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Guillaume Tell

Gioachino Rossini, Guillaume Tell

Pesaro, Adriatic Arena, 14 agosto 2013

(registrazione video)

★★★★☆

Il Novecento di Rossini

Rappresentata nel 1829 a Parigi dove il compositore pesarese aveva scelto di trasferirsi cinque anni prima, l’ultima opera di Rossini corona una strabiliante carriera e getta un ponte verso la musica che sarebbe venuta dopo. L’opera si affianca a quelle di Meyerbeer e Halévy nel definire un nuovo genere lirico, il grand opéra, ma anche quello del melodramma tout-court che porterà a Wagner da una parte e a Verdi dall’altra. Dopo il Guillaume Tell Rossini non scriverà più una nota per il teatro e nei quarant’anni che lo separano dalla morte suo unico impegno musicale sarà quello di cesellare i Péchés de vieillesse e mettere mano a quella sua «sacrée musique» che è la Petite messe solennelle.

I ricchi in completi bianchi e paglietta che sembrano usciti da un quadro di Renoir e i poveri invece da quello di Pellizza da Volpedo ci danno subito le coordinate spazio-temporali in cui Graham Vick ambienta la vicenda. Siamo infatti ai primi del Novecento, quando ancora gli ideali e le illusioni di libertà e di riscatto sociale non avevano conosciuto la tirannide liberticida dei regimi totalitari. I riflettori e le macchine da presa trasformano la scena in un set cinematografico in cui si riprende l’nvasione asburgica della pacifica Svizzera. Tutt’altro che divertissement, il lungo momento dei ballabili è perfettamente inserito nella drammaturgia per illustrare le umiliazioni cui è soggetto il popolo oppresso. È questo che ha turbato, più che il pugno su sfondo rosso del sipario, il «pubblico elegante e sofisticato della prima».

Alla guida dell’orchestra bolognese Mariotti si distingue subito per i colori timbrici che dà a quella meravigliosa ouverture, così diversa da tutte le altre che Rossini aveva scritto nella sua lunga carriera. Il tema in andante del violoncello in dialogo con gli altri quattro si sviluppa «dolce» per una ventina di battute allorché un borbottio lontano di tuoni accennato dai timpani porta a un episodio più mosso in cui, su una cellula nervosa degli archi, si sentono i goccioloni, realizzati dalle note staccate dei legni, dell’imminente temporale. Un breve crescendo porta all’intervento di tutta l’orchestra per lo scatenamento degli elementi seguito dal tema pastorale che prelude alla fanfara che annuncia la cavalcata dell’“arrivano i nostri” che conclude con brillantezza questa spettacolare sinfonia. Nel prosieguo dell’opera la piena sintonia tra cantanti e orchestra è soltanto uno dei grandi meriti della direzione di Mariotti.

La compagine di canto ha come punta di diamante l’Arnoldo di Juan Diego Flórez che affronta qui per la prima volta il ruolo di cui dà un’interpretazione elegiaca retta da una musicalità e un lirismo assoluti, ma anche grande espressività. Momento di alto coinvolgimento emotivo è quello in cui Arnold canta «Asile héréditaire» (rivedendosi da bambino col padre in un filmino in bianco e nero) che il tenore peruviano dipana con una eccezionale omogeneità di registri.

Guillaume di imponente ma sensibile figura quello di Nicola Alaimo, padre e marito affettuoso ed eroe malgré lui. Molto espressivo e ben cantato il Gesler di Luca Tittoto. Marina Rebeka dal bel timbro di voce ed elegante negli abiti primi Novecento di Paul Brown, ha dato corpo a una Mathilde dalla aristocratica bellezza. Jemmy molto convincente quello di Amanda Forsyte. Eccellenti anche gli altri interpreti. Basti pensare che nel minuscolo ruolo del pescatore Ruodi c’è nientemeno che Celso Albelo

Lo spettacolo con la sua complessità di scene e controscene ci guadagna nella ripresa televisiva con le angolazione e i primi piani ripresi da Davide Mancini con la sua solita professionalità.

