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Gioachino Rossini, Semiramide
★★☆☆☆
Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 2 ottobre 2016
Semiramide Findus
La leggendaria regina babilonese Semiramide, moglie del fondatore di Ninive, sarebbe stata una figura di grande dissolutezza per alcuni storici greci che l’hanno accusata di aver fatto uccidere, con la complicità dell’amante, il marito Nino per usurparne il potere e di essersi poi invaghita del figlio arrivando a un rapporto incestuoso e venire da lui uccisa. Poco vale che per Erodoto Semiramide sia stata invece una grande sovrana che realizzò importanti lavori, tra cui i giardini pensili di Babilonia, e che gli storici moderni ne abbiano riabilitato la figura. Per i primi scrittori cristiani è il simbolo dell’assolutismo pagano licenzioso, per cui Dante la pone nel cerchio infernale dei lussuriosi per aver costretto i sudditi a comportamenti libidinosi in modo da giustificare i suoi: «a vizio di lussuria fu sì rotta | che libito fé licito in sua legge, | per torre il biasmo in che era condotta».
Antefatto. Quindici anni prima dell’inizio del dramma, la regina di Babilonia, Semiramide, cospira insieme al principe Assur per uccidere suo marito, il re Nino e impossessatasi così del trono. Poco tempo dopo il regicidio, il figlio Ninia scompare, affidato al fratello di Nino, Fradate, perché se ne curi. Nino lascia al figlio anche uno scrigno con una lettera di riconoscimento.
Atto I. Il sipario si leva sul tempio di Belo, in Babilonia, dove si svolge una cerimonia solenne che precede la designazione del re. Oroe, gran sacerdote, ha ascoltato la voce di dio che ingiunge che, prima della designazione, sia vendicato l’assassinio di Nino. Entra una gran folla, tra cui un corteo di indiani comandati dal loro re Idreno, che ama la principessa Azema. Tra i satrapi e i grandi del regno entra Assur, convinto di diventare il nuovo re. Giunge poi Semiramide, al cui arrivo il fuoco sacro dell’altare di Belo si spegne: Oroe avverte che questo è un segno dell’ira del dio. Dopo lunga assenza arriva a Belo il giovane comandante militare Arsace, il quale non sa che Semiramide l’ha fatto richiamare perché vuol farne il nuovo re e suo sposo. Arsace però è innamorato di Azema. Oroe lo accoglie con entusiasmo rivelandogli che Nino è stato ucciso e gli affida il compito di vendicarlo. Assur è irritato per il ritorno di Arsace, a maggior ragione quando il giovane rivela il suo amore per Azema, che è amata anche da Assur. Semiramide esprime la sua gioia per il ritorno di Arsace e quando i due si incontrano, in un colloquio denso di equivoci, Arsace dimostra la sua casta dedizione alla regina. Giunge il responso dell’oracolo di Menfi, annunciando che i travagli del regno cesseranno con il ritorno di Arsace e con un nuovo matrimonio. Semiramide annuncia a tutti il suo proposito di sposare Arsace. Questi e Azema rimangono stupiti. Assur freme di rabbia e Oroe è sconvolto. Solo Idreno è felice di poter sposare Azema, della quale chiede la mano ottenendola. Ma un cattivo auspicio accompagna le nozze: si apre la tomba del re Nino tra tuoni e fulmini, e l’ombra compare parlando nel vestibolo: Arsace regnerà, dice, ma prima dovrà offrirgli un sacrificio umano. Le nozze vengono rinviate tra il turbamento di tutti.
Atto II. Semiramide e Assur si confrontano; questi è adirato perché non è stato designato re, pur essendo stato amante e complice della regina nell’avvelenare Nino. Oroe rivela ad Arsace la sua vera identità: egli è Ninia, figlio di Nino, che il padre morente affidò al fratello Fradate perché scampasse dalle mani di Assur. Il giovane si prepara alla vendetta e invoca il perdono per la madre. Mentre Azema si lamenta per essere stata separata da Arsace, Semiramide gioisce nel rincontrarlo. Ma quando Arsace spiega il motivo della sua ritrosia, mostrandogli la lettera di Fradate che rivela la sua identità, Semiramide inorridisce e chiede di essere uccisa, ma Arsace la perdona promettendo che punirà Assur. Questi intanto si prepara a prendere il potere con la forza, ma i suoi figli gli dicono che Oroe ha aizzato il popolo contro di lui. Il suo fine è comunque l’uccisione di Arsace; si prepara a scendere nella tomba di Nino, ma qui spaventose visioni gli sbarrano il passo. Guidato da Oroe, anche Ninia scende nella tomba del padre per vendicarne l’uccisione, ma nell’ombra a cadere sotto la sua mano è la madre, non Assur. Sconvolto dal suo gesto vuole uccidersi, ma Oroe lo ferma; Ninia viene portato in trionfo ed acclamato nuovo re dell’Assiria.
