualità e il cast omogeneo, cosa molto importante. Salome Jicia aveva già debuttato nel ruolo a Nancy e qui lo affina con una presenza scenica ancora più convincente. Vocalmente poi esibisce una tecnica ineccepibile e un timbro leggermente scuro perfetto per la parte. Anche Nahuel di Pierro proviene dalla stessa produzione dimostrando una notevole maturazione come Assur: con i suoi mezzi vocali non punta alla potenza ma all’espressività con un accurato fraseggio e una sensibilità che dà nuova luce al personaggio. Varduhi Abrahamyan, ottima attrice, è un Arsace sicuro nelle agilità e negli acuti. Efficace l’Oroe di Carlo Cigni e incantevole l’Azema di Martiniana Antoinie. Antonino Siragusa canta tutte le note, ma il timbro è quello che è.

Il coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno è impegnato anche scenicamente in un allestimento che suscita qualche perplessità nel pubblico. Non è tanto l’ambientazione moderna che colpisce nella produzione di Graham Vick, quanto la sua lettura: lo sguardo incombente di Nino e il trauma di Ninia privato dei genitori con l’immagine ricorrente e a diversa scala dell’orsacchiotto azzurro del bambino si affiancano alla confusione dei generi, essendo Arsace donna a tutti gli effetti e Semiramide non tanto regina quanto manager in pantaloni. A ciò si aggiungono i volti colorati come delle bandiere di tutti i personaggi non femminili, di significato non molto chiaro. Evidente è invece il contrasto tra il mondo criminale degli adulti e l’innocenza dell’infanzia rubata, ma chissà se è proprio questo il tema rilevante della tragedia di Voltaire riscritta da Rossi.

(1) Il 2019 è l’anno della quarantesima edizione del Rossini Opera Festival

L’italiana in Algeri

Gioachino Rossini, L’italiana in Algeri

★★★★★

Salisburgo, Haus für Mozart, 9 agosto 2018

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Tre uomini e una donna

Ma chi l’avrebbe mai detto che Gioachino Rossini ed Angelo Anelli sapessero che oltre due secoli dopo la loro L’italiana in Algeri sarebbe stata messa in scena da Moshe Leiser e Patrice Caurier? Non si spiega altrimenti come i tempi comici della sublime musica e gli arguti versi del libretto si possano adattare così a meraviglia al lavoro del duo registico e ai favolosi interpreti qui in scena a Salisburgo.

Interpreti concertati dalla mano nervosa di Jean-Christoph Spinosi a capo dell’Ensemble Matheus da lui fondato. Il direttore francese imprime tempi vertiginosi ma sempre perfettamente realizzati sia in buca dagli strumenti “antichi” sia in scena, salvo poi espandersi nei tempi rapinosi della cavatina di Isabella per esaltarne il languore. Efficaci anche dal punto di vista attoriale sono gli interventi del Philharmonia Chor Wien preparato da Walter Zeh.

Con Cecilia Bartoli non si sa se ammirare di più le capacità attoriali ed espressive nei recitativi o le agilità e le prodezze vocali nelle arie. Eccelsa stilista ed eccelsa attrice, passa dalla sensualità di «Per lui che adoro», alle fantasiose variazioni di «Qual piacer! Fra pochi istanti» alla comicità di «Ohi! che muso, che figura!» ai duetti assieme ad Alessandro Corbelli con perfetti tempi comici. La parte di Isabella è ideale per una voce che ha acquistato sfumature calde nel registro grave ma in quello acuto ha mantenuto inalterati i fuochi d’artificio della coloratura. Ancora una volta la sua è una lezione di canto rossiniano. Mustafa trucido e panzuto è quello di Il’dar Abdrazakov –  l’unico cambiamento rispetto all’edizione di Pentecoste (là era Peter Kálmán) – e sbalordisce come l’interprete di Filippo II, Attila e Boris Godunov riesca a rispondere così magistralmente alle agilità richieste da Rossini (e al ritmo travolgente di Spinosi) unitamente a un senso dell’umorismo e a un’autoironia ineguagliabili. La pienezza vocale, i fiati interminabili, la sonorità delle note basse, lo squillo degli acuti, il gusto nell’enunciazione della parola e la perfetta dizione si accompagnano a doti di eccelso attore comico che fa della voce, dell’espressione facciale e del corpo altrettanti mezzi espressivi. Alessandro Corbelli, un Taddeo mai grottesco né banalmente istrionico, non è solo la spalla perfetta della Isabella di Cecilia Bartoli, ma anche lo stilista dalla vocalità piena ed elegante che conoscevamo. Niente da dire sul Lindoro di Edgardo Rocha, più che adeguato, ma a lato di questi tre mostri sacri fatica ad emergere. Ottimi acuti per l’ironica Elvira di Rebeca Olvera ed eccellenti i comprimari, sia l’Haly di José Coca Loza che la Zulma di Rosa Bove.