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Guillaume Tell

Gioachino Rossini, Guillaume Tell

★★★☆☆

Orange, Théâtre Antique, 12 luglio 2019

Rossini au grand air

Ci sono delle opere che, essendo ambientate principalmente all’aperto e con grandi masse corali, non dico che si prestino, ma soffrono meno nella rappresentazione en plein air dei festival estivi, e il Guillaume Tell sarebbe una di queste. Ma la concentrazione e l’acustica che offre una sala di teatro sono tutt’altra cosa – per non parlare della lunghezza, con il pubblico costretto a stare quattro ore seduto su gradoni di pietra.

Alle Chorégies d’Orange il direttore della manifestazione, Jean-Louis Grinda, ha programmato quest’anno, a 190 anni dal suo debutto parigino, l’impegnativo ultimo capolavoro di Rossini. Impegnativo per voci, orchestra e messa in scena. Per quest’ultima Grinda, nelle vesti di regista, ha giocato al risparmio sia per idee registiche che sceniche: non si sa se per problemi di budget (una sola serata) o per stringenti costrizioni all’utilizzo della particolare location del Théâtre Antique o per una voluta scelta registica, fatto sta che l’apparato scenografico è limitato a sole proiezioni, efficaci ma non esaltanti, sul muro di scena colonizzato da rondini che hanno accompagnato coi loro garriti le note della sinfonia. Ecco quindi un gioco d’ombre per la «sombre forêt», le increspature delle acque prima placide e poi turbolente del lago dei Quattro Cantoni e infine il paesaggio di montagna, un «horizon» non proprio «immense», del più bel finale d’opera di tutti i tempi. All’inizio era comparsa una carta della Svizzera e per la scena di Gesler al terzo atto un muro di castello coi suoi stemmi. Tutto realizzato in videografica. Unici elementi tangibili sono la strana barca con cui arrivano Rodolphe e i soldati alla fine del primo atto e la striscia di terra arata da Tell nel cui solco alla fine una bambina getterà dei semi – i semi della libertà. Quest’ultima è pressoché l’unica idea di una produzione che si affida a una tradizione delle più consolidate:  mela (enorme) e balestra comprese e pure il cavallo su cui entra in scena Hedwige. Una piattaforma rotante e leggermente basculante è utilizzata con una tale parsimonia che alla fine risulta quasi inutile. C’è chi ha definito quella di Grinda una mise en place più che una mise en scène

Con copiosi tagli la durata dello spettacolo effettivo è portata a meno di quattro ore, intervallo compreso, quasi due ore in meno di quella del ’95 di Gelmetti/Pizzi a Pesaro. L’Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo, a parte qualche suono falso dei fiati, risponde correttamente alla guida di Gianluca Capuano, direttore dell’ensemble monegasco Les musiciens du Prince e perfettamente a suo agio nel repertorio barocco (da Monteverdi a Händel), in quello settecentesco (Gluck, Mozart) e in quello rossiniano e donizettiano. Con un utilizzo giudizioso dei volumi sonori (per non coprire le voci dei cantanti non microfonati) e delle agogiche, il suo Guillaume Tell non sarà tra i più trascinanti, ma l’orchestra è sempre in ottimo equilibrio con la scena e gli effetti timbrici ben riusciti – compatibilmente con l’acustica.