Il teatro si è spesso impossessato della sua figura, da Calderón de la Barca a Voltaire, ma è soprattutto l’opera lirica ad aver fatto di Semiramide una protagonista canora nei lavori di Vivaldi, Händel, Bertoni, Gluck, Jommelli e Porpora, tra i tanti (1). Rossini si affida a Gaetano Rossi per il libretto della sua opera da presentarsi per il Carnevale del 1823. Il 3 febbraio di quell’anno Isabella Colbran alla Fenice è l’interprete dell’ultima opera scritta da Rossini per i teatri italiani. Dopo il tiepido successo iniziale, Semiramide cade nel quasi oblio delle opere serie del pesarese, prima di resuscitare nel 1962 alla Scala con Joan Sutherland che ne fa uno dei suoi ruoli più ammirati.
Non sempre quest’opera di Rossini ha ricevuto il giusto riguardo. Nel ’62 Massimo Mila, a ridosso della versione scaligera così impietosamente sforbiciata da dimezzarne la durata, scriveva: «Sullo scarso valore della Semiramide sembra siano d’accordo quasi tutti i rossiniani, da Stendhal che, impaurito dalla sua fragorosa macchinosità, la tacciava di “germanismo”, allo stesso Rossini […] macchinosa e prolissa, appesantita da un fastidioso ed ingombrante virtuosismo canoro» (sic). Più convinti invece gli esegeti di oggi come Alberto Mattioli: «Semiramide non è un’opera lirica: è un’utopia. Assoluta, eccessiva, esagerata, grandiosa. Sembra la traduzione teatrale delle architetture impossibili di Boullé. Sono forme musicali di simmetria implacabile e imponenza magniloquente (l’Introduzione e il Finale primo sono colossali, e il primo atto dura come quello del Parsifal) rivestite da una vocalità barocca fino all’astrattezza e all’arabesco, giganteschi palazzi classici resi esotici (siamo pur sempre a Babilonia) da una lussureggiante vegetazione tropicale. Semiramide è un gioco di simmetrie spinto fino al delirio, una razionalità che diventa follia, una misura smisurata, tutta una summa e un riassunto e un rimpianto di un teatro che in realtà non è mai esistito. L’opera-Fitzcarraldo di Rossini, un sublime gioco intellettuale e metateatrale, alla ricerca impossibile di un Altrove metafisico fatto di Bello ideale nel quale gli affetti diventano assoluti perché astratti (e viceversa). Un capolavoro sull’orlo della vertigine».
Sulla “esemplarità” di quest’opera, invece, e sul suo ruolo di restaurazione stilistica ed estetica, si possono leggere le pagine che il Ballola ha dedicato a questa «catena di solenni vette dall’andamento quasi regolare e geometrico […] architettura grandiosa e splendida ma non greve né rigida, quale si ammira non tanto nei monumenti del Neoclassicismo, quanto in quelli del Rinascimento italiano […] virtuale atto di riparazione a trascorsi disordini estetici». La musica di Rossini è del tutto indifferente all’ambiente della vicenda, tratta dalla Tragédie de Sémiramis di Voltaire riscritta dal librettista, lo dimostrano le note dell’imponente sinfonia, ma anche nel prosieguo dell’opera è difficile trovare momenti di esotismo musicale.
«Una dissoluta, ex guerriera e donna di una certa età a cui piacciono i ragazzini»: così Luca Ronconi descrive la protagonista della Semiramide quando mette in scena il “melodramma tragico” al San Carlo di Napoli nel 2011, terz’ultima delle sue regie liriche. La lettura di Ronconi rifugge da magniloquenze babilonesi ed elimina «ori, sete, strascichi, palazzi fastosi» per delineare il nocciolo della storia – quella di una donna che ha avuto molti amanti, ha ucciso il marito e sta per sposare il proprio figlio, che sarà la causa della sua morte. Il coro qui all’Opera di Firenze è nella sterminata buca orchestrale dietro al direttore che si volta per dirigerlo. Così in scena rimane isolata la tragedia personale, qui però gelidamente vissuta tra belle statuine, figuranti che emergono a mezza figura in pose stilizzate da buche nel palcoscenico, cubi scorrevoli su cui si imbarcano traballando perigliosamente i cantanti. La scenografia di Tiziano Santi, con un “cretto di Burri” sullo sfondo e gli specchi infranti nelle cornici extra large, costruisce uno spazio simbolico in cui i personaggi scivolano sulle immancabili pedane semoventi: soldatini di piombo senza interazione personale e senza direzione attoriale da parte di Marina Bianchi e Marie Lambert che riadattano lo spettacolo rendendo un brutto omaggio al ricordo del regista scomparso. Peggiora le cose il gioco luci, ripreso da Pamela Cantatore, con spot vagolanti per il palcoscenico che lasciano il cantante al buio o sotto un bagliore sfarfallante.
I costumi di Manuel Ungaro nel 2011 avevano coperto del minimo indispensabile i “ragazzini” del seguito di Semiramide e il couturier francese aveva puntato sulla nudità al di sopra del giro vita per la protagonista: allora Laura Aikin sfoggiava un realistico topless di lattice (2), cinque anni dopo Jessica Pratt copre le sue forme generose con un nuovo costume di Maddalena Marciano.
