Carlo Gozzi

Turandot

Giacomo Puccini, Turandot

★★★★★

Madrid, Teatro Real, 16 dicembre 2018

(video streaming)

Il “solito” Wilson, ma che meraviglia!

Toronto, Houston, Vilnius, Madrid: la coproduzione della Turandot di Robert Wilson arriva nella capitale spagnola.

Sebbene già si sappia che cosa ci riserva una messa in scena dell’artista visuale texano, ogni volta il grande Bob riesce ad ammaliare anche egli spettatori più restii al suo teatro “postdrammatico”, che qualcuno ha definito «la negazione del teatro» in quanto negazione della mimesis praxeos – l’imitazione dell’azione secondo la Poetica di Aristotele (“Nascita e svolgimento della tragedia”, 1448b): quella di Wilson essendo azione come performance legata alla fisicità del gesto e del corpo dell’attore più che azione drammaturgica dettata dal testo scritto e dalla storia da raccontare. E la fiaba a-temporale, a-psicologica e spersonalizzata della principessa cinese si presta a meraviglia agli strumenti teatrali di Wilson, alla sua messa in scena solenne, ieratica. Già nel 2003 Giuseppe Frigeni aveva proposto a Modena una Turandot “antiteatrale” (ripresa recentemente a Parma) in cui tutto era risolto per rimandi simbolici, con una scenografia affidata solo a quinte mobili e alle luci e l’“azione” limitata a gesti e pose calibrate o addirittura fissate nella immobilità. Ma nello spettacolo madrileno di Wilson la scena è ancora più depurata di elementi architettonici, eccetto il “trampolino” su cui appare Turandot la prima volta o l’intrico di “rami” all’inizio del terzo atto.

Se possibile i personaggi qui sono ancora più statici, a parte il trio saltellante dei ministri, clownesche maschere di una moderna commedia dell’arte, che incorporano tutta la dinamicità dello spettacolo. La magia delle luci rende le atmosfere notturne della storia e ai colori primari sono assegnate le connotazioni dei personaggi: bianco per i tre stranieri Timur, Calaf e Liù; blu per Ping, Pang, Pong; neri e grigi per le guardie e il popolo; rosso per la principessa, il colore che predominerà alla fine dell’opera quando Turandot rimane sola in scena e una sottile lama di luce bianca scende dall’alto a fendere il nero dello sfondo. La simmetria domina nella composizione e nello schieramento gerarchico dei personaggi: dietro il popolo indistinto, davanti a loro le guardie in spaventose armature orientali, i personaggi principali in proscenio, gli occhi sempre rivolti al vuoto, senza mai un contatto fisico o uno scambio di sguardi. Eppure, anche senza relazioni corporee e gestualità realistiche, l’effetto emozionale viene raggiunto lo stesso tramite i colori, i costumi, i trucchi marcati dei volti. Solo a una sottile mimica facciale è affidata l’espressione dei sentimenti, come quando la principessa lancia un urlo muto alla soluzione dei primi due enigmi, mentre alla soluzione del terzo le sfugge un accenno di sorriso, quasi di sollievo nel porre fine al suo ruolo di portatrice di morte. Come s’è detto, solo Ping-Pang-Pong, in contrasto alla staticità di tutti gli altri, hanno una gestualità volutamente marcata, con controscene ironiche – come quando Ping e Pang si addormentano in piedi allorché Turandot racconta per l’ennesima volta la storia dell’«ava dolce e serena».

Il percorso del personaggio eponimo è sottolineato in scena dal fatto che Turandot diventa col tempo sempre meno smaterializzata per diventare invece più umana: nel primo atto è là in alto sul trampolino, nel secondo scende tra la folla su una piattaforma semovente e solo nel terzo atto cammina finalmente con le sue gambe!

La staticità intensa di quanto si vede trova un perfetto riscontro nella conduzione orchestrale di Nicola Luisotti che con tempi solenni si adatta alla ritualità in scena, ma non tralascia di sottolineare l’eccezionale modernità armonica e timbrica dell’incompiuta partitura pucciniana. Anche questa volta il finale di Alfano, con la sua volgare e superficiale opulenza, cozza con le finezze melodiche e strumentali che sono ancora nelle orecchie.

Di grande livello il primo cast dispiegato dal teatro Real (altre due compagnie si alterneranno nelle ben diciotto repliche). Il soprano svedese Irene Theorin è una Turandot dalla voce potente e penetrante e dagli acuti fulminanti, che acquista sensibilità nel corso della recita fino alle frasi finali molto espressive. Di Gregory Kunde non si può che ripetere quanto già scritto sulla meraviglia di una voce che non conosce declino e mantiene intatto il suo smalto assieme all’eleganza dell’espressione e alla bellezza del fraseggio. Il suo continua a essere un Calaf di riferimento oggi. Inizia sotto tono ma nell’aria finale si riscatta pienamente la Liù del soprano spagnolo Yolanda Ayuanet mentre Andrea Mastroni dà autorevolezza al personaggio del vecchio Timur. Quasi un cammeo quello di Raúl Giménez come imperatore Altoum, che scende  dal cielo sul suo trapezio. Vivaci scenicamente e vocalmente ben distinti il Ping di Joan Martín Royo, il Pang di Vicenç Esteve e il Pong di Juan Antonio Sanabria. Ottime le prove del coro del teatro diretto da Andrés Máspero e di quello di voci bianche di Ana González.

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Turandot

foto © Studio Andrea Ranzi

Giacomo Puccini, Turandot

★★★☆☆

Bologna, Teatro Comunale, 1 giugno 2019

Turandot, l’aliena

«Immaginiamo che l’azione si svolga nel futuro» scrive il regista. E si prova un brivido. E  un altro ancora quando, sempre nelle sue note, egli scrive «Lou-Ling, il suo avo assassinato»: ma non era una donna l’«ava dolce e serena» per cui Turandot ha scatenato tutto questo inferno di morti?

Sono ben sette le produzioni dell’ultima opera di Puccini che vedono la scena in questi giorni: Barcellona, Venezia, Riga, Praga, Amsterdam e Budapest, oltre a Bologna. La tentazione di “farla strana” è quindi forte. Questa del Comunale ha già debuttato a Palermo e andrà anche a Karlsruhe. Per Fabio Cherstich è la sua prima importante regia lirica, finora era stato solo scenografo. Per questa Turandot egli sembra voglia optare per un’esecuzione oratoriale in costumi e video: manca del tutto una vera e propria regia e l’aspetto visivo è preponderante e affidato a un invadente impianto videografico.