Il cast comprende interpreti ben collaudati che affrontano ancora una volta parti a loro ben note: è il caso di Nicola Alaimo, Guglielmo Tell imponente, dalla solida linea vocale che sa però piegarsi alla morbidezza nella scena col figlio che precede la sua prova di tiratore. Anche Nicolas Courjal ritorna nel ruolo di Gesler e come sempre incanta per il meraviglioso timbro con cui scolpisce la parola e per la magnetica presenza scenica. Di Celso Albelo (Arnold) ancora una volta si ammira lo stile ineccepibile e la linea di canto seducente che in «Asile héréditaire» desta l’entusiasmo degli oltre seimila spettatori presenti. Ruodi trova in Cyrille Dubois il massimo della liricità, un pescatore forse di eccessiva raffinatezza e leggerezza. Il comparto femminile si affida all’esperienza di Annick Massis, una Mathilde anche lei osannata dal pubblico, e alla freschezza e vivacità di Jodie Devos, credibile e adorabile Jemmy. Nora Gubisch è una convincente Hedwige così come lo sono gli interpreti dei ruoli secondari: Nicolas Cavallier (Walter Fürst), Philippe Kahn (Melchthal),  Philippe Do (Rodolfe), Julien Veronese (Leuthold). I cori riuniti di Toulouse e Monte-Carlo offrono una bella prova di coesione con un momento di gloria nel finale. I pochi balletti sfuggiti ai tagli hanno le coreografie non esaltanti di Eugénie Andrin eseguite dal Ballet de l’Opéra Grand Avignon.

In definitiva uno spettacolo piacevole, ma per le bellurie belcantistiche ci si dovrà chiudere in un teatro come si deve la prossima volta.

 

 

 

 

 

Guillaume Tell

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Gioachino Rossini, Guillaume Tell

★★★★★

Londra, Royal Opera House, 5 luglio 2015

(live streaming)

Quarant’anni dopo Chéreau, Michieletto pone una nuova pietra miliare nella messa in scena di un’opera

Se non la beatificazione almeno un monumento a Damiano Michieletto e ai registi che come lui ancora credono che l’opera lirica sia una forma d’arte del nostro tempo bisognerà pur erigerlo. Se è uno specchio del presente l’opera deve assumere delle forme nuove, diverse dalle mummificate riproposizioni che invece la condannano all’estinzione.

Con questo allestimento alla Royal Opera House di Londra, Michieletto riscrive la storia della messa in scena dell’opera lirica con uno spettacolo che è tra i più sconvolgenti degli ultimi anni per bellezza, intelligenza, intensità e pathos. Tutti gli altri spettacoli che verranno dopo questo dovranno tenerne conto.

L’ultima opera di Rossini, che è profondamente diversa da tutte le altre sue, nella visione di Michieletto perde i connotati folkloristici della Svizzera da cartolina per affrontare i temi della violenza e della guerra. Il regista ambienta la vicenda in un generico paese occupato da forze straniere e chi vi ha visto una delle guerre balcaniche di non molto tempo fa non si sbaglia, ma altre interpretazioni sono altrettanto ammissibili. Purtroppo la storia si ripete con inesorabile spietatezza. Molti sono i momenti di grande intensità emotiva dello spettacolo che fa a meno delle coreografie per intensificare la drammaticità della vicenda. La violenza sulla donna del terzo atto (1), il giuramento del quarto, lo sconvolgente finale rimarranno nel ricordo per molto tempo.

Nonostante l’ambientazione moderna l’icona del Tell è sempre presente poiché è l’immaginazione di Jemmy a creare questa figura da contrapporre al padre inizialmente inetto, che non senza sofferta decisione diverrà l’eroe leggendario che conosciamo. Mai si è visto sulla scena un ritratto padre/figlio così vero come in questa produzione di Michieletto.

Il contrastato rapporto padre/figlio non è presente solo nelle figure Guillaume/Jemmy, ma anche tra i due Melchtal: Arnold è disprezzato dal padre a causa della sua passione per la “nemica” Mathilde e fino all’ultimo il vecchio rifiuterà il gesto del figlio che arriverà a rinunciare all’amore per la donna presentando al padre la scatoletta con il suo ritratto e le sue lettere ridotte in cenere. Solo il seppellimento nella terra del corpo trucidato del padre e la sua incondizionata conversione alla causa dei ribelli porterà pace nell’animo di Arnold.

