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Giuseppe Verdi, Les Vêpres siciliennes
★★★★☆
Roma, Teatro dell’Opera, 10 dicembre 2019
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Il Verdi francese apre la stagione dell’Opera di Roma
Tre giorni dopo l’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala, anche a Roma si sfoggiano abiti da sera e smoking per l’apertura del suo Teatro, un’occasione anche questa mondana anche se non raggiunge la frenesia che pervade Milano il 7 dicembre. L’Opera di Roma apre con un titolo non tra i più popolari di Verdi e per di più nell’edizione originale francese, Les Vêpres siciliennes, versione non frequente nei teatri italiani.
Vissuto in un ambiente influenzato dalla cultura francese, il compositore ha tratto dal teatro francese ispirazione per molte sue opere e anche quelle di soggetto scespiriano sono state conosciute attraverso le traduzioni francesi dell’epoca. Nel grand-opéra poi Verdi aveva visto la possibilità di svecchiare il melodramma italiano e i suoi trenta viaggi a Parigi testimoniano questo suo impegno. Verdi era andato una prima volta nella capitale francese nel 1847 per l’allestimento della Jérusalem (rielaborazione in chiave di grand-opéra de I lombardi alla prima Crociata) e nel 1855 ci era ritornato per una nuova produzione, Les Vêpres siciliennes appunto, primo di un progetto per “la grande boutique”, così Verdi chiamava l’Opéra di Parigi. In Italia il lavoro giungerà pochi mesi dopo, ma a causa della censura verrà rappresentato in una versione italiana con altro titolo e con la vicenda ambientata oltre le Alpi. Il soggetto originale di Scribe era infatti considerato troppo patriottico! Solo più tardi fu accettato nella versione correttamente tradotta I Vespri siciliani.
La produzione romana mette in campo Daniele Gatti, nuovo direttore musicale del teatro, e una squadra di eccellenti interpreti. Il maestro Gatti legge la partitura in tutta la sua magnificenza: l’orchestrazione dei Vêpres è molto più elaborata che non nelle precedenti opere di Verdi e la forma, dilatata a cinque atti, comprende pezzi di assieme e numeri corali di grande complessità, qui magistralmente risolte. Il tono scuro della vicenda è evidenziato dal direttore fin dalle prime note della sinfonia che è quasi un poema sinfonico in cui vengono esposti molti dei temi che saranno ascoltati in momenti cruciali dell’opera, quasi una sintesi drammatica dell’intera vicenda. Qui Gatti esalta i colori e la varietà dei timbri strumentali come farà in seguito nei pezzi pittoreschi della tarantella del secondo atto e della siciliana/bolero del quinto. Nella lettura di Gatti si nota il lavoro di approfondimento fatto con un’orchestra che non sempre ha brillato per la sua disciplina.
Tre dei quattro interpreti principali sono maschi in quest’opera, un tenore e due baritoni. Nella parte di Henri, il siciliano ribelle che scopre di essere il figlio dello spietato governatore francese, John Osborn incanta con una voce sempre duttile nel sottolineare gli opposti sentimenti che animano il giovane. Anche nei momenti più drammatici il cantante americano mantiene uno stile e un’eleganza ineccepibili. Un momento di grandissimo pathos è il suo duetto con il padre, qui un Roberto Frontali che recita con un’asciuttezza che rende ancora più efficace la parte. Il passaggio da inflessibile tiranno a quello di padre amorevole che ha ritrovato il figlio viene delineato con molta sensibilità. Quella di Procida è invece una parte molto più compatta, essendo l’odio e il desiderio di vendetta gli unici motori delle sue azioni, ma Michele Pertusi riesce comunque a rendere credibile il personaggio con una autorevolezza vocale sorprendente e una imponente presenza scenica. Schiacciata tra tanti uomini la figura di Hélène riesce ad emergere grazie alle vigorose pagine che Verdi scrive per lei e alla autorità vocale di Roberta Mantegna. Nel suo intervento del primo atto che diventa un sottinteso invito alla ribellione («Ne perdez pas courage! Veuillez être sauvés, et Dieu vous sauvera!») le agilità belcantistiche si affiancano al temperamento del soprano palermitano cui manca solo appena un po’ più di volume per essere ancora più convincente. Il timbro e il piacevole vibrato sono messi in evidenza anche nel bolero dell’ultimo atto («Merci, jeunes amies») che in questo allestimento perde qualsiasi connotato di felicità per sottostare alla lettura della regista argentina Valentina Carrasco che della vicenda sottolinea la violenza del potere sui deboli, soprattutto le donne.
L’ambientazione passa dal 1282 della dominazione francese ai giorni nostri, con i vestiti moderni di Luis F. Carvalho e l’efficace gioco luci di Peter van Praet. Non convincenti le scenografie di Richard Peduzzi, consistenti in grigi volumi semoventi che non evocano facciate di palazzi palermitani. Grigia è anche la regia della Carrasco che insiste anche troppo sul tema della violenza sulle donne e sulla presenza del fantasma della madre di Henri e di altre figure femminili non meglio identificate. Alla regista riesce invece di risolvere il problema del balletto, immancabile al terzo atto in un grand-opéra. Momento di distrazione dal dramma, spesso si tratta di un divertissement del tutto avulso dalla trama dell’opera. Qui Verdi e i librettisti inseriscono i ballabili all’interno della festa nel palazzo del governatore, ma nella lettura attuale della Carrasco un balletto classico non avrebbe avuto senso. E sarebbe stato anche un peccato privarsi delle bellissime pagine scritte dal compositore. Ecco allora le spose oltraggiate del primo atto che ritornano e si lavano in scena, scherzando con l’acqua nei secchi, unico momento gioioso nella tragedia della vicenda e che si è collegato al ballo che segue con perfetta logica drammatica.
Questo però non è piaciuto a parte del pubblico che avrebbe preferito un balletto sulle punte e che ha applaudito calorosamente i cantanti ma ha riservato alla regista qualche dissenso.
⸪