foto © Studio Amati Bacciardi
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Gioachino Rossini, Moïse et Pharaon ou Le passage de la Mer Rouge
★★★★☆
Pesaro, Vitrifrigo Arena, 6 agosto 2021
Il colossal biblico di Rossini al ROF nella ripresa post-lockdown
Portato in scena nel 1997 da Graham Vick, recentemente scomparso, inaugurerà ufficialmente il 9 agosto la XLII edizione del Rossini Opera Festival Moïse et Pharaon, il rifacimento francese del Mosè in Egitto che ancora Vick aveva prodotto qui esattamente dieci anni fa, una produzione che allora aveva fatto scalpore e scandalizzato. Nessuno scandalo invece per questo spettacolo presentato ora in anteprima per la stampa in cui nei panni di regista, scenografo e costumista è quello stesso Pier Luigi Pizzi che aveva prodotto la versione originale napoletana nel lontano 1985, sempre qui a Pesaro.
Ed è un salto nel tempo quello che ci fa fare il decano del teatro italiano: quello che vediamo in scena, pur con tutta la sua eleganza e perfezione formale, è uno spettacolo che avremmo potuto vedere cinquant’anni fa. Non che la cosa dispiaccia, ma di certo non è una lettura contemporanea: le problematiche suggerite dal libretto non sono prese in considerazione, la direzione dei cantanti/attori è quanto mai tradizionale, le stilizzate scenografie sono disposte in maniera rigorosamente simmetrica, così come le masse corali e i solisti nei concertati e anche il balletto, inevitabile in una versione per Parigi, rimane il solito momento avulso dalla vicenda. Vero è che ben pochi hanno cercato di inserire l’intervento coreografico nella drammaturgia dell’opera: vengono in mente i nomi di Graham Vick e Damiano Michieletto nei loro Guillaume Tell, rispettivamente nel 2013 a Pesaro e nel 2015 a Londra, o di Valentina Carrasco in Les vêpres siciliennes (Roma, 2019). Per non parlare dell’approccio al problema risolto da Bob Wilson in maniera del tutto radicale e spiazzante nel suo Le trouvère (Parma, 2018).
Qui abbiamo una coppia di splendidi ballerini – i nomi non compaiono sulla locandina – che con i loro corpi statuari eseguono in maniera impeccabile quanto ideato da Gheorghe Iancu, una coreografia che impegna altri otto danzatori maschi. L’eleganza dei movimenti e la possibilità di ascoltare una musica raramente proposta non sono messi in discussione, ma si può discutere sull’opportunità di preservare in questo modo quanto voluto dalle abitudini dei frequentatori dei teatri parigini dell’epoca.
Dove Pizzi si adegua invece alla modernità è negli effetti teatrali e scenografici previsti dal Moïse et pharaon. Sul programma di sala M. Elizabeth C. Bartlet ci informa con grande dettaglio sulle circostanze della prima parigina del 26 marzo 1827, una produzione che allora fu definita «epocale, rivoluzionaria», come scrissero enfaticamente le cronache del tempo, una sfida alla credibilità dell’opera del vecchio regime e alle limitazioni del mezzo teatrale. Uno spettacolo, insomma, che preludeva al genere grand opéra degli anni 1830-50. Alle opulenti scenografie e ai diorami dipinti di Pierre-Luc-Charles Cicéri si aggiungevano grandiosi effetti speciali e un’innovativa luministica per rappresentare l’arbusto che prende fuoco, l’arcobaleno, l’oscurità e il ritorno della luce, la pioggia di fuoco, le acque del mare che si aprono e si richiudono… Oggi Pizzi ha a disposizione la video grafica, che risolve facilmente i problemi posti allora dalle macchine, dalle funi, dalle candele e dai dipinti trompe-l’œil. Ecco quindi sul fondo un gigantesco schermo su cui vengono proiettate immagini in movimento – anche qui la locandina non cita gli autori – efficaci, ma niente più. Sia che si tratti dell’arcobaleno (qui un arco tridimensionale), di bolidi infuocati che cadono sulla terra, dell’eclisse solare e della conseguente oscurità, di una piramide volteggiante nell’aria che poi si disgrega, delle acque prima calme che si ritirano al passaggio degli ebrei e poi si richiudono tempestose sugli egizi.
