Adolphe-Philippe d’Ennery

Linda di Chamounix

Gaetano Donizetti, Linda di Chamounix

★★★☆☆

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 10 gennaio 2021

(diretta streaming)

Linda o il primo caso di musicoterapia

Nel libretto a stampa della Linda di Chamounix il nome della protagonista è all’ultimo posto, dopo quello della madre Maddalena, l’altro unico personaggio femminile di questo melodramma andato in scena il 19 maggio 1842 al Kärntertortheater di Vienna. Sì, Vienna perché dal 1838 Donizetti aveva praticamente lasciato l’Italia. Si era tsasferito a Parigi dove aveva scritto La fille du régiment (Opéra-Comique, febbraio 1840), Les martyrs (Opéra National, aprile 1840, versione francese del Poliuto che la censura napoletana gli aveva bloccato), La favorite (Opéra National, settembre 1840, riscrittura de L’ange de Nisida). Su raccomandazione di Rossini, il Metternich lo aveva poi invitato a Vienna dove avvenne appunto la prima dell’opera.

Nonostante abbia l’ultimo posto nell’elenco dei personaggi, la parte di Linda è sempre stata tra le favorite dalle prime donne del belcanto, dalla Eugenia Tadolini del debutto viennese, alla Fanny Tacchinardi che si fece scrivere la “tyrolienne” per la ripresa a Parigi sei mesi dopo, da Margherita Rinaldi a Lucia Aliberti a Mariella Devia, da Edita Gruberová a Diana Damrau. Jessica Pratt non poteva mancare all’appello: l’artista anglo-australiana, ora italiana di adozione e habituée del teatro fiorentino, l’aveva già cantata a Roma nel 2016 nella produzione del Liceu e ora è la protagonista di questa nuova edizione che inaugura la stagione 2021 del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, uno spettacolo registrato a porte chiuse e ora disponibile in streaming.

La Pratt è migliorata molto sul piano dell’espressività e della presenza scenica, le agilità sono sempre gloriosamente risolte e il fraseggio, se non la dizione, un esempio di stile. Qualche nota può non essere pulita ma gli acuti sono generalmente sicuri e precisi. Dopo averla spesso trovata un po’ gelida, ora sembra non compiacersi più troppo della mera tecnica vocale per cercare di dare una più convincente interpretazione della protagonista. Per quanto riguarda il Visconte Carlo, non è certo colpa di Francesco Demuro se il personaggio è del tutto insulso, ma il tenore sardo fa del suo meglio e si fa apprezzare per le belle mezze voci e le intenzioni espressive, così come per lo squillo luminoso. Delizioso Pierotto è quello di Teresa Iervolino mentre a Fabio Capitanucci tocca la parte più insopportabile, quella del Marchese di Boisfleury, disimpegnata con un certo distacco ch ela rende meno grottesca. Prefetto di lusso è quello di Michele Pertusi, come al solito autorevole, mentre chissà perché panzuto e decrepito molto più del dovuto l’Antonio di Vittorio Prato, che adatta con abilità la voce e il portamento alla scelta registica. Marina de Liso cerca di dare spessore alla inconsistente madre Maddalena. Conferma la buona impressione avuta al suo Il barbiere di Siviglia in questo stesso teatro pochi mesi fa e prima ancora in un altro Donizetti, L’elisir d’amore, a Torino, la direzione di Michele Gamba, che evidenzia le differenti atmosfere (le gelide montagne della Savoia, l’ambiente borghese della città) e le preziosità timbriche di una partitura destinata all’esigente pubblico viennese. «La tavolozza orchestrale è ricercatissima, le linee melodiche nobili anche quando di origine popolare. La musica si fa Koinè che affonda le radici nello spirito europeo del suo tempo» afferma il direttore. E non è da tutti poi saper ricreare in orchestra una ghironda con i suoi toni trasognati.

Come quello del fantastico, il genere dell’opera di demi-caractère non ha mai goduto di buona fama presso il pubblico al di qua delle Alpi, polarizzato da dramma romantico prima, realistico poi, e commedia più o meno buffa. Né aiuta, anzi mette in difficoltà il regista che lo mette in scena, come succede anche questa volta. La lettura di Cesare Lievi tenta la strada dell’ironia (lo sguardo obliquo di Demuro per le forme opime della Pratt…), ma si ferma a metà strada e lo spettacolo risulta piuttosto scialbo. Per di più le esigenze sanitarie della pandemia ci mettono del loro a complicare le cose portando a scene surreali come quella con cui inizia il terzo atto: i coristi impalati e distanziati con lo spartito in mano giubilano «Evviva, evviva […] facciamo un brindisi» in un’atmosfera che più lugubre non potrebbe essere mentre l’azione è demandata a figuranti che fingono di abbuffarsi con la mascherina sulla bocca. Peccato, perché la cura attoriale, soprattutto nel secondo atto, è evidente e anche i rimandi scenografici di Luigi Perego (che firma anche i costumi), con una contrapposizione non banale tra ambiente rurale e urbana, sono non spregevoli: una ferrosa paratia in lamiera chiude il cielo sia del villaggio rurale sia di quello parigino a sottolineare che la rivoluzione industriale è vicina e presto quei montanari scenderanno dai monti per entrare nelle fabbriche della pianura.