La sua Pechino – siamo nel 2070 dichiara il regista – è una via di mezzo tra la Coruscant di Star Wars e il fondo brulicante di vita di una barriera corallina, con madrepore colorate e spugne pulsanti. Sui tre schermi che racchiudono la scena, cui se ne aggiunge un quarto che viene abbassato di quando in quando, si succedono patinate illustrazioni di un’atmosfera fantascientifica dove esseri femminili pentatentacolari dalla base scrotale manipolano i poveri príncipi in mutande. Questi ultimi li rivedremo su un nastro trasportatore entrare in una macchina e le loro teste mozze uscirne e fluttuare beate tra i fiori. Fino all’arrivo nel finale di un pingue bambolotto cinese e di un’inaspettata donna gatto, le immagini digitali realizzate dal collettivo russo AES+F vengono reiterate senza una particolare logica per tutto lo spettacolo e se all’inizio prevale la meraviglia, ben presto è la noia a prendere il sopravvento. Non assente è il senso di distrazione che queste presentano nei confronti della musica. I costumi dello stesso collettivo coniugano le tinte pastello in borse, cappelli e tailleur per la folla, mentre le maschere senza volto delle guardie hanno spade laser che sembrano quelle dei segnalatori aeroportuali – forse perché in alto continua a volteggiare l’astronave imperiale a forma di drago cinese che non si decide ad atterrare…

La lettura di Cherstich spinge sull’illustrazione di una società cyber-matriarcale di violenta opposizione alla mascolinità e una piovra multifaccia sembra soprintendere a questa società sottomessa. Il vecchio imperatore Altoum è una mummia tenuta artificialmente in vita e succubo della stessa figlia il cui comportamento è dettato dal trauma subito dalla sua lontana antenata – e allora durante il suo racconto sugli schermi vengono proiettate ingenue immagini di violenza nei confronti delle donne da parte degli stessi uomini che vedremo decapitati.

Dal punto di vista drammaturgico neanche Cherstich riesce a risolvere il problema del finale, qui un surreale peana all’amore in un Eden dai colori acidi, quasi un trip seppure non lisergico ma da sonnellino postprandiale. Non si è mai visto un finale così statico. L’unica a muoversi è Liù, morta che si alza e se ne va.

La sfolgorante partitura è nelle abili mani del giovane viareggino Valerio Galli, uno specialista del teatro di Puccini di cui ha concertato molte opere. L’equilibrio sonoro è talora spostato verso il forte, ma le voci in scena non ne risentono e i momenti lirici non mancano di essere adeguatamente dipanati sotto la sua bacchetta. La modernità della scrittura orchestrale è messa bene in luce e un’opportuna dislocazione delle percussioni nei palchi di barcaccia amplia l’effetto spaziale. Neanche Galli riesce però nel miracolo di rendere digeribile il finale di Alfano, pesante come un macigno ed esteriore quanto mai.

Sfolgorante di lucine e con un’improbabile parrucca di lunghi capelli biondi, Hui He aggiunge Turandot al suo ruolo pucciniano di elezione, Cio-Cio-San. Il soprano cinese ha la potenza richiesta dalla parte e la qualità timbrica, ma la mancanza assoluta di regia non l’aiuta a definire il personaggio. Miracolo di tenuta, la voce di Gregory Kunde ormai sfida le leggi del tempo e il Nadir del debutto europeo di 33 anni fa è ora un Calaf a tutto tondo che conserva l’eleganza e il legato del personaggio di Bizet. Parimenti non ha bisogno di risparmiarsi nell’affrontare quel banco di prova del «Vincerò» (ormai viene chiamato così) che termina tra un uragano di meritate ovazioni e che solo la giusta determinazione del direttore a far fluire il dramma impedisce di essere bissato. Mariangela Sicilia si conferma in Liù una delle voci più intense del panorama di oggi e anche se mortificata dal costume da crocerossina (peggio ancora la mimetica da Rambo di Calaf, però) suggella con il suo intervento il momento di maggior sentimento dell’opera. Anche questa volta si sarebbe preferito che lo spettacolo finisse qui.

Vincenzo Taormina, Francesco Marsiglia e Cristiano Olivieri riescono a rendere più efficaci del solito i personaggi delle maschere, qui omini di Folon in rosso. Buona la prova fornita dall’Altoum di Bruno Lazzaretti, dal Timur di In-Sung Sim e dagli altri interpreti. Eccellenti il coro del teatro e quello di voci bianche guidati da Alberto Malazzi.

Alla fine applausi scroscianti per tutti da parte del pubblico bolognese. Nessun segno delle contestazioni che avevano invece ricevuto i responsabili della messa in scena al Massimo di Palermo.

Turandot

Giacomo Puccini, Turandot

★★★☆☆

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Torino, Teatro Regio, 16 gennaio 2018

Una, nessuna, cento Turandot nel segno di Poda

Come Lulu di Alban Berg di dieci anni dopo, anche Turandot di Giacomo Puccini è rimasta senza finale alla morte del suo autore. Vuoi a causa del male che lo affliggeva, vuoi per la difficoltà del compositore a concludere in maniera convincente la vicenda della gelida e crudele principessa cinese che alla fine si trasforma in una donna appassionata e innamorata, la partitura dell’opera arriva solo a metà del terzo atto, fino alla morte di Liù. È in questo punto che Arturo Toscanini aveva posato la sua bacchetta alla prima rappresentazione alla Scala di Milano nel 1926.

Da allora non sono mancati i tentativi di completare la partitura, primi fra tutti quelli di Franco Alfano, allora direttore del Conservatorio di Torino, che avendo l’anno prima composto un’opera di ambientazione orientale, La leggenda di Sakuntala, sembrava la persona più idonea. A una sua prima proposta, molto raramente eseguita, seguì una seconda versione, più breve e più fedele agli appunti di Puccini ed è con questo gioioso finale che Turandot viene comunemente messa in scena. Giudicato ancora troppo pomposo, un nuovo finale fu commissionato nel 2001 al compositore Luciano Berio e con questo l’opera viene talora eseguita, anche se è giudicato troppo moderno.

Al Teatro Regio di Torino i problemi posti dal completamento dell’opera hanno convinto Gianandrea Noseda, direttore musicale del teatro, a seguire l’esempio di Toscanini e terminare quindi l’opera due battute dopo le parole pronunciate dalla folla: «Liù, bontà, perdona! | Liù, dolcezza, dormi! | Oblia! Liù! Poesia!». La sua direzione è abbagliante e incisiva come la scena che si vede all’apertura del sipario e mette in evidenza le peculiarità del lavoro di un compositore che si volge sì al passato, la fiaba con maschere di Carlo Gozzi è del 1762, ma si esprime con uno stile attuale per i suoi tempi: nel 1920 Puccini aveva assistito a Vienna alla Donna senz’ombra di Richard Strauss e due anni dopo a Firenze al Pierrot Lunaire di Schönberg.

