Angelo Anelli

Don Pasquale

Gaetano Donizetti, Don Pasquale

★★

Amburgo, Staatsoper, 29 maggio 2022

(video streaming)

Donizetti come lo vedono all’estero

Arte.tv festeggia il suo trentesimo compleanno con la messa in onda dalla Staatsoper di Amburgo della registrazione del Don Pasquale, un titolo donizettiano tra i più popolari all’estero. La produzione ha come direzione musicale quella di Matteo Beltrami mentre la messa in scena è di David Bösch.

Alla guida della Philharmonisches Staatsorchester Hamburg il maestro concertatore tiene tempi frizzanti, le raffinatezze strumentali della partitura hanno il giusto rilievo, ma l’orchestra copre talora le voci, soprattutto nei concertati, i momenti lirici mancano di una certa magia e in generale la lettura di Beltrami si adatta alla mano greve del regista. Ambrogio Maestri torna in una parte che ha frequentato spesso e si vede nell’immedesimazione del personaggio del titolo che ricrea con grande gusto. Vocalmente conferma le doti espressive che gli riconosciamo ma ricorre talora al parlato. Gli fa da spalla un buon Malatesta, il baritono Kartal Karagedik, di ottima dizione. Assieme i due trasformano in un numero da avanspettacolo davanti al sipario il duetto del terzo atto, però il sillabato veloce è quasi incomprensibile – tanto siamo in Germania… – ma vale comunque un bis con relativo cronometro per misurarne il record di velocità. Triste il confronto con la Danielle de Niese di anni fa: la sua è una Norina scenicamente spigliata come sempre, ma la voce ha perso di leggerezza, le agilità sono un po’ pasticciate e gli acuti urlati. Il tenore sudafricano Levy Sekgapane è un Ernesto dalla vocalità generosa anche se acerba, non aiutato dalla regia nella ricerca di una maggiore sensibilità espressiva del personaggio.

Appollaiato sui suoi soldi come Paperon de’ Paperoni, la cospicua mole di Ambrogio Maestri ci appare dentro una enorme cassaforte montata sulla solita pedana girevole nella scenografia di Patrick Bannwart. Lo sportello aperto serve da schermo per le numerose proiezioni, in genere immagini degli invadenti telefoni cellulari in scena. Nel secondo tempo il mucchio di banconote è notevolmente diminuito per le spese della sposina, ma non sono diminuite le gag con cui il regista infarcisce la terz’ultima opera di Donizetti riducendola a una farsa da commedia dell’arte delle più scontate, definita “dramma buffo” nel libretto. Ma è quello che il pubblico tedesco si aspetta e non bisogna deluderlo: la straziante aria di Ernesto «Cercherò lontana terra» qui è una canzonetta strimpellata alla chitarra e il duo «Tornami a dir che m’ami» finisce col lancio per aria delle mutande di Norina. Che poi nello happy ending finale salti fuori una pizza è del tutto prevedibile nella regia di David Bösch, ma un piatto di spaghetti mangiati con le mani sarebbe stato probabilmente ancora più applaudito.

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Don Pasquale

Gaetano Donizetti, Don Pasquale

★★★★☆

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

Milan, Teatro alla Scala, 3 April 2018

Don Pasquale, or, The Revenge of the Dead Mother

Don Pasquale is an Italian opera buffa using the Commedia dell’Arte as a model: Don Pasquale is Pantaloon, the old man destined to be deceived; Norina is Columbina, the young woman coveted by the old man; Dr Malatesta is Scapin, the wily schemer; Ernesto can be thought of as Pierrot, the unhappy inamorato.

But Donizetti’s work is anything but a comedy of masks: the characters are fleshed out and have well-rounded psychologies. Don Pasquale is a work that looks to Falstaff more than The Barber of Seville and Donizetti’s music often questions its own position in the buffo genre. Here it simply creates a sentimental, if not tragic, element…

continues on bachtrack.com

L’italiana in Algeri


Gioachino Rossini, L’italiana in Algeri

★★★☆☆

Amsterdam, Het Muziektheater, 13 gennaio 1995

(registrazione video)

Fo insiste con Rossini

Nella sterminata carriera teatrale di Dario Fo c’è stato posto anche per il teatro in musica con la messa in scena di L’histoire du soldat (1978) e di Pierino e il lupo (1992) mentre per quanto riguarda l’opera lirica vera e propria si ricordano le regie di Il barbiere di Siviglia (1986), L’Italiana in Algeri (1994), La Gazzetta (2001) e Il viaggio a Reims (2002). Solo Rossini quindi per Fo che lo ha ritenuto il compositore più affine al suo modo di far teatro, anche se c’è chi come Elvio Giudici che non apprezza il suo approccio: «Tradurre in scena lo scatenamento ritmico rossiniano sembrerebbe pane ideale per i denti aguzzi della mimica di Dario Fo, capace come nessuno di rivisitare i moduli teatrali antichi ristrutturandoli e ricomponendoli con modernità stupefacente. Ma Rossini è una brutta bestia per i registi. Quei ritmi che sembrano reiterarsi di continuo e sono invece sempre diversi, nutriti per giunta d’una sottile, quasi inavvertibile vena di languida di sensualità, costruiscono personaggi definiti non dalla situazione ma da quegli “accenti nascosti” sardonicamente indicati da Rossini quale meta espressiva ai propri interpreti. […] Mimi a profusione, dunque, vorticanti per ogni dove con in mano gli oggetti più disparati, ivi compresi e inutili e banalissimi cartelli con lacerti di testo. Gestualità a macchinetta nel tentativo (forse) di tradurre lo scatenamento ritmico rossiniano. Personaggi annegati nel profluvio di gente che passa, ripassa, piroetta, si maschera in varie forme zoomorfe e insomma rompe le scatole in sovrana e prosopopeica indifferenza alle vicende, ambiente o situazione sentimentale. Spettacoli di Fo musica di Rossini, insomma».