Tutti si sono perfettamente adeguati al tono instaurato dai registi e reso palese fin dalla sinfonia, quando vediamo il talamo di Mustafa e della moglie Elvira la quale tenta inutilmente di risvegliare gli appetiti sessuali del marito, compresa una danza del ventre, per poi consolarsi con una scatola di loukum mentre il marito è più interessato ai suoi loschi affari come capo della malavita algerina. Infatti, scatole di elettodomestici di contrabbando o rubati entrano dalla finestra e transitano nella camera mentre il coro commenta dal quadro sopra il letto. Le scenografie di Christian Fenouillat costruiscono a colori vivaci la città di Algeri di oggi, con le parabole satellitari sui balconi delle case popolari mentre nell’aria si diffondono i richiami dei muezzin e sulle strade macchine scassate contendono il posto a pigri dromedari.

Ed è su un dromedario che arriva Isabella, una donna libera, emancipata, zaino sulle spalle, non ha timori di sorta: da quel momento sarà lei a dettar legge e manipolare i suoi uomini. Un bell’esemplare di femmina emancipata, di quelle «femmine d’Italia» che sono oggetto dell’aria di sorbetto di Haly, cantata davanti alla proiezione della scena del bagno nella fontana di Trevi da La dolce vita – anche se lì la femmina era svedese…

Un altro momento di comicità esilarante è il “quartetto del caffè” con Isabella immersa nella schiuma di una vasca da bagno a stuzzicare i tre uomini invaghiti di lei. Più tardi gli “schiavi italiani” sono i giocatori della Nazionale di calcio che appena liberati, ancora con le magliette azzurre, si abbuffano di spaghetti prima di vestire i panni del buffo coro dei kaimakan per imbarcarsi poi sulla nave da crociera che li riporta in patria. I costumi di Agostino Cavalca distinguono ironicamente i guardaroba delle diverse culture in gioco e arguta è l’idea di far vestire alla diva Bartoli un suo abito da concerto per il rondò del secondo atto!

Inutile riportare l’entusiasmo al calor bianco del pubblico che saluta con autentiche ovazioni le uscite di Bartoli, Abdrazakov e Corbelli.

Litaliana-in-Algeri-2018-Edgardo-Rocha-Lindoro-Cecilia-Bartoli-Isabella-©-Salzburger-Festspiele-Monika-Rittershaus.jpg

 

Il bravo

Saverio Mercadante, Il bravo

★★★☆☆

Wexford, National Opera House, 23 ottobre 2018

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Mercadante, anello di congiunzione tra Donizetti e Verdi

Prolifico autore, Saverio Mercadante (1795-1870) ha lasciato circa sessanta opere, quattro balletti, musica sacra e da camera. Il bravo è un’opera della maturità che segue Il giuramento e precede La vestale, i lavori più conosciuti di un compositore che a suo tempo fu acclamato quanto Bellini e Donizetti. Nei suoi melodrammi convivono tendenze neoclassiche accanto ad aperture alle nuove tendenze romantiche. I libretti hanno come autori Metastasio, Romani, Rossi e Cammarano, mentre il coro «Chi per la patria muor» della sua Donna Caritea regina di Spagna divenne l’inno dei moti risorgimentali bolognesi del ’31 e fu intonato dai fratelli Bandiera davanti al plotone d’esecuzione.