Rebeka Lokar è una Turandot imperiosa ma meno definita del solito, la causa però è la regia, come vedremo. Calaf ha la voce ben modulata ma non particolarmente squillante di Jorge de León, che infatti prudentemente abbassa di tono il suo «Nessun dorma» e non suscita comunque alcun segno di entusiasmo nel pubblico. Come Liù, Erika Grimaldi, una presenza abituale nelle produzioni del Regio torinese, è diligente come sempre e come sempre con un timbro poco gradevole. Ancora meno memorabili sono gli altri interpreti.

In questo suo nuovo allestimento Stefano Poda – come sempre nelle vesti di regista, scenografo, costumista, coreografo e light designer – è sulla scia delle sue precedenti realizzazioni che si affidano alla visualizzazione in eleganti tableaux vivants di una vicenda raccontata in modo del tutto personale. La storia del Gozzi, che già di suo aveva gli aspetti onirici per non dire illogici tipici di una fiaba, nelle mani di Poda diventa ancora un’altra cosa, altrettanto sconclusionata ma con una sua logica interna anche se non sempre comprensibile. Lo spettacolo inizia come nel Tannhäuser di Castellucci, con degli arcieri che scoccano frecce il cui rumore, quando raggiungono il bersaglio, è il primo segno sonoro che intendiamo prima del fragoroso fortissimo delle battute iniziali dell’opera. Un bianco abbagliante contraddistingue la scatola che racchiude la scena e i costumi, questi indistinti tra popolo e cortigiani. Anche gli immancabili corpi nudi del corteggio di Turandot sono dipinti di bianco. Unici segni di colore sono il completo nero di Calaf e la gonna rossa di Turandot in stile Lady Gaga, che alla fine del primo atto uccide con una freccia il principe di Persia, o per lo meno così sembra, poiché nulla è sicuro in questa messa in scena che contraddice spesso la vicenda narrata, come quando alla fine Liù muore ma se ne va col padre, il quale d’altronde non è mai sembrato cieco.

Poda infarcisce la sua visione di molte idee, alcune decifrabili, altre meno, ma l’unica cosa certa è la presenza/assenza del personaggio del titolo che troviamo in cento altre figure uguali che cantano in playback i suoi stessi versi. «Turandot non esiste», cantano Ping-Pang-Pong, e Poda li prende in parola. L’ossessione delle «teste mozze» è un motivo sempre presente in questo allestimento, dalle grandi teste che sovrastano la scena ai caschi da motociclista tempestati di diamanti come i teschi di Damien Hirst. Incongruamente, invece, la testa ce l’hanno i cadaveri dell’obitorio rotante in cui le tre maschere avvolgono di bende le vittime della principessa, una scena a suo modo di macabro umorismo dove nell’«Addio, amore, addio, razza! Addio, stirpe divina!» cantato dai tre dignitari si sente Puccini autoimprestarsi il tema del suo Gianni Schicchi – d’altronde anche là c’era un cadavere in scena…

Calaf ascolta e risolve gli enigmi sdraiato sulla chaise longue di Le Corbusier, forse a indicare l’aspetto psicanalitico della lettura di Poda, o forse vuol dire qualcos’altro, chissà. Lo spettacolo ha una sua coerenza, ma risulta enigmatico come la principessa cinese e altrettanto gelido.

La donna serpente

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Alfredo Casella, La donna serpente

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 19 aprile 2016

Il figlio ritrovato: Casella e Torino

Per una strana combinazione ben tre teatri italiani propongono in contemporanea lavori appartenenti allo stesso periodo storico e usciti dal repertorio consueto: alla Scala La cena delle beffe (1924) di Giordano, al Lirico di Cagliari La Campana sommersa (1927) di Respighi e al Regio di Torino La donna serpente (1932) di Alfredo Casella.

Premesso che se certi titoli sono usciti dai cartelloni, in fondo in fondo una ragione c’è, lo spettacolo di Torino, ripreso da Martina Franca dove è andato in scena nel luglio 2014, rientra nella programmazione di un “Festival Alfredo Casella” con cui in questi giorni si ricorda il musicista nato a Torino nel 1883 (1) e morto nel 1947. Convegni, incontri, mostre, concerti e rappresentazioni teatrali gettano luce su questo protagonista del Novecento musicale italiano che ne ha rinnovato l’immagine affrancando la musica dalla tradizione ottocentesca.  Casella visse la maggior parte degli anni a Parigi, dove era la vita culturale del tempo. Allora era semplice: bastava andare lì o a Vienna per incontrare tutta l’élite artistica, e musicale in particolare: da Ravel a Debussy, da Fauré a Stravinskij, da Mahler a Schönberg. L’adesione del compositore torinese all’ideologia del Ventennio, seppure con un tardivo passo indietro nel ’38, però non favorì la diffusione delle sue opere nel dopoguerra.

Come Puccini con la Turandot (1926, ma prima di lui Busoni nel 1917) anche Casella ricorre per il testo della sua opera a Carlo Gozzi il quale aveva pubblicato una serie di drammi favolistici tra cui appunto La donna serpente (1763), “fiaba teatrale tragicomica in tre atti”, in cui come Undine o Rusalka una fata si innamora di un uomo mortale con tutti gli affanni annessi e connessi. Nel testo del Gozzi i personaggi nobili si esprimono in endecasillabi («Andrò per questi boschi ognor chiamando | Cherestanì, mia sposa. Rezia amata, | Bedredin, caro figlio, e figli, e sposa.») e le maschere in prosa, spesso vernacolare («Oh povero Pantalon! Mo la vada, dove che la vol, per adesso mi no go più fià de seguitarla»).

Il libretto dell’opera di Casella viene affidato a Cesare Vico Ludovici, drammaturgo, soggettista e sceneggiatore cinematografico (scriverà per i film di Bragaglia, Blasetti, Gallone ecc.), che gli appronta un prologo e sette quadri suddivisi in tre atti (2). I fantasiosi nomi dei personaggi sono talora diversi rispetto all’originale del Gozzi (Altidòr, Miranda, Armilia, Alditrùf, ecc.), mantengono invece il loro Badùr, Canzade, Farzana, Tògrul mentre le maschere Pantalone, Tartaglia, Brighella diventano Pantùl, Tartagìl, Albrigòr e così via. Che le maschere nell’opera italiana non abbiano mai avuto una grande presa sul pubblico che le sopporta solo nel caso si ammazzino fra di loro, come in Pagliacci, è poi un altro discorso.