Non fa eccezione questa Italiana in Algeri che da Pesaro arriva al Muziektheater di Amsterdam, teatro che aveva già ospitato il suo Barbiere. A cominciare dagli animali in scena (uccelli vari, cammelli, leoni, scimmie, struzzi, zebre, giraffe…) cui si aggiungono giocolieri, saltimbanchi, acrobati, sbandieratori, trampolieri, ciclisti, mangiafuoco, giostre del saracino, marionette volanti, eunuchi, danzatori e danzatrici, colonne semoventi, per non parlare dei portatori di pali appuntiti di varie dimensioni… E tutto sul ritmo della musica con un senso di horror vacui che è accettabile solo per il sicuro senso del teatro di Fo e per il surreale umorismo della musica del pesarese. Scene e costumi, disegnati dallo stesso regista, costruiscono un mondo coloratissimo e folle (impagabile il trono-portantina di Mustafà di forma fallica) in cui la finzione teatrale è spesso messa allo scoperto: le onde da cui saltano i pesci sulle note puntate dell’ouverture si rivelano dei teli azzurri che, dopo essere agitati per rendere alla perfezione il moto ondoso di quel mare in cui naufraga il «vascello rotto ad uno scoglio e disalberato dalla burrasca», vengono ritirati ripiegandoli accuratamente.

Alberto Zedda sul podio garantisce sull’operazione a livello musicale con ritmi vivaci che diventano quasi forsennati nei concertati mettendo talora a disagio i cantanti, nella quasi totalità non italiani. Isabella è qui affidata ai modi manierati e alla voce che non conosce sensualità di Vesselina Kasarova, che dipana le agilità con meccanica freddezza. Non meglio l’Elvira di Elena Vink dal tono petulante. Il Mustafà di Peter Rose non strafà, è simpatico e vocalmente pregevole ma la dizione è quella che è. Non male il Taddeo di Jan Opalach, meno piacevole lo Haly di Eduardo Chama. Il meglio nel cast lo dà il Lindoro di William Matteuzzi che sfoggia con agio ed eleganza agilità, variazioni e puntature come se non ci fosse un domani. In alternativa alla cavatina «O come il cor di giubilo» presenta l’aria alternativa «Concedi amor pietoso», impegnativo pezzo musicale preceduto da una lunga introduzione al clarinetto.

L’italiana in Algeri

Gioachino Rossini, L’italiana in Algeri

★★★☆☆

Pesaro, Teatro Rossini, 10 agosto 2013

(registrazione video)

Barbarella in Algeri

Con Il barbiere di Siviglia e Cenerentola, L’italiana in Algeri forma una trilogia fondamentale quanto quella di Da Ponte/Mozart per il teatro in musica.

Anche se i librettisti sono diversi (Cesare Sterbini, Jacopo Ferretti e Angelo Anelli rispettivamente), gli anni di composizione sono compresi in un quadriennio come per Mozart e Rossini crea uno stile riconoscibilissimo che avrebbe rivoluzionato il concetto di opera buffa, dove la comicità dall’azione scenica passava alla musica. Elemento fondamentale è il concertato di fine atto: in quello mozartiano, capolavoro indiscusso quello del secondo atto de Le nozze di Figaro, la comicità è data dalle azioni dei protagonisti che si accumulano in una frenesia incontenibile e con un perfetto ritmo teatrale. Nei concertati rossiniani – «Mi par d’esser con la testa» finale primo del Barbiere, «Mi par d’essere sognando» finale primo de La cenerentola, «Nella testa ho un campanello» finale primo de L’italiana – l’azione è completamente sospesa e l’effetto esilarante deriva esclusivamente dalla musica con i suoi effetti ritmici e onomatopeici e l’irresistibile crescendo.

Le note puntate dei violini della celebre ouverture qui seguono i movimenti delle pompe che estraggono petrolio dal deserto nel video che accompagna la musica. Lindoro esce da un condotto in smoking bianco e pistola in mano come 007 e dopo vedremo Mustafà accarezzare un gatto come il capo della Spectre. I colpi d’arma da fuoco sono dei fumettistici “BANG” e l’italiana esce dai rottami dell’aereo a cui il Bey ha sparato.

Ecco in pochi tratti la cultura cinematografica e pop anni ’60 (Blake Edwards e la commedia ll’italiana) scelta da Davide Livermore per sua lettura de L’italiana in Algeri al Rossini Opera Festival del 2013, esattamente duecento anni dopo la prima veneziana al San Benedetto il 22 maggio 1813.

Le gag sono innumerabili, una generosità di trovate che da tempo è diventata una cifra stilistica del regista e che in questo caso alla “follia organizzata” del lavoro ha aggiunto la sua, ed è incontenibile. Alcuni esempi. Per servilismo c’è chi offre la mano come posacenere per Mustafà, ma questo sadicamente ci spegne pure i sigari che fuma in continuazione. Potrebbe finire lì, invece il/la malcapitato/a corre a immergerla in una caraffa d’acqua da cui però non riesce a tirarla via. Oppure, la babbiona “atterrata” assieme a Isabella anche lei è resa schiava e la vediamo passare l’aspirapolvere. Ma neanche questo basta: inavvertitamente aspira il pappagallo che prima aveva beccato, a turno, gli altri personaggi. Oppure ancora le pastiglie di Viagra trangugiate dal Bey e la “piccola disavventura” col revolver o le dosi di acido lisergico che sono all’origine dello stato confusionale generale, «Va sossopra il mio cervello». O le due sempre presenti hostess che traducono in una loro lingua dei segni le parole dell’aria di Lindoro. E tutto questo solo al primo atto. Non tutto è di buon gusto e ciò ha fatto storcere un po’ il naso al pubblico del ROF. Quello di Torino nel 1979 era stato ancora più insofferente con L’italiana in Algeri di Ugo Gregoretti, con lancio di monetine e fischi. Uno spettacolo dal quale, come i Rossini di Dario Fo, questo sembra essere la naturale evoluzione fino a una certa saturazione visiva.

Le scene di Nicolas Bovey consistono in una pedana rialzata e rotante con un elemento curvo che fa da schermo alle proiezioni in cui vediamo Lindoro pulire la piscina infestata da uno squalo, o che diventa un televisore durante l’aria «Pensa alla patria» con le rappresentazioni del boom economico, ma quando dovrebbero andare in onda «gli esempi di ardire e di valore» si perde l’immagine nonostante gli sforzi di Taddeo a orientare l’antenna. Se poi Haly canta «Le femmine d’Italia» davanti al sipario, questo rimanda le pagine delle riviste femminili del tempo. Come sempre negli spettacoli di Livermore l’aspetto visivo è estremamente curato. Così come i costumi, disegnati da quel genio di Gianluca Falaschi che dopo il bianco e nero del Ciro in Babilonia punta al technnicolor pescando nel pop anni ’60, tra Carnaby Street, Courrèges e Barbarella, Chanel e odalische del Crazy Horse con le nappine sui capezzoli. Un caso a parte di trionfo del trash il guardaroba di Mustafà, con tessuti stampati nei colori solari del nord’Africa e babbucce incrostate di gemme di plastica.