Il bravo è la sua 44esima opera, presentata alla Scala il 9 marzo 1839. Otto mesi dopo Verdi debuttava con il suo Oberto, ma nel lavoro di Mercadante c’è già molto di quello che sarà definito “stile verdiano”: concitazione dei numeri musicali, interventi corali pregnanti, ariosi rapinosi, cabalette febbrili, originali combinazioni di voci e strumenti. Insomma, una musica bellissima. Peccato per il libretto, una storia improbabile e drammaturgicamente debole.

Gaetano Rossi, uno dei librettisti de Il bravo, così introduce la vicenda: «Carlo Ansaldi era nato da antichi e facoltosi cittadini di Venezia. Unica delizia de’ suoi genitori, egli li amava d’un amor santo e filiale. All’esteriore il più aggradevole Carlo accoppiava talenti coltivati da un’educazione speciale, un’anima ardente, sensibile, un coraggio a tutta prova, e una mente esaltata. L’amore di una sposa adorata lo rendeva pienamente felice. Gelosia avvelenò le sue gioie. Si credette alfine tradito, e in un cieco trasporto trafisse, e lasciò per estinta la moglie. Né lì s’arrestava a perseguitarlo la sorte. Egli venne repente arrestato col padre quai complici d’una cospirazione. La madre ne moriva di dolore. Furon vane le discolpe per essi. Il figlio venne condannato a un esiglio perpetuo, ed il padre alla morte. Carlo offerse la sua vita per quella del padre; non poteva salvarlo che aderendo ad un patto terribile. Il tribunale cercava un esecutore fedele, ardito, de’ suoi segreti ordini di morte. Rifiutava, raccapricciò il giovine, ma al momento di veder tratto il padre al patibolo, l’amor di figlio vinse tutto. Accettò la maschera nera che l’avrebbe celato agli sguardi d’ognuno, e cinse il pugnale della giustizia segreta e delle vendette del tribunale. Il padre rimaneva nelle carceri ostaggio della fede del Bravo. Corsero diecisette anni. Un’avvenente straniera soffermava allora in Venezia, e Teodora chiamar si faceva. Il di lei palazzo era convegno di feste, una reggia d’incanti. Patrizii e stranieri, tutti aspiravano al di lei cuore nel cui segreto niun avea penetrato per anco. Teodora era uno straordinario complesso di leggerezze e virtù. Diffamata dal pregiudizio e dall’invidia, era benedetta dagli infelici cui di soccorsi e conforti largiva, ed esaltata veniva dalle bell’arti che munificente proteggeva. Giungeva in Venezia da un mese una giovane di Genova custodita da un vecchio: Teodora l’aveva più volte visitata in segreto. Foscari, patrizio, amava Teodora; ma scoperta per via la giovane genovese, s’era di questa vivamente invaghito. Un Pisani, esigliato, tornava segretamente in Venezia guidatovi dall’amore. A tal epoca comincia l’azione, tolta in parte dal romanzo di Cooper (1), che porta questo titolo, e da un dramma francese del signor Aniceto Bourgeois La venitienne (2). Inoltrato io nel lavoro del melodramma venni colpito da penosa malattia, che prolungavasi; e compiere volendo, a prescrizione l’assunto impegno, nella ristrettezza del tempo, prescelsi a collaboratore un giovane mio amico (3), il quale, sulle tracce da me già segnate, mi favorì graziosamente».