I frequenti tagli riducono la lunghezza dello spettacolo a poco più di quattro ore con l’intervallo, ma ciò non evita lo stillicidio di uscite del pubblico fiorentino prima della fine: sarebbe bastato anticipare l’inizio di mezz’ora. Quello che nessuno farebbe mai con un’opera di Wagner, sembra invece ancora oggi spregiudicatamente concesso per un’opera del bel canto. Ma come lo sarebbe Wagner, anche Rossini viene deturpato dalle sforbiciate, in totale più di venti minuti di musica, che spesso cambiano le prospettive dell’opera. Per un elenco dei tagli subiti in questa versione leggere qui l’articolo di Roberta Pedrotti.
Al ritorno in buca dopo l’intervallo, il direttore Antony Walker è accolto da una nutrita salva di buu: sostituto quasi all’ultimo momento di Bruno Campanella, forse non è tutta sua la colpa dei tagli e di una lettura slabbrata e piatta di certe pagine, dell’incoerenza di certi momenti e della non convincente intesa con i cantanti. I quali cantanti, alla terza replica, ancora dimostrano qualche incertezza: Mirco Palazzi, Assur, nel suo duetto con Arsace ha saltato alcune battute mandando in crisi la collega, con il suggeritore che nel silenzio imbarazzante dell’orchestra cercava di far riprendere l’azione. Jessica Pratt da parte sua ha bofonchiato alcune frasi in una lingua sconosciuta e ha stupito il pubblico dei discendenti di Dante trasformando l’èscasi in «da tanta angustia èscasi omai» in escàssi… E una piccola pernacchia elettronica, o forse altro rumore simile a quelli provenienti da più ime scaturigini, ha inframmezzato la voce malamente amplificata dell’ombra di Nino. A distanza di tre repliche non sono certo mancati gli imprevisti in questa produzione.
A parte i problemi di dizione, la trionfatrice della serata è stata ovviamente Jessica Pratt che con i filati, i pianissimi, le agilità ha incantato il pubblico rendendo al meglio il ruolo della regina, ma sempre con una freddezza un po’ surgelata e con una presenza scenica che sappiamo non essere il forte della bella e brava cantante australiana.
Unica provenienza dall’edizione del 2011 è quella di Silvia Tro Santafé, un Arsace molto sensibile che, pur con una voce un po’ vibrata, è stato il più coinvolgente dei personaggi ed è stato molto applaudito dal pubblico. Dell’Azema di Tonia Langella è stata apprezzata la brevità del ruolo puramente accessorio.
Mirco Palazzi, a parte l’incidente, delinea con nobiltà il suo perfido Assur, pieni e armonicamente ricchi i bassi, un po’ meno consistenti gli acuti. Acuti, invece, che Juan Francisco Gatell affronta e supera con onore nelle ardue difficoltà del suo Idreno. Per tutti non è stata certamente di aiuto l’acustica del teatro fiorentino, aggravata da una scenografia a scatola e una posizione molto alta dei cantanti la cui voce quasi spariva se appena indietreggiavano di qualche passo.
(1) Francesco Sacrati (su libretto di Maiolino Bisaccioni, Venezia 1649); Antonio Cesti (Giovanni Andrea Moniglia, Vienna 1667); Carlo Francesco Pollarolo (Francesco Silvani Venezia 1714); Nicola Porpora (Metastasio e Domenico Lalli, Venezia 1729); Leonardo Vinci (Metastasio, Roma 1729); Geminiano Giacomelli (Metastasio, Milano 1730); Antonio Vivaldi (Francesco Silvani, Mantova 1732); Georg Friedrich Händel (Metastasio, Londra 1733); Niccolò Jommelli (Francesco Silvani e Domenico Fabris, Venezia 1742); Johann Adolph Hasse (Metastasio, Napoli 1744); Christoph Willibald Gluck (Metastasio, Vienna 1748); Baldassare Galuppi (Metastasio, Milano 1749); Davide Perez (Metastasio, Roma 1749); Giuseppe Scarlatti (Metastasio, Livorno 1751); Tommaso Traetta (Metastasio, Venezia 1765); Ferdinando Bertoni (Metastasio, Napoli 1767); Giovanni Paisiello (parodia di anonimo, Roma 1772); Antonio Salieri (Metastasio, Monaco di Baviera 1782); Domenico Cimarosa (Metastasio, Napoli 1799); Giacomo Meyerbeer (Metastasio e Gaetano Rossi, Torino 1819). Ma l’elenco è tutt’altro che completo.
(2) La Semiramide in “topless” del 2011:

⸫
- Semiramide, Lewis/Pizzi, Venezia, 10 novembre 1992
- Semiramide, Mariotti/Alden, Monaco di Baviera, 27 febbraio 2017
- Semiramide, Hindoyan/Raab, Nancy, 7 maggio 2017
- Semiramide, Frizza/Lagorio, Venezia, 25 ottobre 2018
- Semiramide, Mariotti/Vick, Pesaro, 14 agosto 2019
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