Quella di José Ramón Encinar alla guida dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna è una direzione tirata via e imprecisa in cui i concertati denunciano in più punti scollamenti tra scena e buca. Il cast vocale vede come interprete protagonista Anna Goriačëva, mezzosoprano di bel timbro ma carente nel registro basso, più a suo agio nella tessitura acuta. Niente da dire sulla sua avvenenza fisica generosamente esibita da Bond Girl, ma il personaggio non arriva a destare simpatia e resta una certa impressione di freddezza nonostante tutto l’impegno profuso. Lindoro è affidato a Yijie Shi, tenore dalla grande tecnica e dal timbro luminoso che lo fa svettare nei concertati, ma il tono è un po’ petulante. In Mustafà c’è Alex Esposito, istrionico animale da palcoscenico, ma di gran voce e ben utilizzata. Mariangela Sicilia delinea con stile e acuti ben piazzati un’Elvira qui quasi caricaturale a fianco della convincente Zulma di Raffaella Lupinacci. Haly elegante e sornione quello di Davide Luciano, mentre il Taddeo di Mario Cassi risulta vocalmente un po’ troppo leggero. Fra i tanti figuranti un irresistibile Sax Nicosia è un maldestro manicurista e svolazzante capo degli eunuchi in short rosa e vestaglia di seta.

L’italiana in Algeri

Gioachino Rossini, L’italiana in Algeri

★★★★★

Salisburgo, Haus für Mozart, 9 agosto 2018

(video streaming)

Tre uomini e una donna

Ma chi l’avrebbe mai detto che Gioachino Rossini ed Angelo Anelli sapessero che oltre due secoli dopo la loro L’italiana in Algeri sarebbe stata messa in scena da Moshe Leiser e Patrice Caurier? Non si spiega altrimenti come i tempi comici della sublime musica e gli arguti versi del libretto si possano adattare così a meraviglia al lavoro del duo registico e ai favolosi interpreti qui in scena a Salisburgo.

Interpreti concertati dalla mano nervosa di Jean-Christoph Spinosi a capo dell’Ensemble Matheus da lui fondato. Il direttore francese imprime tempi vertiginosi ma sempre perfettamente realizzati sia in buca dagli strumenti “antichi” sia in scena, salvo poi espandersi nei tempi rapinosi della cavatina di Isabella per esaltarne il languore. Efficaci anche dal punto di vista attoriale sono gli interventi del Philharmonia Chor Wien preparato da Walter Zeh.

Con Cecilia Bartoli non si sa se ammirare di più le capacità attoriali ed espressive nei recitativi o le agilità e le prodezze vocali nelle arie. Eccelsa stilista ed eccelsa attrice, passa dalla sensualità di «Per lui che adoro», alle fantasiose variazioni di «Qual piacer! Fra pochi istanti» alla comicità di «Ohi! che muso, che figura!» ai duetti assieme ad Alessandro Corbelli con perfetti tempi comici. La parte di Isabella è ideale per una voce che ha acquistato sfumature calde nel registro grave ma in quello acuto ha mantenuto inalterati i fuochi d’artificio della coloratura. Ancora una volta la sua è una lezione di canto rossiniano. Mustafa trucido e panzuto è quello di Il’dar Abdrazakov –  l’unico cambiamento rispetto all’edizione di Pentecoste (là era Peter Kálmán) – e sbalordisce come l’interprete di Filippo II, Attila e Boris Godunov riesca a rispondere così magistralmente alle agilità richieste da Rossini (e al ritmo travolgente di Spinosi) unitamente a un senso dell’umorismo e a un’autoironia ineguagliabili. La pienezza vocale, i fiati interminabili, la sonorità delle note basse, lo squillo degli acuti, il gusto nell’enunciazione della parola e la perfetta dizione si accompagnano a doti di eccelso attore comico che fa della voce, dell’espressione facciale e del corpo altrettanti mezzi espressivi. Alessandro Corbelli, un Taddeo mai grottesco né banalmente istrionico, non è solo la spalla perfetta della Isabella di Cecilia Bartoli, ma anche lo stilista dalla vocalità piena ed elegante che conoscevamo. Niente da dire sul Lindoro di Edgardo Rocha, più che adeguato, ma a lato di questi tre mostri sacri fatica ad emergere. Ottimi acuti per l’ironica Elvira di Rebeca Olvera ed eccellenti i comprimari, sia l’Haly di José Coca Loza che la Zulma di Rosa Bove.

Tutti si sono perfettamente adeguati al tono instaurato dai registi e reso palese fin dalla sinfonia, quando vediamo il talamo di Mustafa e della moglie Elvira la quale tenta inutilmente di risvegliare gli appetiti sessuali del marito, compresa una danza del ventre, per poi consolarsi con una scatola di loukum mentre il marito è più interessato ai suoi loschi affari come capo della malavita algerina. Infatti, scatole di elettodomestici di contrabbando o rubati entrano dalla finestra e transitano nella camera mentre il coro commenta dal quadro sopra il letto. Le scenografie di Christian Fenouillat costruiscono a colori vivaci la città di Algeri di oggi, con le parabole satellitari sui balconi delle case popolari mentre nell’aria si diffondono i richiami dei muezzin e sulle strade macchine scassate contendono il posto a pigri dromedari.

