
★★☆☆☆
Tra belcanto e quasi grand opéra
Ultimo dei sei melodrammi scritti da Meyerbeer nel suo periodo italiano, Il crociato in Egitto è quello che ebbe il maggior successo: una quarantina di allestimenti nei primi sedici anni. Ricavato da un mélodrame di Jean-Antoine-Marie Monperlier, Jean-Baptiste Dubois e Hyacinte Albertin, Les chevaliers de Malte ou L’ambassade à Alger, il libretto è di Gaetano Rossi, il librettista del Teatro La Fenice, dove l’opera andò in scena il 7 marzo 1824.
La complessa vicenda ha un antefatto che lo stesso librettista si premura di raccontare nella Protasi del libretto a stampa: «In una spedizione accaduta nella VI crociata [1228-29], sulle coste d’Egitto, sotto Damiata, un corpo di cavalieri di Rodi, comandato da Esmengardo di Beaumont, sorpreso, tradito, oppresso dal numero de’ nemici, dopo luminosi sforzi d’eroico valore tutto sul campo rimase; que’ prodi non cessero la vittoria che colle loro vite. Armando d’Orville, giovine cavalier di Provenza, iniziato, era fra que’ valorosi: il sangue perduto da una ferita l’avea tratto da’ sensi; rinvenuto alla vita, nel fosco di notte, altro non vide mezzo a salvarsi da infame schiavitù, che le armi vestirsi d’egizio estinto guerriero, e fra’ nemici confuso, attendere di fuggire il momento, e le forze, e i disegni intanto rilevar degli Egizi. Armando, sotto il nome d’Elmireno, ebbe occasione di segnalare il proprio valore, e la vita salvare d’Aladino sultano di Damiata. Il creduto giovine soldato di fortuna, il suo non comune valore, i gentili suoi modi interessarono l’animo del sultano: amico gli divenne, e nell’interno di sua famiglia l’ammise. Figlia del sultano era Palmide, fior di bellezza chiamata fra le egizie donzelle. Ella vide il supposto Elmireno, lo conobbe, e l’amò. Lontano dalla patria, quasi senza speranze di più ritornarvi, giovine, col cuore il più ardente, Armando obliò sé stesso, i suoi doveri, la fede promessa a Felicia, nobile fanciulla di Provenza, e all’amore di Palmide s’abbandonò. Segretamente de’ riti della di lui fede la istrusse, nodo segreto ad essa l’unì, e n’ebbero un figlio. Ma l’onore, la sua patria, i suoi falli, erano sempre al di lui cuore presenti, e funestavano la sua felicità. Aladino vedeva il reciproco loro affetto, e non attendeva che il ritorno da gloriosa campagna d’Elmireno onde unirli. I cavalieri di Rodi trattavano intanto del riscatto, del cambio di prigionieri, e pace anche offrivano, e una lor ambasciata era a Damiata rivolta. L’azione comincia all’arrivo dell’ambasciata».
Atto I. Un giardino nel palazzo del sultano Aladino di Damietta. Palmide, figlia del sultano, porta agli schiavi cristiani, impegnati in un duro lavoro, i doni di Elmireno, del quale è innamorata senza sapere che la sua vera identità è quella di Armando d’Orville. La giovane è presto raggiunta dal padre Aladino, che l’informa dell’imminente ritorno del vittorioso Elmireno. Squilli di tromba annunciano l’arrivo di una delegazione dei cavalieri di Rodi, che accende in tutti speranze di pace. Aladino annuncia a Palmide l’intenzione di darla in sposa a Elmireno, suscitando l’invidia del visir Osmino, innamorato della donna e desideroso di succedere ad Aladino sul trono, e al tempo stesso destando l’inquietudine di Palmide che, segretamente unita a Elmireno con rito cristiano, ha generato il figlio Mirva. Nei giardini del sultano, Elmireno raggiunge Palmide e Mirva: incalzato dagli eventi confessa a Palmide di essere cavaliere dell’ordine di Rodi e nipote del Grande Maestro Adriano di Montfort; inoltre, prima di incontrarla, era promesso sposo della nobile Felicia. La situazione incerta accresce l’agitazione dei due amanti, proprio mentre approdano navi europee nel porto di Damietta. Ne discende per prima Felicia, che reca l’offerta di pace dai cavalieri di Rodi e fra sé ricorda