
L’orco, Parco dei mostri (Sacro bosco), Bomarzo (Viterbo)
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Alberto Ginastera, Bomarzo
★★★★☆
Madrid, Teatro Real, 5 maggio 2017
(live streaming)
«Mai farei a cambio, anche se son povero, con il duca di Bomarzo» (1)
Come nel Nano di Zemlinsky o Gli stigmatizzati di Schreker, il brutto, il deforme ridiventa soggetto di un’opera del Novecento.
Dopo cinquant’anni esatti dalla sua creazione, torna in scena a Madrid, coprodotta con Amsterdam, la seconda opera del compositore argentino Alberto Ginastera, Bomarzo, op. 34 (2). E sono anche quarant’anni dalla sua ultima rappresentazione al Coliseum di Londra nel 1976. Proibito dal regime militare allora appena insediato, il lavoro debuttò al Lisner Auditorium di Washington il 16 maggio 1967 e fu rappresentato in Argentina solo nel 1972. Il libretto di Manuel Mujica Lainez è basato sul suo omonimo romanzo storico pubblicato nel 1962, primo di una trilogia che comprenderà El unicornio (1965, ambientato nella Francia medievale) e El laberinto (1974, nella Spagna del XVI secolo).
In Bomarzo si narra di Pier Francesco Orsini (1523-1585), duca di Bomarzo, che nasce deformato dalla gobba. Il suo astrologo gli fa bere una pozione che lo renderà immortale, secondo quando predicono le stelle. Ma la pozione viene avvelenata e il duca, nel tempo che gli resta da vivere, in una serie di flashback richiama alla memoria la sua vita passata quando il padre lo trascinava da piccolo in una stanza dove pendeva uno scheletro per il gusto di terrorizzarlo. O quando veniva fatto oggetto di scherno e tormentato dai fratelli. Ancora vergine, il giovane Pier Francesco va a far visita alla cortigiana fiorentina Pantasilea, ma la stanza piena di specchi che riflettono la sua immagine deforme lo fa fuggire. In seguito alla morte in battaglia del padre e poi del fratello maggiore Girolamo, caduto da una roccia, Pier Francesco diventa duca e incontra Giulia Farnese, se ne innamora, però lei gli preferisce il fratello Maerbale. Alla fine comunque si sposano, ma il duca si dimostra impotente. Fa costruire grandi sculture di pietra che raffigurano la sua anima torturata («Puesto que soy un monstruo, me he rodeado de monstruos fraternos que encarnan los episodios de mi vida doliente») e si consuma nella gelosia per il tradimento della moglie con il fratello, che fa uccidere dallo schiavo Abul. Nell’ultima scena, nel gabinetto alchemico dell’astrologo, il figlio di Maerbale, Nicola, avvelena la pozione che dovrebbe renderlo immortale e Pier Francesco muore: «¡Capitán de los Monstruos de Piedra!… Sacro Bosque fatal, oscuro Sacro Bosque, ¿será ésta la inmortalidad que los astros explican?».
Ginastera affida a due atti suddivisi in quindici quadri separati da interludi orchestrali (su modello del Wozzeck di Berg) un linguaggio aperto alla tecnica seriale e allo sprechgesang. L’orchestra è smisurata, il numero di strumenti a percussione è sorprendente (ben 73!), i legni intonano intervalli microtonali e i trilli di un clavicembalo evocano sì il Rinascimento, ma hanno anche un colore macabro. In certi passaggi agli esecutori viene richiesto di improvvisare simultaneamente e il coro, nascosto in buca, fa talora parte del tessuto orchestrale. La tecnica dodecafonica qui è ben lontana dall’essere rigorosamente applicata, lasciando spazio a momenti in cui le note si organizzano in un tema, come è il caso di quello del “dies irae”, che appare nel ballo del settimo quadro, o in scarni lacerti di madrigali e temi popolari.
Nella lettura allucinata e antinaturalistica del regista Pierre Audi non ci sono gobbe (o pavoni o liuti): la deformità di Orsini è nel suo senso di inferiorità, così come la sua impotenza è conseguenza dell’attrazione omosessuale per il suo schiavo Abul. Il supposto tradimento della moglie Giulia è qui rappresentato esplicitamente e il duca ammazza la sposa il giorno delle nozze, o per lo meno così crede nella sua allucinazione. Costante è il contrasto tra l’immagine che Pier Francesco percepisce di sé e la figura atletica del fratello Girolamo («atlético, hermoso, musculoso, petulante, obtuso, procaz y despótico», che si mostra spavaldamente nudo prima di morire, qui per mano della nonna. Sette figure maschili di età differenti e vestite come Orsini sono spesso in scena a rappresentare l’ossessione del duca per l’immortalità mentre un gruppo di danzatori si muove sulla coreografia di Amir Hosseinpur e Jonathan Lunn nel rappresentare le scene orgiastiche che avevano fatto scattare la censura dei colonnelli argentini. La scenografia di Urs Schönebaum utilizza tubi luminosi che formano disegni e strutture cangianti che scandiscono gli spazi mentre i video di Jon Rafman riempiono il fondo della scena. Belli i costumi di Wojciech Dziedzic che per il protagonista ha cucito una giacca dorata fatta di sole maniche!
Costantemente in scena, Pier Francesco ha la voce di John Daszak che affronta con coraggio la fatica della parte e in una lingua non sua. Eccellente il cast femminile in cui Nicola Beller Carbone, Milijana Nikolic e Hilary Summers impersonano le tre donne della vicenda – Giulia Farnese, la cortigiana Pantasilea e la complice nonna. Sia vocalmente sia scenicamente si dimostrano efficaci anche gli altri interpreti maschili, tra cui Germán Olvera e Thomas Oliemans (rispettivamente il fratello Girolamo e l’astrologo).
Il trentenne tedesco David Afkham nella buca orchestrale tiene le redini di questa sfuggente partitura con ottimi risultati.
(Nel 2007 il regista Jerry Brignone ha diretto in soli quattro giorni un lungometraggio dallo stesso titolo, reperibile in rete, con la base musicale dell’incisione discografica e ambientato nel palazzo Orsini e nel “parco dei mostri”).
(1) Sono le prime parole della canzone del pastore con cui inizia l’opera: «Lui ha un gregge di rocce, il mio è un gregge di pecore. A me basta tutto quello che ho: la pace di Bomarzo, la dolce voce del ruscello, il canto delle cicale e l’allegra solitudine di Dio che vaga per i campi».
(2) Le altre sono: Don Rodrigo, op. 31, su libretto di Alejandro Casona (1964) e Beatrix Cenci, op. 38, su libretto di William Shand (1971).
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