Come per Busoni, il teatro per Casella è antirealista, per cui occorre enfatizzare al massimo la sua natura fantastica, inverosimile. Il fiabesco è un genere che la tradizione operistica italiana aveva in massima parte ignorato e ne La donna serpente non c’è pericolo di immedesimazione o coinvolgimento emotivo. La scrittura musicale riflette le frequentazioni dell’autore, soprattutto Stravinskij, mentre per la vocalità il compositore sviluppa un declamato che raramente si aggrega in una netta linea melodica, ponendosi quindi molto lontano sia dalla tradizione italiana ottocentesca, sia da quella verista a lui cronologicamente vicina.  È più al Settecento che guarda Casella, con le sue maniere musicali, se non ancora più in là, al recitar cantando monteverdiano del lamento «Vaghe stelle dell’Orsa» di Miranda all’inizio del terzo atto. Ma il gusto citazionistico pervade anche il libretto.

Visivamente lo spettacolo proposto al Regio di Torino è affascinante, tra Stravinskij e Depero (non è un caso che il pittore futurista avesse utilizzato Pupazzetti, op. 27 di Casella, per un suo spettacolo di burattini), con i costumi fantasiosi di Gianluca Falaschi e le belle luci di Giuseppe Calabrò. La messa in scena è di Arturo Cirillo con le scenografie di Dario Gessati. Del regista è l’invenzione dei “fati”, ossia delle fate maschili, personaggi che riempiono la scena nei lunghi interventi orchestrali, i momenti migliori dell’opera (ora raccolti in due CD della Chandos assieme alle sinfonie op. 5, 12 e 63 dirette dallo stesso Noseda con la BBC Philharmonic). O altrimenti ci sono le coreografie di Riccardo Olivier.

A dirigere l’orchestra del Regio Gianandrea Noseda, profondo conoscitore e divulgatore della musica del compositore torinese. Onore e merito anche ai cantanti che si sono cimentati in ruoli che difficilmente riprenderanno un’altra volta nella loro carriera: Piero Pretti, Carmela Remigio, Erika Grimaldi, Roberto de Candia e tutti gli altri.

(1) Come Malipiero, Alfano, Respighi e Pizzetti, Casella appartiene a quella che Massimo Mila aveva identificato come “generazione dell’Ottanta”.

(2) Prologo. Miranda, una creatura immortale, vorrebbe sposare il mortale Altidòr, re di Téflis. Suo padre, Demogorgòn, re delle fate, acconsente a una condizione, che è anche una profezia: Miranda dovrà restare con lo sposo, senza rivelare la propria identità né le proprie origini, per nove anni e un giorno, poi dovrà indurlo a maledirla facendosi credere colpevole di azioni nefande. Se Altidòr, nonostante tutto, continuerà ad amarla mantenendo fede al giuramento, potrà diventare mortale e continuare a vivere con lui. Se invece cederà alla durezza delle prove maledicendo infine Miranda, lei si tramuterà in serpente, e rimarrà tale per duecento anni, prima di tornare, per sempre, tra le fate. Atto I. In un deserto, Alditrùf racconta ad Albrigòr che nove anni prima stava andando a caccia con il re Altidòr quando giunsero a un castello incantato: lì Altidòr conobbe Miranda. I due si sposarono ed ebbero due figli. Ma quando il re cercò di scoprire le origini della sposa, Miranda e i bambini scomparvero. Da quel giorno il re vaga alla loro ricerca. Entra quindi Altidòr, accompagnato dall’aio Pantùl, che lo esorta inutilmente a tornare a Téflis. Altidòr si allontana, e compaiono il gran visir Tògrul e il suo servo Tartagìl. Insieme concertano uno stratagemma per ricondurre il re a Téflis. Pantùl, nei panni del gran sacerdote Checsaia, cerca di far credere al re che la moglie sia una maga indegna, e lo esorta ad abbandonarla. Ma Altidòr non cede. Ci riprova Tògrul, spacciandosi per il fantasma di Altamùc, padre del re. Alla vista del padre morto, Altidòr si fa convincere, ma quando porge loro la mano Pantùl e Tògrul – per intervento di Demogorgòn – riprendono il loro aspetto naturale. Altidòr, furente, li scaccia. Rimasto solo, invoca Miranda, che gli appare per magia. Alle preghiere di Miranda, Altidòr giura che non la maledirà mai. Miranda, tra le lacrime, gli preannuncia che il giorno successivo vedrà i suoi figli.
Atto II. Ancora una volta Alditrùf, Albrigòr, Pantùl e Tartagìl si trovano insieme nel deserto. Si odono in lontananza le voci delle nutrici, alla ricerca del re. Altidòr sopraggiunge, accompagnato da Tògrul. La corifea delle nutrici lo avverte che dovrà essere pronto a superare dure prove. Miranda appare con i figli su una rupe circondata da alte fiamme, e ordina che i bambini vengano gettati nel rogo: ma Altidòr, per quanto inorridito, tiene fede al giuramento e non la maledice. Intanto a Téflis, in guerra con i tartari, giungono due messaggeri con notizie preoccupanti: il popolo muore di fame, e i nemici si accingono ad assalire la fortezza. Ma ecco che, dopo nove anni di assenza, riappare Altidòr. L’esultanza generale scema quando giunge il visir Badùr: mentendo, narra di essere stato assalito da truppe nemiche, che hanno gettato nel fiume i rifornimenti destinati alla città. Quando aggiunge che i nemici erano guidati da Miranda, Altidòr, sopraffatto dall’ira, maledice la propria sposa, tradendo così il giuramento. Appare Miranda che, in preda della metamorfosi, rivela la verità: ha simulato il sacrificio dei figli per volere del padre, e le vettovaglie che ha distrutto erano state avvelenate dal traditore Badùr. Ormai trasformata in serpente, Miranda scompare.
Atto III. Miranda lamenta la propria triste sorte: voci misteriose la esortano a sperare in un futuro migliore. Nella reggia di Téflis il popolo acclama il re vincitore. Ma Altidòr zittisce tutti: non vuole elogi, perché nel suo cuore c’è posto solo per il lutto. Giunge Farzana, sorella di Miranda: Demogorgòn l’ha inviata per proporre ad Altidòr di affrontare un cimento per salvare la sposa. I due si allontanano, seguiti dal popolo. Nell’aria echeggiano le voci di Demogorgòn e Geònca. Il mago sfida il re delle fate: sosterrà Altidòr nella prova imminente. Il popolo si è radunato nei pressi del tempio che racchiude Miranda. Il re affronta i mostri che lo custodiscono, uccidendoli. Il tempio crolla, e al suo posto appare la reggia di Miranda. Altidòr e Miranda possono infine riabbracciarsi. Tartagìl, Albrigòr, Alditrùf, Pantùl e Tògrul commentano il trionfo della virtù. Tutti quanti, infine, festeggiano il lieto fine della vicenda.