Ed è su un dromedario che arriva Isabella, una donna libera, emancipata, zaino sulle spalle, non ha timori di sorta: da quel momento sarà lei a dettar legge e manipolare i suoi uomini. Un bell’esemplare di femmina emancipata, di quelle «femmine d’Italia» che sono oggetto dell’aria di sorbetto di Haly, cantata davanti alla proiezione della scena del bagno nella fontana di Trevi da La dolce vita – anche se lì la femmina era svedese…

Un altro momento di comicità esilarante è il “quartetto del caffè” con Isabella immersa nella schiuma di una vasca da bagno a stuzzicare i tre uomini invaghiti di lei. Più tardi gli “schiavi italiani” sono i giocatori della Nazionale di calcio che appena liberati, ancora con le magliette azzurre, si abbuffano di spaghetti prima di vestire i panni del buffo coro dei kaimakan per imbarcarsi poi sulla nave da crociera che li riporta in patria. I costumi di Agostino Cavalca distinguono ironicamente i guardaroba delle diverse culture in gioco e arguta è l’idea di far vestire alla diva Bartoli un suo abito da concerto per il rondò del secondo atto!

Inutile riportare l’entusiasmo al calor bianco del pubblico che saluta con autentiche ovazioni le uscite di Bartoli, Abdrazakov e Corbelli.

Litaliana-in-Algeri-2018-Edgardo-Rocha-Lindoro-Cecilia-Bartoli-Isabella-©-Salzburger-Festspiele-Monika-Rittershaus.jpg

 

Don Pasquale

 

Gaetano Donizetti, Don Pasquale

★★★☆☆

Parigi, Palais Garnier, 19 giugno 2018

(diretta streaming)

La prima volta all’Opéra del lavoro di Donizetti

A distanza di poche settimane, i due più importanti registi italiani presentano il loro Don Pasquale: il 3 aprile alla Scala Davide Livermore leggeva la vicenda come una commedia all’italiana anni ’60; ora a Palais Garnier Damiano Michieletto presenta la sua personale impostazione. È la prima volta che l’opera di Donizetti viene messa in cartellone all’Opéra National di Parigi.

Il salto temporale qui è ancora maggiore, siamo nella contemporaneità infatti. Ma è soprattutto sul personaggio titolare che ci sono le maggiori differenze di lettura: se per Livermore erano la simpatia per il vecchio Don Pasquale e la nostalgia dell’ambientazione a dare il tono al suo spettacolo, qui invece Michieletto, nella sua lucida logica, infligge al crudelmente gabbato vecchietto una fine ignominiosa in un triste ospizio. Al poveretto non è risparmiato un trattamento che insiste senza pietà sulla sua decadenza fisica piuttosto che sull’empatia col personaggio. Prima ancora dell’umiliante ceffone della “mogliettina”, Michieletto ce lo presenta nella sua datata abitazione mentre sciabatta in pigiama e vestaglia, indossa la cintura elastica per contenere la pancia, si tinge i capelli, si annoda un’orrenda cravatta marrone su una camicia scozzese. Il «vecchio celibatario, tagliato all’antica, economo, credulo, ostinato, buon uomo in fondo» del libretto di Giovanni Ruffini, qui è un patetico pensionato angariato da una sciatta domestica, turlupinato da chi si professa amico e angustiato da un nipote nullafacente che si capisce non farà mai nulla di buono nella vita. Oggi non c’è  più né rispetto né pietà per gli anziani, sembra dire Michieletto.

Decisamente più negativo qui è anche il cinico personaggio di Malatesta, un subdolo “amico” abituato agli inganni in quanto come regista di video e spot pubblicitari fa grande uso del croma key per fingere una realtà immaginaria. Norina è una delle sue modelle e la grande confidenza che il giovane ha con la ragazza fa intuire l’inedito finale scelto dal regista, in cui Norina lascerà l’insulso Ernesto per il più consistente Malatesta.

Lo scheletrico impianto scenografico di Paolo Fantin consiste nella casa fuori moda di Don Pasquale divisa virtualmente in vari ambienti – ci sono le porte ma non le pareti – identificati da scarni oggetti: un letto per la camera; un divano giallo, una pendola da terra e un quadro romantico per il soggiorno; una vecchia stufa economica per la cucina; un tavolo con sedie per il tinello; una vasca su piedini per il bagno; una vecchia Lancia Flavia in garage. Tutto verrà spazzato via dal ciclone Norina e sostituito da corrispettivi contemporanei e alla moda. Sormontata da una struttura di tubi al neon come tetto, la scena ruota su una piattaforma in modo da permettere di curiosare nella casa da angolazioni diverse. Un sobrio ma efficace gioco di luci è quello di Alessandro Carletti mentre i costumi di Agostino Cavalca connotano i diversi personaggi: il guardaroba anni ’70 di Don Pasquale, le felpe e le t-shirt da coatto del nipote o il giubbotto di pelle del mafiosetto Malatesta. Dopo l’abito da educanda, Norina sfoggia outfit tali da far imbufalire il povero “marito”.

Non pienamente convincenti sono alcune scelte del regista come il ricordo di Don Pasquale bambino con la mamma o l’utilizzo di burattini per riassumere la storia durante il coro «Che interminabile andirivieni!», qui affidato a non si sa chi, se vicini di casa o passanti, di certo non ai servitori reclutati da Norina.

Come sempre nelle messe in scene di Michieletto la logica del konzept è portata avanti con lucidità e arguzia, la direzione attoriale è sempre attenta e l’adattamento della regia agli interpreti perfetto. Quello che manca è l’empatia per i personaggi in scena che porta a una certa freddezza dell’impianto e a una mancanza di umorismo nonostante le numerose gag.

Si diceva degli interpreti su cui Michieletto cuce addosso la regia: Michele Pertusi è un Don Pasquale scenicamente efficace ma non è un basso buffo e vocalmente denuncia qualche stanchezza, il sillabato è perfettibile, talora tende al parlato, ma comunque è sempre intatta l’eleganza con cui il cantante porta in scena il personaggio. Splendente presenza è quella di Nadine Sierra, una Norina che farebbe rimbambire chiunque. Voce agile e leggera, luminosa negli acuti e con una certa acidità nel timbro, forse voluta per adattarsi al personaggio. Spavaldo Florian Sempey come Malatesta, una parte a misura della sua vocalità e del suo temperamento, non distante dal Figaro rossiniano con cui si è fatto conoscere. Un perdente su tutta la linea, così si presenta secondo Michieletto l’Ernesto di Lawrence Brownlee: berretto con la visiera all’indietro, canotta e giubbotto, zainetto e pochi spiccioli in tasca. Si capisce subito che il flirt tra lui e la sofisticata ragazza non durerà. Da perfetto belcantista il tenore americano dipana le sue ariose melodie con stile ineguagliabile e anche se rinuncia alle puntature i suoi interventi sono al solito di gran classe.