che proprio su quel suolo è perito il suo Armando. Questi incrocia in una spiaggia Adriano, che subito lo riconosce come il nipote dato per disperso. redarguendolo severamente per essersi alleato al nemico. Armando gli confida che non ama più Felicia, e immagina il dolore che arrecherebbe a Palmide se la abbandonasse; questo suo pensiero è però contrastato dal ricordo della madre, che lo richiama prepotentemente a casa. Nei giardini del sultano, Felicia incontra Palmide e apprende che Mirva è il frutto della sua unione con Armando; ella si appresta a dare il proprio definitivo addio all’amato e si nasconde quando lui entra per dire addio a Palmide. Nel palazzo di Aladino tutto è pronto per accogliere la delegazione di pace e per celebrare, insieme, le nozze di Elmireno e Palmide. Le bande militari delle due opposte fazioni sovrappongono musiche diverse, ma grande è il clamore soprattutto quando avanza Armando, vestito in abiti europei. Quando Aladino fa per avventarsi su di lui per pugnalarlo, s’interpone Felicia, suscitando in tutti confusione e costernazione. Serrate le fila, Aladino ordina che Armando venga imprigionato, mentre il clamore delle due bande sovrapposte sancisce sonoramente lo scontro in atto.
Atto II. A palazzo, il visir Osmino non riesce ad accettare che Palmide gli preferisca un cristiano e, scoperto di chi è figlio Mirva, trama per suscitare una rivolta nell’intero dominio del sultano. Di seguito Felicia esprime tutto il grande amore che, nonostante tutto, ancora la lega all’infedele Armando. Mentre Palmide ricorda gl’incontri amorosi con lo sposo nei giardini del palazzo, giunge Osmino, insieme al sultano, cui ha appena svelato l’esistenza del bambino. Aladino vuole uccidere Mirva, ma l’opposizione strenua della madre riesce a scuotergli l’animo; ordina quindi che Armando e Adriano siano condotti al proprio cospetto e restituisce loro la libertà, ma quando Adriano apprende della paternità di Armando, lo ripudia. In una spiaggia remota Osmino ed un gruppo di emiri spiano Armando, che supplica Palmide di fuggire con lui. Sopraggiungono Adriano e altri cavalieri e Palmide accetta di rendere pubblica la sua conversione al cristianesimo. Armando intona allora una preghiera, cui si uniscono via via gli altri cristiani, ma irrompe Aladino che, inferocito di fronte all’abiura della figlia, ordina che gli infedeli siano uccisi. Rimasto solo, Osmino medita ad alta voce sul piano già predisposto: armare i cavalieri cristiani in modo da deporre Aladino e conquistare il regno. Nel carcere, Adriano sprona i confratelli ad accettare eroicamente il destino: l’ora della morte si avvicina. Armando ha appena espresso il proprio amore per Palmide quando entrano Osmino e gli emiri, che offrono le spade ai cavalieri. Quando Aladino giunge per ordinare lo sterminio, Osmino gli si rivolta contro, ma i cristiani, invece di assecondarlo, si schierano a difesa del Sultano, su istigazione di Armando. Colpito da tanta generosità, Aladino libera i cristiani e approva le nozze fra Armando e Palmide, i quali partono per l’Europa insieme ai cavalieri.
Nella parte di Armando/Elmireno si esibì Giovanni Battista Velluti, l’ultimo dei castrati. In seguito, il ruolo fu affidato a interpreti femminili en travesti. Subito dopo la prima veneziana, Il crociato in Egitto fu rappresentato in altre città italiane e per alcune di queste rappresentazioni Meyerbeer compose pezzi nuovi, mentre per altre sezioni dell’opera procedette a sostituzioni, rielaborazioni e spostamenti. Il 25 settembre 1825 l’opera approdò al Théâtre Italien su invito di Rossini che ne era direttore artistico e la parte di Armando fu affidata a Giuditta Pasta, per la quale il compositore scrisse una nuova aria d’esordio. Fu questo suo successo nella capitale francese ad aprire a Meyerbeer le porte dell’Opéra.