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Turandot

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Giacomo Puccini, Turandot

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 1 maggio 2015

(diretta TV)

Turandò, opera moderna

L’hanno chiamata “Turandò” fin dal primo momento e nonostante qualcuno ne correggesse la pronuncia, non c’è stato verso: su RAI5 si è continuato a chiamare così l’opera andata in scena con il consenso a denti stretti dei sindacati nel giorno della festa del lavoro per solennizzare la concomitante apertura dell’EXPO milanese.

Direttore e regista ci hanno ricordato che l’ultima opera di Puccini è del 1924 ed è di sconvolgente modernità. Due anni prima aveva debuttato il Wozzeck di Berg. Janáček, Ravel, Busoni, Hindemith, Stravinskij e Szymanowski avrebbero presentato i loro capolavori per il teatro proprio in quegli anni.

Riccardo Chailly non solo dà una lettura emblematicamente moderna della partitura, tutta irta di dissonanze e colori lividi, ma  dimostra che la scelta del finale scritto da Luciano Berio nel 2002, il quale si adatta perfettamente alle tinte orchestrali e alle armonie messe in luce dal direttore milanese, è l’unica possibile. La proposta di Berio è a tutt’oggi la sola alternativa valida al magniloquente finale di Alfano, ma meglio ancora sarebbe far terminare l’opera lì dove Puccini si è fermato. In quell’accordo di misi conclude infatti la grande stagione dell’opera italiana dell’Ottocento.

Perfettamente in linea con la lettura del maestro è l’allestimento del regista Nikolaus Lehnhoff, dello scenografo Raimund Bauer e della costumista Andrea Schmidt-Futterer. La scena è un opprimente ambiente chiuso (che solo alla fine si aprirà alla luce dell’esterno) con incombenti mura rosso lacca ricoperte di grossi chiodi/pioli che danno un effetto minaccioso alla città proibita dell’imperatore Altoum, ma dipingono anche un incubo dai colori primari, rosso e blu, scelti per dare un tocco antinaturalistico alla fiaba senza tempo del Gozzi. Le allusioni cinesi sono lasciate solo alla musica: gli spettacolari costumi in bianco e nero dei personaggi principali si ispirano ai manichini di Oskar Schlemmer e la prima apparizione di Turandot avviene in uno sfavillante abito disegnato da un Erté visionario. L’onnipresente e ondivago coro del «popolo di Pekino» è un’inquietante massa di elementi tutti uguali con una maschera bianca che annulla le individualità e in testa una bombetta più Arancia meccanica che Magritte con quei coltelli luccicanti sfoderati alla fine del primo atto.

Superlativo il cast femminile: Nina Stemme e Maria Agresta sono perfette nei ruoli che danno della donna due immagini del tutto contrapposte. Gelida potenza che diventa sgomento («Che nessun  mi veda… | La mia gloria è finita»), smarrimento («tormentata e divisa | fra due terrori uguali: | vincerti o esser vinta…») e infine passione, per la principessa cinese sono fasi incarnate in maniera esemplare dalla interpretazione del soprano svedese. I filati e le note tenute della Agresta hanno invece dipinto una Liù memorabile, mai stucchevole e giustamente osannata dal pubblico. Timur di gran lusso quello del bravissimo Alexander Tsymbalyuk, bravi anche gli interpreti dei tre ministri, Angelo Veccia, Blagoj Nacoski e Roberto Covatta, perfettamente inseriti da Lehnhoff in questa sua pantomima espressionista.

Lasciamo per ultimo il Calaf di Alexandrs Antonenko, unico punto debole dello spettacolo: voce grande ma traballante nelle note tenute, acuti sfocati, intonazione e dizione imperfetti, ma soprattutto personaggio senza fascino dalla vocalità uniformemente stentorea.

Lo spettacolo proviene ovviamente da Amsterdam, uno dei teatri lirici più stimolanti oggi in Europa.

La ripresa televisiva è stata affidata alla solita Patrizia Carmine, che questa volta non ha fatto lo scempio del Tristano di Chéreau, ma nemmeno ha reso al meglio lo spettacolo, anzi.

P.S. Questa è stata l’ultima produzione di Nikolaus Lehnhoff: il regista tedesco sarebbe mancato meno di quattro mesi dopo.

Turandot

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Giacomo Puccini, Turandot

★☆☆☆☆

Torino, Teatro Regio, 14 febbraio 2014

Esistono spettacoli inutili?

Ci sono cioè allestimenti che affiancano a una messa in scena insipida un’esecuzione musicale di routine e cantanti tutt’altro che ispirati? Se la risposta è sì, allora la Turandot vista al Regio di Torino è uno di quelli. E quando le «scene sono belle» e i «costumi ricchi» c’è da giurarci che sotto sotto si nasconde una totale assenza di idea registica.

Già prodotto dal Carlo Felice di Genova dieci anni fa e importato per ridurre i costi (poi però non si importa dallo stesso teatro la produzione di Otello del torinese Livermore, ma se ne produce una nuova con uno sconosciuto regista inglese) (1), l’impianto scenico rigorosamente simmetrico e con la dovuta presenza di scalinate, colonne decorate da draghi e archi in finto oro e finto marmo di Luciano Ricceri è da manuale del geometra e dà al pubblico esattamente quello che si aspetta senza deluderlo riguardo al côté esotico (anche se è un oriente di maniera), ma senza neanche turbarlo con idee nuove.

Giuliano Montaldo ignora il lavoro sui personaggi che sono lasciati a loro stessi e come regista si limita a far entrare e uscire le masse corali, sempre in maniera rigorosamente simmetrica ovviamente. Invadenti e convenzionali se non ridicole (ah quella danza della spada del boia!) le coreografie di Giovanni Di Cicco. Curati dal punto di vista iconografico sono i costumi dell’altra Montaldo, Elisabetta.

