Don Giovanni

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 14 maggio 2017

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Il mito senza limiti  di Don Giovanni

Nel 2011 aveva inaugurato la stagione del teatro milanese tra contestazioni e critiche di eccessiva modernità. Ora il Don Giovanni di Robert Carsen ritorna in scena nello stesso teatro e sembra una messa in scena ipertradizionale in confronto a quanto si è poi visto nelle letture del capolavoro mozartiano da parte di Calixto Bieito, Martin Kušej, Claus Guth, Dmitrij Černjakov o Krzysztof Warlikowski, per fare solo qualche nome.

Sulle prime note dell’ouverture, e con le luci ancora accese in platea, Don Giovanni esce da un palco di proscenio e irrompe sulla scena tirando giù il sipario che scopre un enorme specchio riflettente la sala del Piermarini con il suo pubblico. Don Giovanni è il teatro stesso, in cui abita e di cui prende il controllo – il corridoio di platea, il palco di proscenio appunto, ma anche il palco reale, come vedremo – e Leporello è un lavoratore del teatro, ha la stessa tuta dei servi di scena che aiutano a creare il mondo fittizio cui stiamo assistendo. L’azione che vediamo in scena è spesso teatro nel teatro, in cui Don Giovanni, seduto in poltrona, diventa spettatore lui stesso della vicenda.

Gli elementi scenografici di Michael Levine sono costituiti da sipari rossi su schermi scorrevoli: le ripetute sortite di «Ah chi mi dice mai» sono effettivamente “uscite” da successive porte di scenari di Donna Elvira seguita dalla cameriera con le valigie. Ci saranno poi visioni multiple del proscenio in un’audace mise en abyme, una prospettiva infinita che sembra voler fare riferimento al «mito senza limiti», come lo definisce Carsen nelle sue note di regia.

L’ambientazione in abiti moderni cede il passo a costumi d’epoca in un velluto rosso, uguale a quello del sipario, per la scena del ballo in maschera a casa di Don Giovanni, il momento più teatrale del bellissimo allestimento, momento in cui Carsen dà significato a quel «Viva la libertà» spesso incomprensibile: per un breve attimo tutti quanti si lasciano andare prima del turbinoso finale del primo atto, uno dei più bei finali di quest’opera mai visti in scena, con Don Giovanni che fugge alle spade sguainate dei suoi assalitori facendo calare il sipario che scendendo le fa cadere loro di mano.

Altro coup de théâtre è l’apparizione del Commendatore, momento topico troppe volte disatteso o male inscenato: qui c’è la sua immagine distorta sullo specchio che riflette il cantante in piedi nel lontano palco reale. E infine il finale, in cui i protagonisti sono vestiti come per una prima e hanno in mano il programma della serata – i nobili per lo meno, ché Masetto e Zerlina sono un po’ gli impacciati parvenu in bianco e Donna Elvira non smette il suo négligé di satin nero. Se fino a questo momento la drammaturgia di Carsen ha seguito più che fedelmente il libretto, ora c’è la sorpresa: il suo Don Giovanni non può finire dannato all’inferno in cui non crede: viene sì infilzato dalla spada vendicatrice del Commendatore, ma sono piuttosto i suoi antagonisti che finiscono sottoterra tra fumi rossastri quando lui ricompare all’ultimo minuto, beffardo e con la sigaretta in mano, più vivo che mai: noi siamo prigionieri della nostra mortalità, mentre Don Giovanni è un mito che tende all’immortalità. Le sue prime parole nell’opera erano state «Chi son io tu non saprai», rivolte sì a Donna Anna, ma anche a noi, pubblico del XXI secolo che non saprà mai chi sia veramente questo “sconosciuto” libero pensatore lontano anni luce dalle nostre quotidianità.

Thomas Hampson aveva registrato il suo Don Giovanni con Harnoncourt nel 1991 e ancora con Harding nel 2006. Già allora la voce era affaticata, ora la situazione non è migliorata: il timbro è sfibrato, i fiati corti e il baritono americano si rifugia spesso nel parlato. Nonostante questi mezzi vocali riesce comunque a definire il personaggio grazie a una grande presenza scenica. Come Leporello c’è il genero, Luca Pisaroni, debuttante alla Scala, cantante eccelso dal timbro prezioso e che nei recitativi e nell’aria del catalogo mette in luce tutte le possibili sfumature del testo.

Donna Anna qui è più addolorata che vendicativa, una Hanna Elisabeth Müller di bella voce che risolve con facilità le agilità richieste dalla sua parte. Al suo fianco ha un Don Ottavio meno esangue del solito nell’ottimo Bernard Richter. Donna Elvira di gran temperamento è Anett Fritsch mentre la vivace coppia di popolani trova in Giulia Semenzato e Mattia Olivieri due interpreti efficaci. E infine Tomasz Konieczny, un Commendatore dal volume sonoro impressionante ma dalla dizione inammissibile.

Paavo Järvi stacca tempi non trascinanti ma rispettosi dei cantanti e dà una lettura che pur nella solennità non rinuncia a mettere in evidenza le preziosità orchestrali della partitura.

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