Così inizia la nuova gestione Pereira, con un titolo ai suoi tempi frequentatissimo, ora molto raro. Tutto sommato la Linda merita di tornare regolarmente nei cartelloni, anche soltanto per quel momento magico in cui tutto si risolve alle note di un tema cantato. Non esiste un’altra testimonianza più sincera del potere della musica e della sua funzione lenitiva. Ancora una volta dobbiamo ringraziare il buon Donizetti per avercelo ricordato.

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Linda di Chamounix

Gaetano Donizetti, Linda di Chamounix

★★★★☆

Barcellona, Gran Teatre del Liceu, 20 dicembre 2011

(registrazione video)

«Pastrocchio melodrammatico di sesquipedale idiozia»

Il lapidario giudizio di Elvio Giudici è riferito a quello «squadernato dal second’atto: quattro duetti in fila in cui Linda si confronta con il bamboccione canterino, col giovane libertino ma non troppo e non fino in fondo, con il nobile malandrino, col babbo nobile ma ahimè tanto indisponente – e lei resta sempre uguale a sé stessa, innocente e pura oppure scema, dipende dalle personali reazioni», ma è facilmente estensibile a tutta l’opera. Il genere semi-serio o di mezzo-carattere non ha mai portato molta fortuna ai compositori italiani.

Eppure la musica della Linda di Chamounix è bellissima, a partire dall’esaltante duetto del primo atto il cui tema ritornerà come Leitmotiv per tutto il lavoro, uno dei più trascinanti duetti d’opera mai scritti. O il coro «O tu che regoli» che echeggia da vicino «Dal tuo stellato soglio», la preghiera del Mosè di Rossini. Ovunque nel corso dell’opera ci sono gemme melodiche e strumentali con cui Donizetti voleva fare colpo a Vienna, ma la drammaturgia del libretto era appena proponibile anche allora e ci si chiede se con quest’opera gli autori volessero farsi beffa del moralismo borghese. Se la Lucia manzoniana lasciava i «monti sorgenti dalle acque» per sfuggire al lubrico signorotto locale – gli anni sono quelli: nel 1840 era stata pubblicata la seconda e definitiva edizione del romanzo, nel 1841 Donizetti componeva l’opera –  lo stesso è per la Linda de La Grace de Dieu ou La nouvelle Franchon di Adolphe-Philippe d’Ennery e Gustave Lemoine che lascia i monti della Savoia per scappare alle sozze brame di «un indegno seduttor» per poi vivere nella città peccaminosa mantenuta dall’amato che crede pittore e che è invece visconte, ma non gli si cede per rimanere pura fino al sacro vincolo matrimoniale tanto agognato e non fare la fine della «buona figlia» della ballata di Pierotto.. 

Non sono frequenti le rappresentazioni di Linda di Chamounix anche per l’esigenza di un soprano e di un tenore di prim’ordine. Nel 2011 il Liceu du Barcellona fa il colpo grosso di ingaggiare due stelle del firmamento lirico. Della Linda di Diana Damrau si può parlate di un perfetto equilibrio raggiunto tra espressività e purezza della linea vocale. Delle perfette agilità non fa sfoggio vocale fine a sé stesso nella “tyrolienne” o nella scena della pazzia: tutta la parte dell’insopportabilmente ingenua fanciulla sembra sublimarsi nella tecnica e nella intensa presenza scenica del soprano tedesco e gli interminabili applausi che salutano la sua performance lo dimostrano.

Juan Diego Flórez da parte sua riesce quasi a rendere plausibile un personaggio insulso qual è quello del Visconte Carlo. Vocalmente è una prova magistrale quella che dipana sulla scena del Liceu, tutto un gioco di chiaroscuri e sfumature, fraseggio e filati di sogno, fiati e acuti luminosissimi accolti da un delirio di acclamazioni del pubblico. Flórez riuscirebbe a dare senso anche all’elenco del telefono, ci riesce anche stavolta con i versi di Gaetano Rossi. Vero è che a Carlo e a Linda Donizetti ha dedicato pagine di indicibile bellezza che hanno tra i vertici quello del loro duetto nel primo atto con quel tema che ti rimane appiccicato addosso anche quando esci dal teatro.