Il ruolo della protagonista, venuta a mancare la titolare all’ultimo momento, è stato sostenuto da una Johanna Rusanen del tutto fuori parte. Roberto Aronica come Calaf arriva stremato sia nel «Nessun dorma» sia nel duetto finale di Alfano (quando ci si deciderà a eliminare questo brutto finale posticcio sarà sempre troppo tardi. Piuttosto, se proprio non si vuole mandare a casa il pubblico col magone per la morte di Liù allora si faccia la versione di Berio). Un po’ meglio è Carmen Giannattasio che però non ha la luminosità giovanile richiesta dalla parte di Liù. Il trio dei ministri non è più sopportabile del solito mentre Giacomo Prestia dà voce a un autorevole Timur.

In buca Pinchas Steinberg dà una lettura molto secca e percussiva della partitura ignorandone gli aspetti atmosferici e decadenti.

Sala gremita, ovviamente, e grande successo. «Belle scene e bei costumi» si sentiva al guardaroba.

(1) Che si rivelerà il peggior allestimento della stagione.

Turandot

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★★★☆☆

Turandot kolossal nella Città Proibita

Nel 1924 Puccini moriva lasciando incompiuta la sua ultima opera, quella Turandot tratta sì dalla omonima fiaba del Gozzi, ma mediata dalla traduzione in italiano fatta dal Maffei dell’adattamento tedesco di Schiller. La stessa vicenda era stata oggetto di una versione di pochi anni prima di Ferruccio Busoni. In quello stesso 1924 l’ultimo Imperatore Pu Yi (sì, quello del film di Bertolucci), lasciava per sempre la Città Proibita.

«L’azione si svolge a Pechino, al tempo delle favole» recita la prima didascalia del libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni. Era dai tempi de Le Villi che Puccini non ritornava a un soggetto fiabesco. Quella del Gozzi era una «Fiaba chinese teatrale tragicomica» in cinque atti. Turandot è una delle tre fiabe teatrali messe in musica nel Novecento, che riscopre questo veneziano nato nel 1720, autore delle apologetiche Memorie inutili scritte negli ultimi anni della sua esistenza in cui entrò spesso in polemica con un altro Carlo drammaturgo, Goldoni, e la sua riforma del teatro giudicata troppo moderna. Lui, il conte, che era di tredici anni più giovane e gli sarebbe sopravvissuto di altri tredici anni. Oltre alla Turandot, L’amore delle tre melarance musicato nel 1919 da Prokof’ev e La donna serpente nel 1932 da Casella. A queste bisogna aggiungere il Il re cervo del compositore Angelo Inglese presentato nel 2016.

Adami e Simoni eliminarono le altre figure femminili presenti nel testo del Gozzi – Adelma e Zelima (schiave di Turandot) e Schirina (madre di Zelima) – e i personaggi maschili di Barach (aio di Calaf) e Ismaele (aio del principe di Samarcanda). I nomi dei personaggi rimanenti sono gli stessi ad eccezione dei tre ministri: a Puccini e i suoi  librettisti non importava molto mantenere i vecchi artifici della Commedia dell’Arte e quindi Pantalone, Tartaglia e Brighella divennero i più locali Ping, Pong e Pang.

Atto I. Un mandarino annuncia pubblicamente un editto: Turandot, figlia dell’Imperatore, sposerà il pretendente di sangue reale che abbia svelato tre difficili indovinelli da lei stessa proposti; colui però che non riuscirà a  risolverli, sarà decapitato. Il principe di Persia, ultimo dei tanti sfortunati pretendenti, ha fallito la prova e sarà giustiziato al sorger della luna. All’annuncio, tra la folla impaziente di assistere all’esecuzione, è presente il vecchio Timur che, nella confusione, cade a terra e Liù, la sua fedele schiava, chiede aiuto. Un giovane di nome Calaf corre ad aiutare il vecchio e  riconosce nell’anziano uomo suo padre, re tartaro spodestato. I due si abbracciano commossi e il giovane Calaf prega il padre e la devota schiava Liù di non pronunciare il suo nome per paura dei regnanti cinesi, i quali hanno usurpato il trono del padre. Nel frattempo, mentre il boia affila la lama preparandola per l’esecuzione, la folla continua ad agitarsi. Al sorgere della luna, entra il corteo che accompagna la vittima. Alla vista del giovane principe, la folla, dapprima eccitata, si commuove per la giovane età della vittima, e chiede per lui la grazia. Turandot allora entra e, glaciale, ordina il silenzio alla folla e con un gesto dà l’ordine al boia di giustiziare il Principe. Calaf, che prima l’aveva maledetta per la sua crudeltà, è ora turbato dalla regale bellezza di Turandot, e decide di tentare anche lui la risoluzione dei tre enigmi. Timur e Liù tentano di dissuaderlo, ma lui si lancia verso il gong dell’atrio del palazzo imperiale. Tre figure lo fermano: sono Ping, Pong e Pang, tre ministri del regno, che tentano di convincerlo a lasciar perdere, manifestando l’insensatezza dell’azione che sta per compiere. Ma Calaf, quasi in una sorta di delirio, si libera di loro e suona tre volte il gong, invocando il nome di Turandot. Turandot appare quindi sulla loggia imperiale del palazzo e accetta la sfida.
Atto II. È notte. Ping, Pong e Pang si dolgono di come, in qualità di ministri del regno, siano costretti ad assistere alle troppe esecuzioni delle sfortunate vittime di Turandot, mentre preferirebbero vivere tranquillamente nei loro possedimenti in campagna. Sul piazzale della reggia, tutto è pronto per il rito dei tre enigmi. C’è una lunga scalinata in cima alla quale si trova il trono in oro e pietre preziose dell’imperatore. Ci sono i sapienti, i quali custodiscono le soluzioni degli enigmi, poi ci sono il popolo, il Principe ignoto ed i tre ministri. Ci sono anche Liù e Timur. L’imperatore Altoum invita il principe ignoto, Calaf, a desistere, ma quest’ultimo rifiuta. Il mandarino fa dunque iniziare la prova, ripetendo l’editto imperiale, mentre entra in scena Turandot. La bella principessa spiega il motivo del suo comportamento: molti anni prima il suo regno era caduto nelle mani dei tartari e, in seguito a ciò, una sua antenata era finita nelle mani di uno straniero. In ricordo della sua morte, Turandot aveva giurato che non si sarebbe mai lasciata possedere da un uomo: per questo, aveva inventato questo rito degli enigmi, convinta che nessuno li avrebbe mai risolti. Calaf riesce a risolvere uno dopo l’altro gli enigmi: la speranza, il sangue, Turandot stessa (1). La principessa, disperata supplica il padre di non consegnarla allo straniero, ma per l’imperatore la parola data è sacra. Turandot si rivolge allora al Principe e lo avverte che in questo modo egli avrà solo una donna riluttante e piena d’odio. Calaf la scioglie allora dal giuramento proponendole a sua volta una sfida: se la principessa, prima dell’alba, riuscirà a scoprire il suo nome, egli le regalerà la sua vita. Il nuovo patto è accettato, mentre risuona un’ultima volta, solenne, l’inno imperiale.
Atto III. È notte. Si sentono da lontano gli araldi che annunciano l’ordine della principessa: quella notte nessuno deve dormire a Pechino, il nome del principe ignoto deve essere scoperto a ogni costo, pena la morte. Calaf intanto è sveglio, convinto di vincere e sognando le labbra di Turandot, finalmente libera dall’odio e dall’indifferenza. Giungono Ping, Pong e Pang, che offrono a Calaf qualsiasi cosa per il suo nome. Ma il principe rifiuta. Nel frattempo, Liù e Timur vengono portati davanti ai tre ministri. Appare anche Turandot, che ordina loro di parlare. Liù, per difendere Timur, afferma di essere la sola a conoscere il nome del principe ignoto, ma dice anche che non svelerà mai questo nome. Pur torturata continua a tacere, riuscendo a stupire Turandot: le chiede cosa le dia tanta forza per sopportare le torture, e Liù risponde che è l’amore a darle questa forza. Turandot è turbata da questa dichiarazione, ma torna subito ad essere l’algida principessa di sempre e ordina ai tre ministri di scoprire a tutti i costi il nome del principe ignoto. Liù, sapendo che non riuscirà a tenerlo nascosto ancora, strappa di sorpresa un pugnale ad una guardia e si trafigge a morte, cadendo esanime ai piedi di un sconvolto Calaf. Il corpo senza vita di Liù viene portato via accompagnato dalla folla che prega. Turandot e Calaf restano soli e lui la bacia. La principessa in un primo momento lo respinge, ma poi ammette di aver avuto paura di lui la prima volta che l’aveva visto, e di essere ormai travolta dalla passione. Tuttavia ella è molto orgogliosa, e supplica il principe di non volerla umiliare. Calaf le fa il dono della vita e le rivela il nome: Calaf, figlio di Timur. Turandot, saputo il nome, potrà perderlo, se vuole. Il giorno dopo, davanti al palazzo reale, è riunita dinanzi al trono imperiale una grande folla. Squillano le trombe. Turandot dichiara pubblicamente di conoscere il nome dello straniero: «il suo nome è Amore». Tra le grida di giubilo della folla la principessa si abbandona tra le braccia di Calaf.