La direzione di Evelino Pidò non ha particolari raffinatezze, anzi in certi momenti denuncia un eccesso di energia. Qui non si parla di coprire i cantanti o di equilibrio con la fossa orchestrale o di proiezione delle voci giacché sono tutti microfonati per la diretta, ripresa con abbondanza di primi piani da Vincent Massip.

Don Pasquale

Gaetano Donizetti, Don Pasquale

★★★★☆

BandieraInglese  Click here for the English version

Milano, Teatro alla Scala, 3 aprile 2018

Don Pasquale ossia La vendetta della mamma morta

Don Pasquale, quart’ultima delle oltre settanta opere del prolifico compositore bergamasco, ha come modello l’opera buffa italiana con i suoi personaggi della Commedia dell’Arte: Don Pasquale è Pantalone, l’anziano destinato ad essere gabbato; Norina è Colombina, la giovane tutta pepe oggetto di attenzioni da parte del vecchio; il dottor Malatesta è Scapino, il furbo maneggione; Ernesto può essere considerato Pierrot, l’innamorato triste.

Ma l’opera di Donizetti è tutt’altro che una commedia di maschere: i personaggi sono in carne e ossa e hanno una psicologia a tutto tondo. Don Pasquale è l’opera che prelude al Falstaff e si lascia dietro Il barbiere di Siviglia. La musica di Donizetti mette spesso in discussione la sua collocazione nel genere buffo che forma il contenitore al cui interno c’è un elemento sentimentale, se non addirittura tragico.

Tutto ciò è stato compreso e intelligentemente evidenziato dal regista Davide Livermore che ambienta la vicenda all’epoca della Dolce Vita con la motoretta del film Vacanze Romane (Roman Holiday, 1953), lo spider del Sorpasso (The Easy Life, 1962). Non è la prima volta che il regista torinese utilizza il linguaggio cinematografico per le sue messe in scene. Il Ciro in Babilonia nello stile del cinema muto di inizio ‘900 fece scalpore a Pesaro nel 2012 e il suo Tamerlanovisto come un film russo degli anni ’20 ebbe un grande successo su queste stesse tavole del Teatro alla Scala l’anno scorso. Qui la giustificazione è ancora più plausibile: se l’opera buffa italiana ha come una continuazione nella commedia all’italiana cinematografica, ecco che i riferimenti ai film di quell’epoca sono tutt’altro che gratuiti.

Con la tecnica video infallibile della D-wok e gli strepitosi costumi di Gianluca Falaschi, lo spettacolo incanta lo spettatore per la soffusa e malinconica atmosfera felliniana che ricrea una Roma in bianco e nero magnificamente evocata dalle scenografie disegnate dallo stesso Livermore assieme al gruppo Giò Forma (Florian Boje, Cristiana Picco e Claudio Santucci). Il tetro palazzo di Don Pasquale, come tutti i monumenti romani che si intravedono, è ingabbiato in eterne impalcature, immagini della stazione con il suo via vai di viaggiatori fa da sfondo alla scena di Ernesto solo, una periferia con gasometri e tristi giostre per il finale. Il linguaggio cinematografico è utilizzato fin dalla ouverture: dei teli neri scendono e scorrono a evidenziare come in uno zoom la figura di Don Pasquale che dopo il funerale della madre (che si rivelerà il sesto personaggio muto della storia) rivive in flashback i momenti in cui la madre gli impediva di avvicinare delle donne. Assistiamo a tre momenti in cui da bambino, da adolescente e da adulto gli interventi della autoritaria genitrice fanno sì che il figlio resti celibe. Fino al momento della sua dipartita. Però dall’alto del suo ritratto, che spesso si anima a commentare con smorfie quanto accade in basso, la sua funzione castratrice continua anche post mortem e alla fine apparirà trionfante: neanche stavolta il figlio ha potuto liberarsi del suo giogo.

Come spesso accade nelle messe in scena di Livermore si ha una enorme ricchezza di idee sempre ben realizzate ma talora un po’ distraenti e lo spettacolo non reggerebbe se non fosse nelle mani di grandi interpreti. Ma qui ci sono e ognuno vi apporta la sua eccellenza.

Nel ruolo titolare Ambrogio Maestri, reduce dai tanti Falstaff che ha interpetato nella sua lunga carriera, compensa una emissione talora appannata con simpatia e sensibilità. La sua interpretazione tocca tutti gli stati d’animo del personaggio: il momento dell’ingenuo abbandono alla speranza, all’umiliazione, alla disperazione, alla delusione, come quando a causa del peso e della mole rimane incastrato a terra nel suo seggiolino della giostra mentre gli altri si librano in alto nelle giubilanti note del rondeau finale.

Rosa Feola è una Norina d’eccezione, di stile sopraffino, un registro acuto luminosissimo e una verve scenica impagabile messe in mostra da un allestimento che prevede anche una sfilata di moda allorché nella preparazione alla burla che colpirà Don Pasquale, i finti atteggiamenti che la ragazza dovrà assumere (fiera, mesta, semplicetta, zitella, bricconcella, collo torto, bocca stretta…) diventano modelli di alta sartoria.

Ernesto, qui vitellone inconcludente con il giornale delle corse sempre in mano e poca voglia di lavorare, trova in René Barbera un interprete che se non ha un timbro particolarmente grato, convince però nelle acrobazie vocali e nelle variazioni dove sfodera acuti con grande sicurezza e commuove nella struggente aria del second’atto con l’inusitato accompagnamento della tromba solista – e in scena appare la figura felliniana di un suonatore triste con il naso rosso da clown.

Mattia Ulivieri è un giovane Malatesta che all’ottima prestazione vocale affianca una presenza scenica di grande rilievo nelle numerose controscene comiche. Così è anche per il finto notaio di Andrea Porta, mariolo in motoretta e dalle mani leste a sgraffignare le suppelletili di casa.

Riccardo Chailly esalta i momenti malinconici della partitura con suoni trasparenti ottenuti sfoltendo l’orchestra del teatro, mentre talora i suoni forti coprono le voci dei cantanti. Nel complesso comunque ha fornito un’ottima prova che è stata salutata dal pubblico con oltre dieci minuti di applausi per tutti quanti gli artefici dello spettacolo.