I sontuosi costumi di Hippolyte Lecomte della prima parigina furono modellati sui ritrovamenti studiati da Champollion, curatore dell’ala egizia del Museo del Louvre che sarebbe stata aperta proprio quell’anno. Qui Pizzi disegna modelli più semplici ma ricchi nei dettagli dorati, nelle stoffe e nelle tinte per gli egizi – blu, viola, fuschsia – mentre per gli ebrei la tavolozza, oltre al bianco e al nero, si limita ai colori della terra.
Nella estetizzante sequenza di tableaux vivants offerti alla vista manca però il dramma: i personaggi, così come sono rappresentati, rimangono esangui e bidimensionali, le ambiguità dei rapporti sono neglette, le tensioni tra le etnie latitanti. Dei finali solo l’ultimo smuove un po’ l’emozione del pubblico con quelle silhouettes nere sul fondo bianco di un nulla inquietante. Ma fa pensare il silenzio glaciale che aveva accolto la preghiera di poco prima, «Des cieux où tu résides», versione in francese di «Dal tuo stellato soglio»: pubblico soggiogato dall’emozione o non toccato dal pathos del momento. Vorrei pensare alla prima ipotesi.
Momento di gloria per la magnifica orchestra della RAI: suono pieno ma pulito, interventi solistici impeccabili messi in evidenza dal direttore Giacomo Sagripanti che privilegia una lettura analitica della partitura, forse tralasciando la visione d’insieme di un’opera che è poi la terz’ultima del catalogo rossiniano e che del Guillaume Tell che seguirà due anni dopo ha la profondità d’intenti e la tensione drammatica, qui non sempre espressa. La forza del teatro di Rossini non è del tutto evidente, è più oratorio sacro – com’era in origine il Mosé in Egitto – che grand opéra. Rimane comunque la bellezza dei numeri musicali in cui si cimenta un cast valido seppur non omogeneo. A dispetto dei nomi nel titolo, la gloria della serata va alle voci femminili, prima fra tutte alla Sinaïde di Vasilisa Beržanskaia, che nell’unico suo vero momento solistico, l’aria «Ah, d’une tendre mère» introdotta dal flauto e con pertichini del coro e del figlio Aménophis, incanta il pubblico presente con un dispiegamento di tecnica e potenza vocale sorprendente. Lo stesso pubblico poco prima era stato abbagliato più che dalla luce che irrompe in scena dopo l’oscurità (e qui è d’obbligo il riferimento all’analogo effetto nella Creazione di Haydn), dal suo folgorante acuto. Anche Eleonora Buratto, eccellente interprete mozartiana, sfodera una voce di grande proiezione e un’ampia dinamica con cui delineare la sofferta Anaï, un’altra donna divisa tra l’amore profano e quello divino. Il Moïse di Roberto Tagliavini è autorevole e convincente quanto può essere la parte scolpita nella pietra dell’interlocutore con la divinità – una divinità la quale obbedisce prontamente alle sue preghiere inviando calamità naturali variamente assortite. Erwin Schrott ancora una volta è… Erwin Schrott: dove tutti utilizzano movimenti stilizzati, come Pharaon gesticola e fa smorfie adatte a un film muto. Intatta rimane la potenza sonora e la magnificenza del timbro, ma la definizione del personaggio, che fu creato per il grande Nicola Levasseur, si perde nel grottesco. Non pienamente realizzato Aménophis, Adolphe Nourrit alla prima parigina, quindi ruolo vocalmente impegnativo che Andrew Owens risolve con qualche difficoltà e una dizione non del tutto ineccepibile. Particolarmente apprezzabile l’Éliézer di Aleksej Tatarincev e intensa la Marie di Monica Bacelli. Nicolò Donini (Osiride e Voix mystérieuse) e Matteo Roma (Aufide) completano degnamente il cast. Molto bene il coro del Teatro Ventidio Basso diretto dal maestro Giovanni Farina.
Grandi applausi per tutti da un pubblico forse un po’ indulgente, ma è tanta la voglia di ritornare alla normalità e sedersi in una sala, pur distanziati e con le mascherine e il controllo del green pass all’ingresso. Una cosa che desideravamo da molto tempo.
⸪