L’ultima opera di Puccini, ultrapopolare tra le folle (qui al nord è spesso pronunciata “Türandò”…), non ha mai pienamente convinto certa critica musicale. Ecco cosa dice ad esempio Luigi Rognoni: «La sua vena melodica si esaurisce talora in sovrastrutture di un eccessivo tecnicismo e l’abbondante uso di intonazioni e spunti di musica cinese […] conferisce all’opera un carattere alquanto manierato. La drammaticità di Turandot rimane falsa […] unico vivo il sentimento di Liù, che trova espressioni sincere e talvolta delicate, espressione di quell’ultimo romanticismo “piccolo Borghese” le cui aspirazioni avevano trovato la loro più concreata espressione nella Bohème».

Nel 1998 l’opera debutta per la prima volta in Cina con un’operazione colossale organizzata da Michael Ecker (sua l’Aida a Luxor) con l’orchestra e il coro del Maggio Fiorentino diretti da Zubin Mehta e la regia del più grande regista cinese, quello Zhang Ymou che aveva acceso le Lanterne rosse e descritto il passato e il presente del suo paese in molti film.

Sponsorizzato da banche, istituti finanziari e giornali, lo spettacolo è voluto dal governo cinese quale simbolo della nuova Cina aperta al mondo. Corrispondente da Pechino, Gianni Riotta raccontava allora sul “Corriere”: «Dal punto di vista dell’opera, Zhang traduce in cinese l’opulenta regia di Zeffirelli […] Poi però svolge un’azione sottile di critica. Credete di conoscere la Cina, signori occidentali? E io ve la smonto sotto gli occhi. […] Non la Cina conoscete, suggerisce Zhang, ma le sue ombre, i suoi spettri. Alla fine, quando la frigida Turandot si arrende all’amore di Calaf, i guerrieri saranno addirittura vestiti di carta bianca. E nella scena che Puccini lasciò incompiuta Zhang manda mille comparse sulla scalinata del tempio con in mano ritratti multicolori di cinesi in costume, così come noi ce li immaginiamo. Scocca l’ultima nota […] le comparse-poliziotto girano i manifesti. Scompaiono le figure e appaiono, eleganti, ideogrammi d’argento.»

Premesso che gli spettacoli lirici dal vivo dovrebbero essere proibiti per legge… che cosa dire di questa operazione turistico-commerciale-propagandistico-hollywoodiana voluta dal regime cinese? Magnifica la fastosa e intelligente regia, non favorita dalla ripresa televisiva talora irritante di Hugo Käch e adeguata la direzione di Mehta pur inevitabilmente retorica. I cantanti sono ovviamente amplificati data l’infelice acustica del luogo. Sergeij Larin ha voce sicura, ma non affascinante ed è rigido nei movimenti. La Frittoli è giustamente sentimentale come Liù, ma adotta strane movenze stilizzate. La Turandot della Casolla è irrimediabilmente antipatica e dalla voce un po’ troppo vibrata. Colombara è un credibile Timur. Insopportabile come spesso siccede il trio Ping-Pong-Pang.

Il finale di Alfano qui si dimostra ancora più brutto del solito: bisognerà decidersi a far terminare l’opera dove l’ha lasciato l’autore. Lo spettacolo dal vivo deve aver avuto indubbiamente un grande fascino che si è perso però quasi del tutto sul DVD.

(1) In Gozzi i tre enigmi hanno come soluzioni rispettivamente: il Sole, l’anno, il Leone di Venezia.