Il Marchese di Boisfleury, l’incongruo vilain che si esprime nei tipici sillabati rossiniani da basso buffo, è affidato a Bruno de Simone che riesce quasi a convincerci a voler tagliare la sua parte, quasi. Meno melenso del solito è il piacevole Pierotto della bravissima Silvia Tro Santafé. Molto efficaci Simón Orfila quale Prefetto e Pietro Spagnoli protoverdiano padre povero ma onorato.

Marco Armiliato alla guida dell’orchestra del teatro non sempre riesce a dare unità di intenzioni a questo ibrido pasticcio semiserio (semiscemo direbbe Mattioli) e manca la leggerezza di mano che si vorrebbe trovare in questa partitura strumentalmente molto curata da Donizetti. Non sempre l’equilibrio tra voci e orchestra è ottimale, ma tanto di più non si può dire data la qualità un po’ precaria di una captazione che non è mai stata oggetto di una registrazione commerciale.

La regia di Emilio Sagi è quasi inesistente, senza idee particolari: tutto è lasciato agli interpreti, ma solo la Damrau riesce a fornire una recitazione convincente, quasi tutti gli altri cantano e basta. Non aiutano certo le stilizzate scenografie di Daniel Bianco o i costumi di Pepa Ojanguren, troppo chic per un villaggio savoiardo di inizio secolo XX – lo slittamento temporale è evidenziato dall’entrata in scena del nobilastro seduttore su una splendida auto d’epoca. Ma che importa quando le orecchie sono deliziate dalle sublimi melodie del bergamasco in bocca a due fuoriclasse.

Linda di Chamounix

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★★☆☆☆

«Ma chi vien? Nel barlume un savoiardo. Parmi…»

Opera di mezzo carattere in cui è dipinto un ambiente bucolico ricco di tutte le virtù rurali in contrapposizione all’ambiente urbano “peccaminoso” con personaggi che vorrebbero essere buffi e una protagonista che immancabilmente impazzisce per amore per poi rinsavire al momento buono.

«Viveva in Chamounix, piccolo villaggio della Savoia, una povera, ma onesta famiglia di affittàiuoli, composta di due coniugi alquanto attempati, e d’un’unica figlia. A questa avevano i genitori rivolte tutte le loro cure, e se l’indole nobile della fanciulla era loro di dolce conforto, non li lasciava però senza pensiero la non comune bellezza di Linda, che tale era il nome di essa. Non tardò a scoprire questa sorgente beltà il giovane Visconte di Sirval, figlio della marchesa feudataria del villaggio. Il vederla ed accendersi per lei di vivissimo amore fu un sol punto; ma informato della virtuosa condotta di Linda egli ben previde che l’alta sua nascita anziché favorire il suo amore sarebbe stata un ostacolo alla corrispondenza della fanciulla, e giudicò miglior partito di celare il suo stato, e ad essa offrirsi sotto la semplice foggia di pittore. Ma nello stesso tempo il fratello della marchesa, uomo di principii non troppo austeri, erasi preso di capriccioso amore per Linda, e recatosi al villaggio sotto pretesto di rinnovare alla famiglia l’affitto dei beni, e di provvedere alla sorte futura della fanciulla, cercava di seco condurla al castello. Le sue mire furono però facilmente scoperte dal Prefetto del villaggio, e a salvare l’onesta fanciulla dal pericolo che la minacciava consigliò ai genitori di essa di unirla agli altri abitanti del villaggio, i quali, com’è costume, appunto in sul finire d’autunno si recano a Parigi, onde guadagnarsi col canto e la ghironda il sostentamento nella rigida stagione. Appena informato della partenza di Linda, il Visconte non tardò a seguirla a Parigi, e colà rinvenutala, le scoperse il suo vero stato, di nuovo le giurò eterno amore, e le diede comodo ed elegante alloggio in casa d’una sua parente, che incaricò di provedere a tutto quanto potesse abbisognarle. Ma intanto la madre del giovane Visconte, era per condurre ad effetto il progetto, che da gran tempo nutriva di unire il proprio figlio ad una nobile e ricca donzella. Terribile fu nell’animo del Visconte il combattimento fra l’amore per Linda, e l’obbedienza al volere materno. E già questo sentimento stava in procinto di vincere il primiero affetto: già tutto era pronto per gli sponsali, quando ad un tratto il Visconte scompare dal corteo nuziale. Intanto Pierotto, orfanello savoiardo, che era stato a Linda compagno nel viaggio, informato a caso dell’imminente sposalizio del Visconte, era corso ad avvertirne l’infelice fanciulla. Questo colpo inaspettato le tolse la ragione, e vedendola in tale stato deplorabile Pierotto stimò miglior partito ricondurla al tetto paterno. Il Visconte che dopo l’interrotta scena degli sponsali era corso da Linda non avendola rinvenuta dopo inutili ricerche fatte a Parigi, si diresse a Chamounix, onde mitigare per quando gli fosse possibile il dolore degl’infelici genitori. Breve tempo dopo il suo arrivo giunge Linda accompagnata dal fedele Pierotto. Alla voce affettuosa dell’amante ritorna a Linda la smarrita ragione, il Visconte al colmo della gioia la proclama sua sposa in presenza di tutti gli abitanti del villaggio».