La terra sterile che riempie la scena (anche nell’allestimento di Graham Vick c’era questo elemento, ma là era puramente simbolico, mentre qui è reale e sempre presente) e l’albero crudelmente sradicato sono il segno dello sradicamento di un popolo sotto il giogo dell’occupazione violenta della sua terra. Solo alla fine un bambino arriverà in scena con un alberello da piantare, simbolo di rinascita.

Il gioco mirabile di luci di Alessandro Carletti evidenzia e isola talora una singola scena come in un quadro di Caravaggio o Rembrandt, mentre una piattaforma rotante serve a cambiare la prospettiva della vicenda vissuta in quel momento in scena. Nella sua semplicità la scenografia di Paolo Fantin offre mille aspetti diversi con il gioco di ombre sui fondali che delimitano la scena.

Gli interpreti sono tutti eccezionali. Di Gerald Finley conoscevamo la capacità attoriale e l’elegante vocalità dimostrata in molte altre opere, ma qui il baritono canadese supera sé stesso: intensità, espressività, musicalità, timbro, tutto concorre a delineare un Guillaume Tell che sarà difficile superare. L’Arnold di John Osborn è ugualmente mirabile per dolcezza di emissione, squillo e partecipazione emotiva al personaggio. La sua resa di «Asile héréditaire» nel quarto atto è una lezione di fraseggio e di intensità espressiva da manuale, giustamente osannata dal pubblico.

Altrettanto memorabili sono il vecchio Mechtal del glorioso Eric Halfvarston e il Gesler di Nicolas Courjal, reso ancora più pericoloso da quella sua figura piacente e quegli occhi di azzurro ammaliatore. Anche il piccolo ma temibile ruolo del pescatore Ruodi a inizio dell’opera, che talora ha portato al naufragio immediato più di una voce gloriosa, ha trovato in Enea Scala l’interprete ideale per proprietà di emissione.

Stesso livello eccelso per il reparto femminile, iniziando dalla Mathilde intensamente sofferta di Malyn Byström, vocalmente ineccepibile, dalla Edwige di Enkelejda Shkosa e dal Jemmy perfettamente convincente e vitale di Sofia Fomina. Non solo gli interpreti principali sono grandissimi attori, ogni singolo corista o figurante ha avuto un suo campo di azione espressiva precisamente definito.

A sostenere il tutto con fervente partecipazione un Pappano superlativo. Anche se, come dice Alberto Mattioli, non ha a disposizione un’orchestra blasonata come quella di Santa Cecilia del disco, quella del Covent Garden oggi si è dimostrata duttile strumento sotto le sue mani e scevra dalle incertezze evidenziate alla prima.

(1) Michieletto ha urtato parte del pubblico della prima con questa scena che in un film o in un qualunque teatro di prosa sarebbe passata del tutto indisturbata. Il richiamo alla violenza compiuta sulle donne – pratica corrente da parte delle truppe occupanti, soprattutto di quelle così sadiche da imporre una tortura come quella della mela sulla testa del figlio del ribelle – non è passato indenne tra i velluti della sala del Covent Garden, ma Mark Valencia su “What’s on Stage” rileva come sia diventata abitudine da parte di alcune fazioni del pubblico della prime londinesi contestare tutte le nuove produzioni che minimamente si scostino dalla tradizione più consueta. Lo stesso cronista riporta come le reazioni di due energumeni che non hanno fatto altro che urlare parolacce hanno indispettito la maggioranza del pubblico molto più di quello che avveniva in scena.

Guglielmo Tell

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Gioachino Rossini, Guillaume Tell

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 9 maggio 2014

Un Tell tra luci e ombre

Come già nel Guglielmo Tell di Muti/Ronconi alla Scala (1988) anche qui al Regio di Torino vengono proiettate immagini da cartolina del paesaggio svizzero, ma mentre là erano parte integrante di una visione complessivamente oleografica, qui nella messa in scena di Graham Vick sono invece in beffardo contrasto con l’ambiente asettico e artificiale in cui il regista ambienta la vicenda in un fine Ottocento in cui egli immagina un’utopia socialista che liberi dall’oppressione dei potenti.