Don Pasquale

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★★☆☆☆

Commedia all’italiana, anche troppo

Tra le ultime delle quasi settanta opere del prolifico Gaetano Donizetti (da cui l’ingeneroso epiteto di “Dozzinetti” con cui veniva storpiato il suo cognome), Don Pasquale debutta a Parigi il 3 gennaio 1843 al Théâtre-Italien con un cast eccezionale: Giulia Grisi (Norina), Luigi Lablache (Don Pasquale) e Antonio Tamburini (Dottor Malatesta) erano tra i cantanti più famosi dell’epoca. Ciò dimostra la stima e la celebrità che aveva raggiunto allora il compositore di Bergamo.

«La trama si rifaceva a un libretto di Angelo Anelli, musicato da Stefano Pavesi nel 1810 come Ser Marcantonio. Il librettista del Don Pasquale fu invece Giovanni Ruffini. Esule a Parigi perché mazziniano, Ruffini avrebbe poi scritto due romanzi di successo, Lorenzo Bernoni Il dottor Antonio. Ma proprio perché letterato di alto lignaggio si rifiutò di far figurare il proprio nome nel libretto, sul frontespizio del quale appare l’indicazione ‘Dramma buffo in tre atti di M. A.’. Le sigle M. A. rispondono al nome e al cognome di Michele Accursi, un altro esule mazziniano amico sia di Donizetti sia di Ruffini. Come che sia, il libretto del Don Pasquale può non essere un saggio di alta letteratura, ma ritmo serrato e teatralità lo rendono, operisticamente parlando, eccellente». (Rodolfo Celletti)

Atto primo. Don Pasquale è un anziano e ricco possidente il cui erede sarebbe il nipote Ernesto a patto che sposi una donna scelta dallo zio. Ma Ernesto ama Norina, giovane vedova molto graziosa e vivace, ma per nulla ricca. Si rifiuta quindi di obbedire allo zio, il quale decide di diseredarlo, e di prendere moglie egli stesso. Il dottor Malatesta, amico di Don Pasquale, ma ancor più di Ernesto e di Norina, ordisce un piano per aiutare i due giovani. Propone quindi in moglie a Don Pasquale la propria sorella Sofronia, magnificandone le doti. Don Pasquale acconsente con gioia e scaccia di casa Ernesto. Malatesta istruisce intanto Norina su come dovrà impersonare Sofronia che, dopo aver sposato Don Pasquale con una finta cerimonia di nozze, lo ridurrà alla disperazione.
Atto secondo. Ernesto, ignaro del piano di Malatesta è disperato e deciso a cercare rifugio in terre lontane. Giungono quindi Malatesta e Sofronia/Norina, di cui Don Pasquale s’invaghisce al primo istante. Dopo aver firmato un contratto di nozze stipulato da un falso notaio Don Pasquale dona a colei che crede la propria consorte la metà dei propri averi. A questo punto Sofronia, fino allora timidissima e docile, così come da istruzioni di Malatesta muta immediatamente atteggiamento, diventando arrogante, civetta e spendacciona e terrorizzando il povero Don Pasquale.
Atto terzo. Sofronia accentua le proprie bizze: arriva persino a schiaffeggiare Don Pasquale e a fargli credere d’avere un amante. Esasperato, Don Pasquale chiede soccorso a Malatesta, il quale svela ad Ernesto il suo piano. Ernesto, senza farsi riconoscere dallo zio, dovrà ora fingere d’essere l’amante di Sofronia. Nella notte, in un boschetto nei pressi della villa di Don Pasquale, giunge Ernesto che intona una serenata per Sofronia, che ricambia con frasi d’amore. Don Pasquale, esasperato, dichiara alla donna che la scaccerà e consentitrà al nipote di sposare Norina. A questo punto viene svelato il complotto ordito ai suoi danni e Don Pasquale, felice di apprendere di non essere in alcun modo legato alla diabolica Sofronia, perdona tutti e acconsente alle nozze tra Ernesto e Norina.

Già dalle prime battute della sinfonia si capiscono il programma e il tono di questo dramma buffo: tutta l’orchestra si scatena in allegro fortissimo per una rapida scaletta discendente di crome puntate per poi tacere in una pausa coronata da cui il violoncello solo emerge con lo struggente tema della serenata di Ernesto del terzo atto. Ecco: comicità e sentimento, come nell’Elisir d’amore, sono i due poli tra cui si dipana il prezioso melodismo del compositore bergamasco. La figura del gabbato Don Pasquale da macchietta buffa trascolora in personaggio malinconico che ci ricorda la difficoltà d’amare, soprattutto a una certa età.

Non va esattamente così in questa produzione del MET del 2010. Il protagonista del titolo, un John del Carlo in fine carriera, parte subito male: il suo primo intervento è parlato, invece che cantato, e così sarà per buona parte dell’opera. Nella finzione teatrale dare la parte di un settantenne a un settantenne non è sempre una buona idea. L’interpretazione del personaggio da parte del basso americano rientra in una tradizione che si pensava superata, accattivante scenicamente per il facile pubblico, ma vocalmente improponibile. Unico momento felicemente risolto è il duetto con il Malatesta del sardonico e vivace Mariusz Kwiecień. Entrambi non italiani, riescono però a dipanare egregiamente la fulminea mitragliata di parole del librettista Giovanni Ruffini.

Anche la Netrebko si presta al gioco. È la prima volta in un ruolo così vivace dopo aver cantato l’altra eroina tragica di Donizetti, Lucia. Il soprano russo gioca soprattutto la carta dell’indubbia avvenenza e della presenza scenica: fa le capriole, si agita, smania, ma questa non è la sua parte. La voce è anche troppo sontuosa e non ha la leggerezza richiesta dal ruolo di Norina. Ma la sua bravura e simpatia sono comunque innegabili e si conferma la beniamina del teatro newyorkese.

Perfetto nello stile e nel ruolo è Matthew Polenzani, vero “tenore di grazia” il suo Ernesto è quanto di meglio ci si possa aspettare in quanto a fraseggio, dolcezza del canto, legato, bellezza del timbro. A lui sono delegati i momenti più lirici della partitura.

