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Gioachino Rossini, Semiramide
★★★☆☆
Nancy, Opéra National de Lorraine, 7 maggio 2017
(live streaming)
L’Arsace di Fagioli
Dopo tanti Arsaci en travesti – in cui sono sfilati i più grandi contralti del passato, dalla Rosa Mariani del debutto nel 1823 a Giulietta Simionato, da Marilyn Horne a Lucia Valentini Terrani alla recente Daniela Barcellona – per la prima volta il figlio di Semiramide ha corpo maschile, anche se con la voce di un contraltista, quella di Franco Fagioli, operazione di cui si possono capire le motivazioni, ma che porta a risultati discutibili.
Non nuovo a exploit rossiniani nell’interpretare sulla scena ruoli che sono in genere appannaggio di cantanti femminili, l’esibizione del cantante argentino è come sempre sorprendente per agilità e precisione, ma risulta fine a sé stessa e la vocalità artificiosa, assieme alle continue smorfie, non aiuta a rendere credibile il personaggio. Il problema è che l’Arsace di Rossini non è uno dei tanti manichini stereotipati dell’opera barocca, ma ha uno spessore psicologico che qui viene a mancare. Fagioli è un Arsace settecentesco più che ottocentesco, più Porpora che Rossini – ma quasi cento anni separano i due compositori, anche se l’ultima opera italiana di Rossini è volta al passato, è un omaggio all’opera seria del secolo precedente.
La scelta di questo particolare registro è tuttavia coerente con l’impostazione registica della tedesca Nicola Raab che ricrea uno spettacolo barocco nel suo teatro nel teatro con un palco sopraelevato, i tiranti e le luci, il sipario, al fine di rappresentare le terribili finzioni in cui vivono i personaggi della vicenda. Unico elemento scenico di rilevanza è uno specchio che riflette i protagonisti o fa loro intravedere il fantasma del loro subconscio, uno specchio che Assur spezza attraversandolo. I sontuosi costumi diacronici di Julia Müer sono altrettanti rimandi teatrali: il Re Sole di Idreno, le parrucche incipriate, i panier, le scarpe dorate con la fibbia e il fiocco, il trucco dei visi, i gesti e le movenze. Non mancano momenti di involontario umorismo nella regia, come quando Arsace dice a Oroe «porgi omai [il] sacro acciar del genitor» e questi gli indica il tavolino con sopra la spada come a dire «sta lì, non lo vedi?» o ancora il duetto di Arsace con la madre con tutto quel ballonzolare di crinoline o la lettura delle lettere, sempre rischiosa per il subitaneo cambio di registro della voce con effetti spiazzanti.
Nel ruolo titolare c’è la rivelazione della Donna del lago dello scorso ROF, Salome Jicia, la cui chiarezza di dizione, la padronanza del fraseggio e il timbro omogeneo ancora una volta hanno appagato il pubblico. Talmente efficace e nobile come Oroe si dimostra il nostro Fabrizio Beggi che gli si fa fare anche l’ombra di Nino, vero deus ex machina della vicenda. Di livello inferiore il resto del cast: Matthew Grills è un Idreno senza personalità, Nahuel Di Pierro un Assur talora troppo parlato. Da dimenticare Mitrane e Azena. Insoddisfacente il coro, che unisce quelli di Nancy e di Metz, formato da voci non proprio fresche per le quali non serve l’immobilità catatonica cui lo costringe la regia a rendere più precisi gli attacchi e le intonazioni.
Con i soliti vituperati tagli la direzione ritmicamente precisa ma anonima di Domingo Hindoyan porta la durata dell’esecuzione a poco più di tre ore.
⸪