  • Turandot, Gergiev/Pountney, Salisburgo, agosto 2002
  • Turandot, Steinberg/Montaldo, Torino, 14 febbraio 2014
  • Turandot, Chailly/Lehnhoff, Milano, 1 maggio 2015
  • Turandot, Noseda/Poda, Torino, 16 gennaio 2018
  • Turandot, Luisotti/Wilson, Madrid, 16 dicembre 2018
  • Turandot, Galli/Cherstich, Bologna, 1 giugno 2019
  • Turandot, Bartoletti/Frigeni, Parma, 17 gennaio 2020
  • Turandot, Pappano, Roma, 12 marzo 2022
  • Turandot, Lyniv/Ai Weiwei, Roma, 20 marzo 2022
  • Turandot, Fogliani/Kramer, Ginevra, 22 giugno 2022
  • Turandot, Mehta/Stölzl, Berlino, 8 luglio 2022
  • Turandot, Armiliato/Zeffirelli, Verona, 7 agosto 2022

L’amore delle tre melarance

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★★★★☆

Una fiaba gioiosa

Sebbene la traduzione letterale dall’originale russo (Любовь к трём апельсинам) sia L’amore per le tre arance, è consuetudine qui in Italia chiamare l’opera di Prokof’ev con il titolo della fiaba teatrale di Carlo Gozzi del 1761 da cui è tratta, L’amore delle tre melarance. Altre sue fiabe, Turandot e La donna serpente, saranno fonti di ispirazione per musicisti del novecento come Puccini, Busoni e Casella.

Nel 1921, anno della prima dell’opera, il compositore russo si trovava negli Stati Uniti da tre anni per cercare fortuna come pianista e come compositor. E in tale veste si presentò al pubblico di Chicago con questo lavoro tratto dalla versione di Mejerchol’d della fiaba di Gozzi. Il libretto in lingua francese è dello stesso musicista e nel 1926 verrà ritradotto in russo per il debutto a Leningrado.

Quella di Prokof’ev è «un’opera tutta visiva e gesticolante, per non poca parte assai vicina al balletto e alla pantomima […] Il filo rosso dell’opera è in mano all’orchestra, un’orchestra mobilissima, sfaccettata all’estremo, piegata alle più diverse e contrastanti necessità, ora sinfoniche, ora descrittive (come in tutto il Prologo), fino alla evocazione o alla pittura musicale di gesti e situazioni (il gioco delle carte, la maledizione di Fata Morgana, le metamorfosi delle melarance)» (Sergio Sablich).

Prologo. I Comici, i Lirici e le Teste vuote discutono sullo spettacolo che sta per iniziare, ma intervengono gli Originali a proclamare che l’autentico teatro è quello che ora si rappresenterà. Per tutta la durata dell’opera i vari gruppi corali resteranno in scena intervenendo nell’azione, talvolta in modo risolutivo.
Atto primo. Nel palazzo del Re di Fiori il principe ereditario soffre di ipocondria: i medici affermano che guarirà solo se riuscirà a ridere. Pantalone allora propone che si proclamino feste e mascherate per risollevare l’animo dell’erede. Il mago Celio gioca a carte con la fata Morgana la sorte del principe, ma è sconfitto. Intanto la nipote Clarissa e il primo ministro Leandro tramano contro il principe per succedergli al trono. Leandro si propone di aggravare la sua ipocondria con un metodo infallibile: inondandolo di prosa ampollosa e tragica, Clarissa invece preferirebbe ricorrere al veleno o a una pallottola. Alla loro congiura si unisce la serva Smeraldina.
Atto secondo. Truffaldino ha finalmente convinto il principe ad assistere alle feste di corte. Sopraggiunge Morgana, travestita da vecchia signora. Truffaldino riconosce la fata e la scaccia, ma questa inciampa e cade a gambe levate suscitando le sospirate risa del principe. Ma presto l’allegria è raggelata dalla maledizione che la fata gli lancia: stregato dall’amore impossibile per tre arance e prigioniero della maga Creonta il principe dovrà liberarle se desidera avere pace.
Atto terzo. Nel deserto il principe e Truffaldino vagano alla ricerca delle tre arance. Celio consegna loro un nastro magico e li ammonisce di aprire le arance solo in presenza di acqua. Trasportati dal diavolo Farfariello nel castello della maga Creonta qui rubano tre grosse arance e fuggono. Nel deserto Truffaldino è tormentato dalla sete e approfittando del sonno del principe apre una delle arance, che nel frattempo sono diventate enormi. Ne esce Linetta che chiede da bere oppure morirà. Disperato Truffaldino apre la seconda arancia da cui esce Nicoletta. Entrambe le fanciulle muoiono. Al risveglio il principe apre la terza arancia, esce Ninetta, la più bella delle tre, che sarebbe destinata a sicura morte se non intervenissero gli Originali con un provvidenziale secchio d’acqua. Ninetta e il principe si abbandonano a un duetto d’amore che entusiasma i Lirici. Alla ricerca di un abito adatto per presentarla a corte, il principe lascia Ninetta sola nel deserto in balia di Morgana e Smeraldina la quale tramuta la fanciulla in un ratto e si sostituisce a lei nell’incontro col re. Il principe si rifiuta, ma il re lo obbliga a rispettare la parola regale e sposare Smeraldina.
Atto quarto. Celio e Morgana si scontrano di nuovo e con l’aiuto degli Originali la fata è rinchiusa nella torre. Giunge il corteo reale e si scopre che sul trono c’è un grosso topo che Celio ritrasforma in Ninetta. La congiura è smascherata e si possono finalmente festeggiare le nozze dei principi.

La registrazione si riferisce all’edizione rappresentata nel 2005 ad Amsterdam con la messa in scena di Laurent Pelly e nell’originale lingua francese. Come sempre nel caso di Pelly la regia qui è più che mai fatta sulla musica. Un esempio è il capolavoro della breve “scena infernale” della partita a carte tra il mago Celio e la fata Morgana: ogni motivo, ogni svolazzo della rutilante orchestra ha il suo corrispettivo visivo. I personaggi della fiaba di Gozzi hanno la bidimensionalità delle carte da gioco e su questa idea si basa la coloratissima e mobile scenografia di Chantal Thomas, con continue deliziose invenzioni.

La spumeggiante partitura è degnamente sostenuta dalla direzione orchestrale di Stéphane Denève e dal nutrito cast che comprende interpreti di sicuro mestiere: dall’anziano Alain Vernhes, Re di Fiori, alla Sandrine Piau, principessa Ninetta, dall’esuberante Anna Shafajinskaja, Fata Morgana dalle fattezze suine, alla tremenda cuoca armata di mestolo e con la voce da basso di Richard Angas, passando per François Le Roux, Sergej Khomov, Sir Williard White etc. Non memorabile invece il principe ipocondriaco di Martial Defontaine.

Come bonus un’introduzione all’opera, interviste e galleria degli interpreti. Sottotitoli anche in italiano.