James Levine dirige con piglio baldanzoso l’orchestra. La scenografia “italiana” con palazzi decadenti, panni stesi e vasi di basilico sui terrazzi strappa applausi a scena aperta. Se è così che vogliono vederli gli americani perché deluderli, deve aver pensato l’ottantenne regista austriaco Otto Schenk autore della messa in scena.

L’italiana in Algeri

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★★★☆☆

Femminismo ante litteram nell’opera buffa di Rossini

Se si osserva una cronologia della storia del melodramma si noterà che il periodo 1812-1823 è dominato da una sola figura, quella di Rossini, che in questo lasso di tempo rappresenta oltre trenta lavori (tre all’anno!), da L’inganno felice alla Semiramide.

L’italiana in Algeri è uno di quei capolavori, scritto su un libretto di Angelo Anelli che nel 1808 era stato messo in musica da Luigi Mosca per un’opera dallo stesso titolo e adattato ulteriormente da Gaetano Rossi per l’opera buffa di Rossini andata in scena a Venezia nel maggio 1813 con grande successo.

Atto primo. Il Bey di Algeri, Mustafà, annoiato dalla fedeltà docile e remissiva delle donne del suo paese, è pronto a calpestare leggi e costumi per un capriccio: ottenere i favori di una femmina indomita e di ardua conquista. E se è vero quanto ha sentito narrare da Lindoro, un marinaio italiano caduto tre mesi prima in schiavitù, la donna dei suoi sogni non può che essere, appunto, italiana. Non esita perciò a ripudiare la moglie Elvira, che inutilmente e con dolorosa rassegnazione protesta per il suo amore non corrisposto: Mustafà la offre in sposa a Lindoro, i cui pensieri sono tuttavia teneramente occupati da un amore lasciato in patria. Ordina poi ad Haly, capo dei suoi corsari, di procurargli senza meno un bell’esemplare di femmina italiana entro sei giorni (e il palo punirà un eventuale insuccesso). Lindoro, sebbene per nulla entusiasta della proposta di farsi carico del bel volto e del bel cuore di Elvira, nonostante la cospicua dote che li accompagna, sembra davvero costretto a sottomettersi al volere di Mustafà. La burrasca fa naufragare un vascello sulla spiaggia di Algeri. Haly, con i suoi corsari, fa preda delle merci e cattura i passeggeri imbarcati. Tra di loro c’è la triste ma splendida Isabella, l’innamorata di Lindoro partita da Livorno alla sua ricerca insieme a Taddeo, suo innamorato cavalier servente. Haly scorge immediatamente in lei la felice soluzione del suo problema: la bella italiana corrisponde appieno ai requisiti espressi da Mustafà per la nuova favorita del suo serraglio. Nel conoscere il destino che la attende, Isabella non si perde d’animo, ma si destreggia disinvoltamente tra le allarmanti parole di Haly e gli smarrimenti amorosi di Taddeo. Per dominare gli eventi, non le mancano certo il coraggio né le armi della più squisita seduzione femminile: innanzitutto, convince Taddeo a fingersi suo zio, per proteggerla. Frattanto, Mustafà sta offrendo a Lindoro la possibilità di ritornare in patria con una nave veneziana purché conduca con sé Elvira; lo interrompe Haly, raggiante per la bella notizia che reca al suo padrone. Mustafà, entusiasta, si fa prendere dalla frenesia: ordina di affrettare la partenza della moglie e di accogliere col massimo fasto l’ospite bramata, proponendosi tuttavia di trattarla con l’atteggiamento distaccato di chi sa bene come avvilire l’orgoglio femminile. Elvira desidera congedarsi dal marito con un ultimo addio, né può consolarla la facile messe di mariti e di amanti italiani che Lindoro, ansioso di partire, le prospetta. Nella più ricca sala del suo palazzo, Mustafà riceve Isabella. Maestra di dissimulazione, con la sua seducente sicurezza essa riesce a colpirlo direttamente al cuore. Ottiene così, innanzitutto, che Taddeo, altrimenti destinato al palo, abbia salva la vita. Poi, quando Elvira e Lindoro si presentano per l’addio a Mustafà, Isabella ritrova insperatamente il suo amato. I due, senza tradirsi, si riconoscono all’istante tra lo sconcerto dei presenti, che ne avvertono il reciproco, inconfessabile stupore. Isabella, appreso il destino dei nuovi arrivati, interviene perentoria sul Bey: che abbandoni pure ogni idea di conquistarla, prima di aver rinunciato ai suoi costumi barbari. Si astenga dunque dal congedare la moglie e ponga lo schiavo Lindoro al suo diretto e immediato servizio. Irretito nelle maglie d’amore, Mustafà non può che cedere ancora, mentre tutti appaiono frastornati dal succedersi in lui di mutamenti tanto repentini.
Atto secondo. Mentre Elvira, Zulma ed Haly commentano la scaltrezza di cui Isabella ha dato prova nel raggirare a suo piacimento Mustafà, questi compare per chiedere alle due donne di annunciare all’Italiana una sua visita. Incredulo verso chi lo mette in guardia dalle dolci menzogne di Isabella, Mustafà è sicuro di poterla conquistare facendo leva sulla sua ambizione e con l’aiuto del supposto zio. Intanto, Isabella si incontra con Lindoro: accertato il disinteresse di lui per Elvira, gli espone l’idea di una fuga con la stessa nave che avrebbe dovuto condurre l’amato in Italia insieme alla moglie ripudiata del Bey, e rinvia ad un successivo appuntamento in un boschetto la spiegazione dei dettagli. Nel frattempo, per compiacere ad Isabella ed insieme ottenere l’appoggio di Taddeo nell’opera di conquista della presunta nipote, Mustafà concede il titolo di «Gran Kaimakan» a Taddeo, che viene perciò abbigliato come si conviene ad un luogotenente musulmano. L’anima semplice non si trova davvero a suo agio nelle vesti e nel ruolo che Mustafà gli impone; tuttavia, non può che far buon viso a cattivo gioco e rassegnarsi al pensiero di abbandonare nelle braccia di un altro l’amata, da cui si ritiene felicemente corrisposto. Isabella, nei suoi appartamenti, riceve da Elvira l’annuncio dell’imminente visita di Mustafà; fingendosi sconcertata, istruisce la moglie del Bey sull’arte di trattare gli uomini per assoggettarli al proprio volere. Intanto, mentre attende pieno d’ardore l’incontro con la bella straniera, Mustafà prende accordi con Taddeo-Kaimakan perché, dopo i convenevoli, egli si allontani discretamente al segnale di uno starnuto. Ma ai ripetuti «eccì» di Mustafà, Taddeo finge di non intendere: Isabella e Lindoro ridono assieme della burla, mentre il Bey, costretto a trattare con il dovuto riguardo Elvira, come impone Isabella, inutilmente freme e protesta, sentendosi canzonato. Il compiacimento per il giusto scorno di Mustafà è generale e coinvolge persino il fedelissimo Haly. Ottenuto l’appoggio dell’ignaro Taddeo, Lindoro mette in opera un’ulteriore burla a spese di Mustafà, comunicandogli che anche Isabella spasima d’amore per lui e per questo desidera elevarlo alla dignità di suo «Pappataci», titolo concesso in Italia solo agli amanti esemplari, cui il bel sesso non viene mai a noia e che perciò altro non fanno se non dormire, mangiare e bere fra carezze ed amori. Intanto Zulma, schiava di Elvira, commenta con Haly le astuzie di Isabella, che per preparare la festa al Bey ha fatto distribuire numerose bottiglie a tutti i Mori della guardia e agli Eunuchi. E Lindoro spiega a Taddeo che Isabella intende favorire la fuga di tutti gli Italiani prigionieri del Bey. Alcuni saranno perciò abbigliati da Pappataci, così da rendere verosimile la cerimonia in onore di Mustafà. Altri sopraggiungono in quel momento, pronti a tutto per riconquistare la libertà, e Isabella infiamma con calde parole lo spirito patriottico di tutti i presenti. Si dà infine principio alla cerimonia: un coro di Pappataci avanza, e veste Mustafà con gli abiti e la parrucca che convengono al grado eletto della carica appena conferitagli da Isabella. Il rito d’iniziazione prevede un giuramento solenne di totale immobilità e silenzio: il nuovo Pappataci dovrà solo mangiare, bere e tacere, qualunque cosa accada attorno a lui. E Isabella mette subito alla prova il candidato, scambiando parole d’amore con Lindoro mentre il Bey, sotto l’occhio vigile di Taddeo, si abbuffa a capo chino. Ed ecco che arriva il vascello della salvezza: Isabella invita Lindoro a seguirla per salpare insieme, a coronare i sogni d’amore e di patria; Taddeo solo ora capisce di esser stato anch’egli burlato, di non essere lui il beneamato di Isabella. Cerca allora di scuotere Pappataci dal torpore, rivelandogli il tradimento da entrambi subìto. Ma Mustafà ha imparato troppo bene la lezione per non mostrare la più imperturbabile indifferenza alle parole di Taddeo, a cui non rimane che scegliere fra il palo, che senza meno lo attende se rimarrà in Algeri, e la prospettiva di uno spiacevole ruolo di reggimoccolo sulla nave che lo ricondurrà in Italia insieme a Lindoro e Isabella. Saggiamente, il cicisbeo deluso opta per la seconda soluzione. E quando finalmente Elvira, Zulma ed Haly riescono a scuotere Mustafà dall’indolenza, l’ordine d’allarme gridato ad Eunuchi e Mori si rivela inefficace: grazie alla previdenza di Isabella, sono tutti quanti ubriachi. Al povero Bey non resta che farsi perdonare dalla fedele sposa, già pronta ad accoglierlo a braccia aperte.