Presentata con qualche dissapore del pubblico al Rossini Opera Festival del 2013 con cui è stato prodotto (troppo rosso in scena: ma bianco e rosso sono i colori della bandiera svizzera!) è stata qui riproposta con successo (purtroppo nella brutta versione ritmica italiana e non in quella della lingua in cui l’opera è stata concepita, il francese) una lettura politicizzata della leggendaria vicenda del cantone di Uri del XIV secolo.

Le scene di Paul Brown ci immergono in un ambiente di un bianco abbagliante in cui la terra è elemento di disturbo, e infatti gli elvetici sono obbligati a cancellarne con cura ogni traccia dal pavimento. Anche se la vicenda in scena segue le linee tradizionali (barche sul lago e mele comprese) Vick rafforza il grido di libertà del popolo oppresso insistendo sulla divisione tra buoni e cattivi, sulle malefatte di questi ultimi (umiliazioni e soprusi sessuali che hanno come vittime anche bambini), sulla ribellione degli oppressi (qui moderni proletari che scrivono sui vetri messaggi in latino) e sul finale rivoluzionario con quella scala vertiginosa che sale chissà dove.

Quella di Vick è una regia piena di simboli (la terra, i cavalli finti…) non sempre chiarissimi, ma di indubbio impatto teatrale. Anche troppo forse: la sua è una regia che talora può distrarre dalla musica, qui diretta magnificamene da Noseda fin dalla brillantissima ouverture, che infatti sarà portata in tournée oltre oceano in autunno con la stessa orchestra.

Coerenti per una volta con la lettura del regista sono i movimenti coreografici che non sono un “divertissement” bensì una prosecuzione della drammaturgia con i loro scatti nervosi, i movimenti epici della balletto dell’opera di Pechino, i salti acrobatici magnificamente eseguiti dal corpo di ballo. È la prima volta che i balletti del Guglielmo Tell sono una plastica rappresentazione delle umiliazioni cui è sottoposta la popolazione e hanno una giustificazione drammaturgica, non solo esornativa. Complimenti al coreografo Ron Howell.

Il titolo rossiniano non è tra i più frequentati a causa dell’impegno richiesto ai cantanti. Qui abbiamo un cast non eccelso con un protagonista titolare che ha in Dalibor Jenis un baritono convincente come padre, un po’ meno come patriota ribelle. Nella recita cui ho assistito Erika Grimaldi è stata una Matilde dagli acuti un po’ urlati e Arnoldo un volenteroso Enea Scala. Più efficaci nei loro ruoli Mirco Palazzi e Luca Tittoto, Farst e Gesler rispettivamente.

Guillaume Tell

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★★☆☆☆

 «Quel horizon immense!»

Il soggetto del libretto (ultima opera di quel Victor-Joseph Étienne de Jouy che aveva scritto La vestale per Spontini) poi modificato da Hippolyte-Louis-Florent Bis, riprende il mito di Wilhelm Tell, eroe della liberazione elvetica dal giogo asburgico (1° agosto 1308), già oggetto del lavoro omonimo di Schiller (1804). Un tema, quello dell’emancipazione del popolo, non sopito nella Francia della restaurazione di Carlo X che dovrà abdicare nel 1830 a seguito della rivoluzione di luglio, la “seconda rivoluzione francese”. Il successo di stima ottenuto a Parigi dal Guillaume Tell divenne successo popolare a Lucca per la prima italiana tradotta da Calisto Bassi.