Il crociato in Egitto viene un anno dopo la Semiramide di Rossini e come quella rappresenta una cerniera tra l’opera italiana belcantistica e il nuovo spirito romantico. Sia nel caso di Rossini che di Meyerbeer aprirà il periodo francese che culminerà nel silenzio per il compositore italiano, mentre per quello tedesco nel fragore del Grand Opéra.
Il lavoro di Meyerbeer richiede molto ai protagonisti: la vocalità è riccamente fiorita, tipicamente rossiniana, ma lascia presagire lo sviluppo di tipologie romantiche. Drammaticamente e musicalmente si tratta di un’opera estremamente complessa e l’orchestrazione è molto più ampia del solito. Anche la forma è spesso libera: la cabaletta di Palmide («Soave immagine in quel momento | a te sorridere il cor io sento») viene improvvisamente interrotta dall’arrivo del padre che ne riprende poi il tema in un duettino mentre nel finale primo sul palco sono presenti due bande distinte che si alternano in temi tipici delle due culture contrapposte.
«Per molti aspetti Il crociato guarda alle scene teatrali francesi e anticipa i caratteri che saranno, pochi anni più tardi, del grand opéra: così l’ampio tableau dell’introduzione, arricchita da una pantomima nella quale la musica descrive l’azione dei gruppi e delle singole persone; la scena della congiura; gli effetti orchestrali; l’impiego di gruppi corali contrapposti. In anticipo sui tempi è la proiezione dei conflitti privati su uno sfondo storico: il contrasto tra crociati ed egiziani, ad esempio, è vissuto come il confronto fra due culture e due religioni, ed è realizzato anche musicalmente con mezzi diversi (nel primo finale si fronteggiano, sul palcoscenico, due bande che impiegano strumenti e idiomi differenti, con un effetto oltremodo spettacolare). L’impianto generale dell’opera, tuttavia, è mediato dal melodramma rossiniano; a esso sono chiaramente riconducibili sia l’articolazione in ‘numeri’ chiusi, sia l’uso copioso della coloratura vocale. (Claudio Toscani)
Gaetano Rossi, autore anche del Tancredi e della Semiramide rossiniani, imbastisce una vicenda squinternata i cui personaggi sono in preda a sentimenti altalenanti in cui furori di vendetta si alternano senza logica a momenti di grande afflato affettivo. Un bel problema per gli interpreti che la mancanza di drammaturgia in questa produzione veneziana non fa che aggravare. Pier Luigi Pizzi opta per una mise en décor minimalista nelle scenografie – un drappo bianco con la parola Allah in arabo e la croce a otto punte, bianca su fondo nero, per i crociati a sintetizzare lo scontro di civiltà e di religioni – e nella regia, che è quasi nulla essendo la recita poco più che un’esecuzione oratoriale, a parte il roteare di scimitarre e le espressioni minacciose dei volti. Tutto il budget sembra sia stato destinato ai sontuosi costumi dei musulmani, per i quali si è saccheggiato il magazzino dei tessuti broccati di Rubelli.
Nella parte di Armando/Elmireno esordisce Michael Maniaci, un sopranista americano che dichiara di non utilizzare il falsetto, ma di possedere quel particolare registro acuto per una naturale conformazione fisica. Il timbro è piacevole, le agilità precise e lo stile appropriato, ovviamente il volume è quello che è e se anche con i microfoni della ripresa è evidente l’esilità, immagino che dal vivo la proiezione della voce fosse ancora più problematica. Non è un problema di volume invece per l’Aladin di Marco Vinco dalla presenza scenica un po’ rigida. Non memorabile l’Adriano di Monfort di Fernando Portari. La Palmide di Patrizia Ciofi è tra i personaggi meno improbabili della vicenda e il soprano toscano, a parte il poco piacevole colore della voce, affronta le difficoltà vocali con agio e intensa espressività, ma ancora più convincente è la Felicia di Laura Polverelli dalla bellissima linea di canto. Emmanuel Villaume fornisce una lettura corretta della partitura mentre il coro del teatro si disimpegna onorevolmente.
Il doppio disco della Dynamic non offre alcun extra se non i sottotitoli e due tracce sonore.
⸪