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Giacomo Puccini, Turandot
Ginevra, Grand Théâtre, 22 giugno 2022
(video streaming)
Turandot, femmina castratrice
Ho scoperto (santa ingenuità!) che il finale di Turandot è scelto dal regista, non dal maestro concertatore, ma questa volta sono d’accordo con Daniel Kramer: «Il finale di Alfano è Disney, saccarina, non mi interessa. Non credo che Turandot si sciolga in cinque secondi e “vissero felici e contenti” in un regno macchiato di sangue». Ecco quindi che il regista americano opta per il finale di Berio, molto più adatto alla sua lettura in un mondo distopico con il rituale degli enigmi che diventa un gioco alla Hunger Game in cui uomini cercano di risolvere tre indovinelli e se vincono hanno la principessa, il regno, tutto quanto, me se perdono… beh lo sappiamo, anche se qui non è la testa che viene mozzata, bensì gli attributi virili, ai quali hanno già rinunciato i tre ministri e il mandarino, qui eunuchi, ma non gli energumeni a torso nudo che infestano questa società in cui il popolo è in alto dietro un velino bianco e solo alla fine viene liberato, dopo che i tre si sono accoltellati vicendevolmente e anche gli uomini cattivi sono stati fatti fuori. Per Calaf i tre enigmi formano una specie di viaggio personale dove incoraggiamenti e ostacoli si alternano per fargli conquistare la principessa: lui non è ancora pronto per lei, esattamente come Turandot non è pronta per Calaf.
La regia di Kramer è molto complessa e attenta ai risvolti psicologici e ai rapporti interpersonali: molto tesi quelli tra Calaf e il padre Timur, il quale alla fine lo addita come colpevole della morte di Liù e si trafigge lui stesso, o tra Turandot e Calaf dopo la vittoria di quest’utimo, con lui che guarda con compassione lo smarrimento della donna. Con il finale di Berio diventa drammaturgicamente più accettabile la conversione della principessa di gelo e il loro vivere in pace dopo tanto spargimento di sangue.
La scenografia del Team Lab – un collettivo artistico internazionale, un gruppo interdisciplinare di vari specialisti (artisti, programmatori, ingegneri, animatori di computer grafica, matematici e architetti) la cui pratica collaborativa cerca di navigare alla confluenza di arte, scienza, tecnologia e mondo naturale – restituisce a Turandot quella spettacolarità spesso predominante nelle produzioni dell’ultima opera di Puccini. Qui è coniugata tecnologicamente con raggi laser, luci colorate e proiezioni psichideliche di onde, nuvole e fiori ipercolorati secondo il dominante gusto giapponese. Sulla solita piattaforma rotante una struttura triangolare divisa in scomparti serve vari ambienti mentre in alto un geode cavo dorato serve all’apparizione di Turandot: ad ogni risposta esatta si abbassa e alla fine la donna è costretta a scendere e spogliarsi del manto dorato, uno dei tanti fantasiosi costumi disegnati da Kimie Nakano – tra cui quello di giada di Calaf.
La magnificenza visuale ha un corrispettivi sonoro nella concertazione di Antonino Fogliani alla guida della Orchestre de la Suisse Romande, che esalta la magnificenza strumentale dell’opera con tempi sostenuti e gusto dei particolari. Fogliani riesce a rendere meno evidente la cesura stilistica fra la musica di Puccini e il completamento di Berio: qui le lunghe frasi liriche lasciano posto a un’orchestrazione più frammentata che lascia emergere citazioni tematiche da un pulviscolo sonoro di grande modernità mentre il pathos è ora affidato da Berio a lunghe pagine strumentali. Dopo un avvio un po’ incerto il coro, formato dall’unione di quello del teatro e della Maîtrise du Conservatoire populaire, raggiunge ottimi livelli, aiutato dal fatto di cantare compatto e praticamente fuori scena. Meno esaltante il cast dei solisti con Ingela Brimberg autorevole protagonista titolare ma con acuti talora sforzati e non a suo agio nei salti di registro dei suoi primi interventi, un po’ meglio nel finale. Il Calaf di Teodor Ilincăi è il ruolo meno convincente, nonostante la sicura presenza scenica del tenore rumeno che evidenzia un timbro un po’ ingolato, una certa mancanza di colori risolti tutti in forte e mezzo-forte e incertezze di intonazione. Anche la Liù di Francesca Dotto difetta nei piani, ma il temperamento del soprano compensa largamente nel definire il tono lirico del personaggio. I tre ministri hanno in Simone Del Savio (Ping), Sam Furness (Pang) e Julien Henric (Pong) tre interpreti efficaci, soprattutto vocalmente Del Savio, divertenti e divertiti visto quello che richiede loro il regista. A loro modo importanti anche le tre parti minori di Altoum, a cui dà personalità la figura di Chris Merritt, del Timur di Liang Li e del Mandarino a cui Michael Mofidian presta inusuale rilievo scenico e inusuale potenza vocale.
⸪