Turandot

 

Foto © Ennevi

Puccini, Turandot

Verona, Arena, 7 agosto 2022

★★★★☆

bandiera francese.jpg  Ici la version française

In scena all’Arena di Verona la Turandot del nostro immaginario collettivo

La prima stagione lirica all’Arena di Verona ebbe luogo nel 1856 – vi furono eseguiti tra gli altri due lavori di Gaetano Donizetti: Le convenienze teatrali I pazzi per progetto – ma nell’anfiteatro romano si continuarono a tenere spettacoli circensi, pirotecnici, feste, caroselli militari… Solo nel 1913 il monumento veronese divenne in esclusiva il più grande teatro lirico all’aperto del mondo con l’allestimento dell’Aida di Giuseppe Verdi, avvenimento che segnò anche la nascita di un nuovo stile scenografico in cui si abbandonarono le scene dipinte tipiche dei teatri tradizionali per adottare invece elementi tridimensionali. Quello stesso allestimento è ancora messo in scena oggi.

Nel 1928 nell’anfiteatro risuonarono per la prima volta le note di Turandot, l’opera che Giacomo Puccini aveva lasciato incompiuta alla sua morte quattro anni prima. Da allora è il quarto titolo più rappresentato all’Arena, con 150 repliche. Dopo aver messo in scena Turandot alla Scala e al MET, nel 2010 Franco Zeffirelli allestiva qui una nuova produzione creata per l’unicità del palcoscenico veronese. Ripresa varie volte, è la stessa in scena ancora oggi. Dire che il regista sia di casa qui è un’ovvietà se si pensa che quest’anno sono quattro su cinque le sue produzioni: un festival zeffirelliano all’interno del Festival.

«Allestimento fiabesco, Turandot da favola, storica scenografia», così viene presentata la sua messa in scena, che utilizza ogni centimetro dell’amplissimo palcoscenico riempiendolo secondo un ossessivo horror vacui con un pullulare di figure: il «popolo di Pekino» fustigato dalle guardie, i venditori ambulanti, i mendicanti, i risciò, i draghi, i portatori di lanterne, i portatori di alabarde, quelli di stendardi, gli acrobati, le fanciulle con le maniche svolazzanti… L’indubbia abilità del regista a muovere queste immani folle rimane evidente anche in questa ennesima ripresa a distanza di tre anni dalla sua scomparsa. Della sua lettura kitsch e ipertrofica c’è poco da dire: denuncia tutti gli anni che ha, ma piace ai tedeschi stanchi del loro Regietheater, piace agli americani che ritrovano qui Las Vegas e Disneyland, piace a quelli che vengono per la prima volta e non si vogliono perdere l’effetto delle candeline accese sulle immense gradinate. Piace insomma a chi paga il biglietto (e sono quasi trecento euro i posti migliori) e non riesce a trattenere l’applauso quando Calaf bacia la principessa di ghiaccio o quando i trenta e più metri di schermo con su dipinta una folla di draghi cinesi si aprono per mostrare la città proibita con le sue pagode e gli interni dorati. I costumi di Emi Wada e le luci di Paolo Mazzon danno il loro contributo alla magia visiva dello spettacolo, mentre nel solco della consolante prevedibilità sono i movimenti coreografici di Maria Grazia Garofoli.

Ma all’Arena si viene anche per le grandi voci, che qui non mancano mai di fare una comparsa. Dopo le polemiche per la mancata denuncia dell’aggressione all’Ucraina prima e per la questione del black face dopo, Anna Netrebko si pulisce il volto con cui aveva interpretato Aida a luglio e indossa i panni della figlia dell’imperatore cinese replicando il suo trionfo personale. Ci sono poche altre interpreti oggi che possano stare al suo livello in questo ruolo in cui il soprano russo dispiega non solo una proiezione vocale tale da permetterle di riempire l’anfiteatro con i suoi pianissimi, ma soprattutto di interpretare un personaggio che non è soltanto una sanguinaria e gelida vendicatrice di fatti accaduti millenni primi, ma una figura molto umana che porta su di sé l’offesa fatta a una donna come lei. E nel suo caso diventa un po’ più accettabile la resa al principe straniero e il subitaneo cambiamento richiesto dal controverso finale musicato da Franco Alfano, qui drammaturgicamente meno incongruo del solito anche se musicalmente sempre brutto nonostante la bella direzione di Marco Armiliato. L’acustica del teatro non permette certo di apprezzare le eventuali raffinatezze strumentali, ma il direttore musicale del Festival non rinuncia a evidenziare le preziosità di una partitura che guarda al suo tempo – sono gli anni di Stravinskij, Berg, Strauss, Janáček, Ravel… – e al futuro. Giusti sono i tempi scelti e l’equilibrio sonoro con le voci in scena.

Se c’è Netrebko c’è anche Yusif Eyvazov, un Calaf che non potendo ammaliare con il suo timbro di voce fa ricorso a una eccellente tecnica vocale, una perfetta intonazione, a uno squillo poderoso e soprattutto a una convincente interpretazione: non sono solo acuti sparati i suoi, c’è una linea di canto variata e intenzioni che gli valgono, un po’ generosamente da parte del pubblico, il prevedibile bis del «Nessun dorma». Lirica al massimo la Liù di Maria Teresa Leva mentre quasi caricaturale è il Timur di Ferruccio Furlanetto. Efficace come sempre l’Altoum di Carlo Bosi e squillante il Mandarino di Yongjun Park. Di lusso il terzetto dei ministri formato da Gëzim Myshketa (Ping), Matteo Mezzaro (Pong) e Riccardo Rados (Pang).

Quest’anno si è arrivati alla 99esima stagione. L’anno prossimo si celebreranno i cent’anni dell’Arena di Verona Opera Festival ma il pubblico non vedrà deluse le sue aspettative: in cartellone ci saranno le opere di sempre – Aida, Carmen, Barbiere, Rigoletto, Nabucco, Traviata, Butterfly –, i balletti e i recital dei cantanti più amati.