Atto primo. In un villaggio svizzero è in corso una festa campestre per le nozze imminenti di tre coppie di pastori: fra canti e balli, Guillaume piange in disparte le sorti della patria oppressa dal dominio asburgico. L’anziano Melchthal benedice gli sposi ed esprime al figlio Arnold il desiderio di poter presto fare altrettanto con lui. Vana speranza: il giovane contadino arde segretamente per Mathilde, principessa d’Asburgo ospite nella corte del governatore austriaco Gesler; alle differenze di rango s’aggiungono, insormontabili, quelle politiche, rese ancor più vive dalle sollecitazioni di Guillaume, che ora invita Arnold a unirsi ai ribelli contro il nemico. La festa continua fra danze e giochi, che proclamano il piccolo Jemmy, figlio di Guillaume, vincitore del tiro con la balestra. L’esultanza generale viene interrotta dall’irruzione del pastore Leuthold: per salvare l’onore della figlia ha ucciso un soldato austriaco e solo se qualcuno lo condurrà sull’altra sponda del torrente potrà sfuggire alla furia del comandante Rodolphe e dei suoi sgherri che lo inseguono. Guillaume si offre d’aiutarlo, mentre Rodolphe, dopo aver cercato inutilmente di conoscere dal popolo il nome del traghettatore, ordina ai suoi di distruggere il villaggio e si allontana prendendo in ostaggio il vecchio Melchthal.
Atto secondo. Durante una partita di caccia, Mathilde si apparta per poter incontrare nascostamente l’amato Arnold. È notte ormai, e mentre la principessa si allontana promettendo un nuovo incontro per il giorno successivo, Arnold viene sorpreso da Guillaume e Walter, che intendono distoglierlo dalla passione amorosa e incitarlo all’amor di patria. Ma solo dopo aver appresa la notizia che Gesler ha fatto uccidere Melchthal, Arnold risolve di unirsi ai rappresentanti dei vari cantoni, convenuti fra le tenebre per il solenne giuramento contro l’oppressore.
Atto terzo. Al nuovo incontro segreto, Arnold confida a Mathilde di voler vendicare il padre, cosa che non potrà che dividerli per sempre; vana la supplica della donna: il giovane non è più disposto a fuggire per salvarsi la vita, ma rimarrà a difendere la patria. Frattanto giunge dalla pubblica piazza l’eco della festa che Gesler ha organizzato per celebrare il diritto di sovranità sulle terre elvetiche. In segno di sottomissione, tutti devono inchinarsi davanti a un trofeo d’armi, mentre canti e balli accompagnano la cerimonia. Il rifiuto di Guillaume e Jemmy suscita l’ira di Rodolphe, che ravvisa nell’uomo colui che aveva tratto in salvo Leuthold: l’arresto è immediato. Tuttavia, conoscendone l’abilità d’arciere, Gesler lo sfida offrendogli vita e libertà se sarà in grado di colpire con una freccia una mela posta a distanza sulla testa del figlio. Fra la commozione generale, Guillaume raccomanda a Jemmy di pregare Iddio nella massima calma: il dardo scocca, l’impresa riesce. Sopraffatto dall’emozione, Guillaume s’accascia al suolo, lasciando così scorgere una seconda freccia che aveva tenuto in serbo per Gesler in caso di fallimento. La furia del governatore scoppia irrefrenabile; Mathilde, precipitosamente avvertita da un paggio, accorre sul luogo, ma ottiene soltanto di poter prendere Jemmy sotto la propria protezione, mentre Guillaume viene condotto a morte.
Atto quarto. Arnold s’aggira desolato nella casa paterna, quando viene raggiunto dai ribelli in cerca delle armi nascoste da Melchthal per il giorno della rivolta: il giovane s’unisce a loro, consapevole che il momento è vicino. Frattanto Mathilde, ha ricondotto Jemmy da sua madre Hedwige. Mentre il ragazzo, precedentemente istruito dal padre, corre a incendiare la propria casa per dare il segnale della rivolta, sul Lago dei Quattro Cantoni si addensano nubi che preannunciano tempesta: tutti temono per la sorte di Guillaume, ora prigioniero sulla barca di Gesler, che lo conduce alla fortezza; ma Leuthold annuncia di aver osservato dalla riva che, per far fronte all’impeto delle onde, proprio Guillaume è stato messo alla guida dell’imbarcazione. Tutti accorrono sulla spiaggia e mentre infuria la tempesta vedono Guillaume riportare faticosamente la barca verso riva; avvicinatosi però a uno scoglio, vi balza prontamente sopra, respingendo il battello in mezzo ai flutti. Gioia e abbracci coi familiari sono subito interrotti: anche Gesler è riuscito a guadagnare la riva; a Guillaume non rimane che imbracciare la balestra e trafiggerlo. Arnold giunge dalla città coi rivoltosi, annunciando che il nemico è stato definitivamente scacciato. La gioia per la libertà riconquistata viene coronata dal sole, che torna a risplendere sulle bellezze della natura.