Basata su un fatto di cronaca vera (nel 1805 la signora milanese Antonietta Frapolli, rapita dai corsari che infestavano allora il mare Mediterraneo, era stata portata nell’harem del bey di Algeri prima di poter ritornare in Italia) la storia dà modo al compositore pesarese per scrivere uno dei momenti più comici del teatro musicale. «Apoteosi del nonsense fonetico trascinato nell’assoluto delirio ludico, esso cadde sulle scene del [teatro] San Benedetto come meteorite proveniente da galassie sconosciute, producendo un vero trauma nelle facoltà percettive degli spettatori» (Giovanni Carli Ballola). Ne è testimone oculare Stendhal: «À Venise à la fin de ce finale […] les spectateurs ne pouvaient plus respirer, et s’essuyaient les yeux. […] tout le monde s’écriait en mourant de rire: Sublime! divin!» (Vie de Rossini).

Non essendo stati presenti a quelle recite, ci dobbiamo accontentare di una ripresa moderna dell’opera, come questa a suo modo storica della Metropolitan Opera del 1986 con grandi interpreti del momento. Sotto la bacchetta di un pimpante James Levine troviamo infatti la Isabella di Marilyn Horne e il Mustafà di Paolo Montarsolo. La messa in scena, tutta in bianco e crema come i costumi, è di Jean-Pierre Ponnelle, il meglio della tradizione. Dal coro di eunuchi agucchianti al “naufragio” della nave che porta Isabella agli spaghetti del finale, la regia è piena di momenti buffi a cui rispondono con candido entusiasmo gli spettatori del MET, anche se Ponnelle non arriva al delirio comico della regia di Dario Fo sei anni dopo al Rossini Opera Festival.

Il grande basso Paolo Montarsolo dà voce e carattere a Mustafà, mussulmano gaudente e di larghe vedute religiose («Altra legge non ho che il mio capriccio» risponde a chi gli obietta che Maometto non permette i matrimoni misti) e dalla impalatura facile. È anche l’unico italiano, e si sente, di un cast tutto americano di livello comunque più che accettabile, di cui ricordiamo almeno il Lindoro di Douglas Ahlstedt, il Taddeo di Allan Monk e lo Haly di Spiro Malas.

Ma protagonista della serata è ovviamente Marilyn Horne. Dal momento in cui appare in scena in completo tartan Black Watch, cappello di paglia e guanti di pizzo, anche se non tutto è perfetto nella sua prestazione vocale, il pubblico rimane in visibilio. Come dice la diva stessa nell’intervista allegata ai dischi, in lei c’è sempre stato un po’ del carattere di Isabella e la sua interpretazione non lo fa dubitare un momento.

Immagine in formato 4:3 su due dischi e tre tracce audio.