Tratto da La grâce de Dieu (1841) di Adolphe-Philippe d’Ennery e Gustave Lemoine, l’ingenuo libretto di Gaetano Rossi è messo in musica da Donizetti tra il gennaio e il marzo 1842. L’opera è presentata il 19 maggio di quello stesso anno con grande successo al Kärtnertortheater di Vienna. L’ouverture aggiunta all’ultimo momento è ricavata dal primo movimento del suo quartetto per archi composto nel 1836. Dopo la prima italiana al Carignano di Torino il 24 agosto, il lavoro è ripreso il 27 novembre a Parigi al Théâtre des Italiens con la Fanny Tacchinardi per la quale Donizetti scrive su versi propri la tyrolienne «O luce di quest’anima» che diverrà il pezzo più famoso dell’opera e aria di baule di tanti usignoli del bel canto.

Uno di questi usignoli è Edita Gruberová, per la quale a Zurigo nel 1996 viene prodotta una Linda per una Diva forse un po’ troppo avanti negli anni, ma che continuerà comunque a proporre ancora il ruolo, l’ultima volta alla Scala nel 1998. E qui a Zurigo è un tripudio di applausi e di inchini alla fine dell’aria in cui Linda si presenta. La direzione di Ádám Fischer è tutta al servizio della Diva, alle sue pause, alle sue corone, ai suoi vezzi manierati, agli acuti fissi o calanti o da sirena dei pompieri con cui il soprano ceco infarcisce la parte. Sollucchero per i suoi fan, quasi inascoltabile per il resto del mondo.

La parte en travesti di Pierotto con quelle sue meste ballate accompagnate dalla ghironda ha la figura androgina e la voce particolare di Cornelia Kallisch. Al ruolo del Prefetto Donizetti regala una preghiera «O tu che regoli | gli umani eventi, | speme dei miseri |degl’innocenti» che richiama per intensità e bellezza melodica l’analoga pagina rossiniana del Mosè. Il basso ungherese László Polgár conclude così nobilmente il primo atto di quest’opera in cui si susseguono pagine ineguali e slegate fra di loro ma di notevole bellezza, come il suadente duetto tra Linda e Carlo/Visconte di Sirval il cui tema ritornerà nel corso dell’opera come motivi conduttori a sottolineare i punti più intensi della vicenda. Il tenore Deon van der Walt è però un Don Ottavio mozartiano un po’ troppo leggero per la parte del Visconte.

Nel secondo atto, così come nella Manon Lescaut, siamo a Parigi tra “le trine morbide” del «comodo ed elegante alloggio» messo a disposizione dal Visconte che si è finalmente palesato in quanto tale. Linda è agghindata come una Pompadour tanto che sia Pierotto sia il padre stentano a riconoscerla. Non tarda ad arrivare però quell’«uomo di principii non troppo austeri» e pervaso di «rie brame impure» che è il marchese di Boisfleury, il personaggio buffo che prefigura il Don Pasquale dell’anno seguente e il tono dell’opera cambia ancora una volta. Però, se neanche Rossini nella Gazza ladra aveva pienamente azzeccato il genere “melodramma semiserio”, così avviene per questo Donizetti. Il miracoloso mix di patetico e umorismo dell’Elisir d’amore di dieci anni prima qui non si ripete.

Il regista Daniel Schmid che aveva presentato uno stilizzato paesaggio bucolico nel primo atto tramite gigantografie, nel secondo atto si sfoga in scenette “a parte” e in una recitazione esagerata degli attori per poi raggiungere toni surreali nel terzo con Pierotto spara neve e il ghiacciaio alpino.

Immagine nel formato 4:3, tre tracce audio e sottotitoli in cinque lingue, italiano compreso.