E con questa traduzione italiana viene allestito lo spettacolo inaugurale della Scala del 1988. La messa in scena di Luca Ronconi è tra le più statiche del regista e se non fosse per gli schermi su cui si proiettano paesaggi e scorci alpini potrebbe essere una recita in forma oratoriale. Nessun lavoro di interpretazione è fatto sui cantanti che, inerti e impalati tra masse corali che vanno e vengono torpidamente, devono affidare esclusivamente alla vocalità la drammaturgia dei personaggi. In scena abbiamo una gradinata lignea dove si dispongono i coristi e gli immancabili oggetti semoventi ronconiani su cui si inerpicano i “cattivi”, non mancano le barchette per la gita della «timida donzella», il salvataggio di Leutoldo e la traversata di Guglielmo sul lago durante la tempesta. Anche la regia video è di Ronconi, altrettanto statica e per di più celebrativa del maestro in buca che in sovrapposizioni varie viene spesso a riempire lo schermo con la sua figura.

I costumi del tutto incongrui sono di Vera Marzot: i pastori svizzeri sono vestiti come ricchi borghesi di metà ottocento ed Edwige sembra una contessa pronta per un ballo a corte. Gli strati di tessuti che infagottano i cantanti rendono ancora più inamidata la loro prestazione. La banale coreografia totalmente avulsa dalla vicenda narrata che non può fare a meno della partecipazione di una Carla Fracci allora poco più che cinquantenne è anonima, ed è bene che rimanga ignoto l’autore. Finora il solo che abbia reso il divertissement drammaticamente coerente con la storia è il coreografo Ron Howell nella produzione di Graham Vick vista al Rossini Opera Festival e poi a Torino.

Nel ruolo del titolo Giorgio Zancanaro disegna il personaggio con onestà e intelligenza, seppure senza troppo carattere. Chris Merritt riprende il ruolo che fu del Nourrit: la sua parte ha necessità proverbialmente esagerate, ma il tenore americano le risolve con facilità anche se la voce non è sempre gradevole e fa rimpiangere l’Arnoldo di Pavarotti nell’edizione in studio di Chailly. Cheryl Studer dipana con bravura le agilità di Matilde, ma anche lei manca di espressività e passione per il suo personaggio. Luci e ombre negli interpreti dei personaggi minori.

A Riccardo Muti va l’indubbio merito di aver portato in scena l’opera nella sua integrità ed averla diretta con dinamica trascinante grazie anche ad un’orchestra che risponde in maniera eccellente alle sue sollecitazioni. Ottimo il coro del teatro a cui è richiesta una prestazione impegnativa.

I quattro atti di quest’unica versione video esistente sono ripartiti su due dischi. Nessun bonus, immagine in 4:3 in cui a fatica entrano le panoramiche alpine e con alcuni difetti presenti già nel master originale come si avvisa sulla confezione. Una sola modesta traccia audio anche lei con difetti vari.