Carlo è un bravo, un sicario che lavora per conto del governo di Venezia, che ha accettato questo incarico per salvare la vita al padre, che altrimenti sarebbe stato ucciso. A Carlo viene chiesto di assassinare Teodora, ma egli scopre che dietro questa donna si cela la sua ex moglie, che egli aveva tentato di uccidere credendo, ingiustamente, che lo avesse tradito. Teodora è stata amata dal patrizio Foscari, che ora però si è invaghito della figlia di Teodora, Violetta, a sua volta innamorata di Pisani, un patrizio esiliato. Violetta e Pisani riescono a fuggire e Teodora, per togliere dall’imbarazzo Carlo, che deve scegliere se salvare la vita a lei condannando a morte il padre o viceversa uccidere lei per salvare la vita al genitore, si pugnala a morte. Subito dopo Carlo apprende che il padre è morto, e quindi il sacrificio di Teodora è stato inutile.

«Insieme al Giuramento, l’opera [Il bravo] è forse la più riuscita di Mercadante e rivela in pieno le caratteristiche salienti del suo stile: la raffinatezza e la fantasia delle armonizzazioni e delle parti strumentali; la capacità di elaborazione tematica; la libertà dalle formule melodrammatiche pur nel rispetto della tradizione (ad esempio le due strofe della romanza di Violetta, inserite tra le due sezioni dell’aria di sortita di Foscari, o il duetto tra Pisani e il Bravo, vasto e di forma tripartita, con recitativi che si alternano al canto e a linee vocali e orchestrali di elevata originalità); il sicuro costrutto dei pezzi d’insieme e l’impiego di un linguaggio complesso, polifonicamente elaborato (i finali concertati dei primi due atti e i due quartetti del terzo, il secondo dei quali è una delle sue pagine migliori in assoluto). La vicenda, fosca e oppressa da una greve atmosfera di morte, è accostabile a quella di opere coeve come Lucrezia Borgia di Donizetti (cui il personaggio di Teodora si riallaccia per più di un aspetto) e preannuncia Rigoletto di Verdi (che a Mercadante guarderà con interesse)». (Antonio Polignano)

Dopo l’esordio Il bravo fu ancora rappresentato nella seconda metà dell’Ottocento per poi uscire dal repertorio. In Italia è stato riproposto in apertura di stagione dall’Opera di Roma (1976, direttore Gabriele Ferro) mentre ora viene recuperato a Wexford, la cittadina irlandese il cui Opera Festival si sta imponendo come tra i più interessanti in Europa nella riscoperta di titoli desueti. Nella produzione, che porta le firme di Renaud Doucet (regista) e André Barbe (scene e costumi), i sipari presentano tele di vedute settecentesche della città con l’inserimento di oggetti moderni quale la nave da crociera che soverchia con la sua mole immensa gli storici edifici, come nelle fotografie di Berengo Gardin. Durante la rappresentazione, assieme ai personaggi correttamente vestiti nei costumi dell’epoca, entrano in scena gli invadenti turisti di oggi con i loro trolley, i cellulari, le guide. Nella scena del corteo del Doge, appiaono anche le bancherelle dei souvenir e i cartelli NO GRANDI NAVI. Ovviamente non c’è nessuna giustificazione drammaturgica all’inserimento di questi elementi, anche se se ne possono condividere i propositi. L’esecuzione musicale comunque non ne risente. O meglio, non si sa se l’irruzione di questa modernità sia causa dei momenti di sbandamento dei fiati della fanfara o del coro non sempre all’altezza del suo compito, anche se il direttore Jonathan Brandani riesce a far assaporare le preziosità della partitura e conduce l’orchestra con passo vivace e ritmo incalzante.

Cast non molto omogeno con il meglio nelle voci di Gustavo Castillo (un nobile e perfido Foscari) ed Ekaterina Bakanova (Violetta dalle sicure agilità) e Alessandro Luciani (Pisani). Il bravo di Rubens Pelizzari non manca certo di vigore ma è risolto con grossolanità e la Teodora di Yasko Sato articola la parte vocale con rigidezza e una dizione eccepibile.

(1) Fenimore Cooper, The Bravo, a Venetian Story, 1831
(2) Auguste Anicet-Bourgeois, La Vénitienne, 1834
(3) Marco Marcelliano Marcello, 1820-1865