Guillaume Tell

Gioachino Rossini, Guillaume Tell

Pesaro, Adriatic Arena, 14 agosto 2013

(registrazione video)

★★★★☆

Il Novecento di Rossini

Rappresentata nel 1829 a Parigi dove il compositore pesarese aveva scelto di trasferirsi cinque anni prima, l’ultima opera di Rossini corona una strabiliante carriera e getta un ponte verso la musica che sarebbe venuta dopo. L’opera si affianca a quelle di Meyerbeer e Halévy nel definire un nuovo genere lirico, il grand opéra, ma anche quello del melodramma tout-court che porterà a Wagner da una parte e a Verdi dall’altra. Dopo il Guillaume Tell Rossini non scriverà più una nota per il teatro e nei quarant’anni che lo separano dalla morte suo unico impegno musicale sarà quello di cesellare i Péchés de vieillesse e mettere mano a quella sua «sacrée musique» che è la Petite messe solennelle.

I ricchi in completi bianchi e paglietta che sembrano usciti da un quadro di Renoir e i poveri invece da quello di Pellizza da Volpedo ci danno subito le coordinate spazio-temporali in cui Graham Vick ambienta la vicenda. Siamo infatti ai primi del Novecento, quando ancora gli ideali e le illusioni di libertà e di riscatto sociale non avevano conosciuto la tirannide liberticida dei regimi totalitari. I riflettori e le macchine da presa trasformano la scena in un set cinematografico in cui si riprende l’nvasione asburgica della pacifica Svizzera. Tutt’altro che divertissement, il lungo momento dei ballabili è perfettamente inserito nella drammaturgia per illustrare le umiliazioni cui è soggetto il popolo oppresso. È questo che ha turbato, più che il pugno su sfondo rosso del sipario, il «pubblico elegante e sofisticato della prima».

Alla guida dell’orchestra bolognese Mariotti si distingue subito per i colori timbrici che dà a quella meravigliosa ouverture, così diversa da tutte le altre che Rossini aveva scritto nella sua lunga carriera. Il tema in andante del violoncello in dialogo con gli altri quattro si sviluppa «dolce» per una ventina di battute allorché un borbottio lontano di tuoni accennato dai timpani porta a un episodio più mosso in cui, su una cellula nervosa degli archi, si sentono i goccioloni, realizzati dalle note staccate dei legni, dell’imminente temporale. Un breve crescendo porta all’intervento di tutta l’orchestra per lo scatenamento degli elementi seguito dal tema pastorale che prelude alla fanfara che annuncia la cavalcata dell’“arrivano i nostri” che conclude con brillantezza questa spettacolare sinfonia. Nel prosieguo dell’opera la piena sintonia tra cantanti e orchestra è soltanto uno dei grandi meriti della direzione di Mariotti.

La compagine di canto ha come punta di diamante l’Arnoldo di Juan Diego Flórez che affronta qui per la prima volta il ruolo di cui dà un’interpretazione elegiaca retta da una musicalità e un lirismo assoluti, ma anche grande espressività. Momento di alto coinvolgimento emotivo è quello in cui Arnold canta «Asile héréditaire» (rivedendosi da bambino col padre in un filmino in bianco e nero) che il tenore peruviano dipana con una eccezionale omogeneità di registri.

Guillaume di imponente ma sensibile figura quello di Nicola Alaimo, padre e marito affettuoso ed eroe malgré lui. Molto espressivo e ben cantato il Gesler di Luca Tittoto. Marina Rebeka dal bel timbro di voce ed elegante negli abiti primi Novecento di Paul Brown, ha dato corpo a una Mathilde dalla aristocratica bellezza. Jemmy molto convincente quello di Amanda Forsyte. Eccellenti anche gli altri interpreti. Basti pensare che nel minuscolo ruolo del pescatore Ruodi c’è nientemeno che Celso Albelo

Lo spettacolo con la sua complessità di scene e controscene ci guadagna nella ripresa televisiva con le angolazione e i primi piani ripresi da Davide Mancini con la sua solita professionalità.

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