Mefistofele


foto © Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma

Arrigo Boito, Mefistofele

Roma, Teatro dell’Opera, 27 novembre 2023

★★★

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Mefistofele a Roma salvato da Mariotti

Il Mefistofele è uno di quei guilty pleasure che pochi ammettono di amare. Un raffinato intenditore di musica mai confesserebbe che gli piace l’operona di Boito, la quale ha invece molti ammiratori nel pubblico melomane.

Quando nel 1868, diretta dallo stesso autore, il lavoro va in scena alla Scala è un fiasco clamoroso, tanto che Boito ne appronta una seconda versione presentata sette anni dopo a Bologna, la città che aveva ascoltato per prima il Lohengrin nel 1871 e che sarebbe diventata la città più wagneriana d’Italia. I cinque atti incorniciati da un Prologo e un Epilogo vengono ridotti a quattro accorciando e soprattutto sopprimendo alcune parti (che l’autore ha distrutto) che portavano avanti un fumoso programma estetico/politico fortemente materialistico e anticlericale. Sono limate le arditezze metriche di certe pagine, Faust da baritono dotto filosofo e pensatore diventa un tenore amoroso e carico di ideali e aumenta la presenza del personaggio di Margherita. Solo il personaggio di Mefistofele rimane intatto.

Così normalizzato, il Mefistofele a Bologna è un grande successo, grazie anche a una migliore compagnia di canto. Bene andrà anche la ripresa veneziana del 1876, in una terza versione. Titolo frequentatissimo a fine Ottocento, da allora, pur con alterne fortune, è abbastanza presente nei cartelloni dei teatri sia in Italia sia all’estero. In questa stagione è in programma a Cagliari, Venezia e ora a Roma dove nel tempo, tra Costanzi e Caracalla, ha avuto più di trenta produzioni diverse, l’ultima nel 2010.

Ennesima riproposta del mito faustiano in musica dopo Spohr (1812), Lortzing (1829), Mendelssohn (1823), Berlioz (1846), Liszt (1857), Gounod (1859) e Schumann (1862), il fatto che Boito metta il diavolo nel titolo la dice lunga sulla sua scelta. Se la versione di Gounod era, secondo Paolo Isotta, una «raccolta di gradevoli e lenificanti melodie [che hanno] ridotto la complessità metafisica e filosofica del poema [di Goethe] all’aneddoto della storia d’amore di Faust e Margherita, a uso di platee borghesi», quella del miscredente Boito è più fedele all’originale goethiano e ha una sua profondità, trattando del bene e del male, del sublime e del grottesco, della debolezza umana e del desiderio dell’uomo di trascendere la finitudine dell’essere. Scritto pochi anni prima di Nietzsche e in un’epoca in cui, se non ancora morto, Dio veniva messo comunque in discussione, il Faust di Boito cerca di dare significato al concetto di vita in sé.

Il libretto, dello stesso compositore, è scritto nello stile erudito e artificioso della scapigliatura, mentre la musica volge lo sguardo lontano da Wagner di cui Boito ammira sì «la suprema incarnazione del dramma», ma non il linguaggio musicale: il suo tende a una semplificazione nell’armonia e nelle forme, forse conscio della limitatezza delle sue capacità compositive (Boito è essenzialmente un letterato) e dei gusti del pubblico, che di lì a poco sarà conquistato dal Verismo. Ma il suo stile ipertrofico, magniloquente e irrimediabilmente kitsch affascina invece noi cinici ascoltatori moderni.

Ed è quello che è successo all’inaugurazione della stagione dell’Opera di Roma dove è stata la musica nella concertazione di Michele Mariotti a salvare uno spettacolo che si è rivelato non memorabile per gli interpreti e discutibile per la parte visiva. Il suo direttore musicale, per la prima volta alle prese con questo titolo dopo essere stato ammirato per lo più nel repertorio belcantistico, ha saputo trarre il meglio da una partitura a suo modo sperimentale per la discontinuità e la varietà di ambientazioni in cui è calata la vicenda – il cielo del prologo; Francoforte il giorno di Pasqua; lo studio di Faust; un giardino «di rustica apparenza»; il monte delle streghe del primo sabba; la prigione di Margherita; il paesaggio classico del secondo sabba – ognuna connotata da un suo colore e stile musicale. Mariotti dà unità a questo variegato disegno musicale, riesce a preservare la distinzione fra i diversi quadri ma li inserisce in una narrazione fluida dove le invenzioni melodiche si inseriscono con naturalezza. Peccato che la fluidità del discorso musicale venga interrotta dagli interminabili cambi di scena imposti dalla messa in scena di Simon Stone che è alla sua prima regia lirica in Italia – di lui s’era visto Tre sorelle di Čechov al Carignano di Torino – ma ha già affiancato Mariotti nella famosa Traviata di Parigi. 

Il regista tedesco-australiano ha concepito molti spettacoli di grande impatto, l’ultimo è stato il bellissimo The Greek Passion di Salisburgo la scorsa estate, ma questo non sembra convincente: seppure basato su presupposti validi quali quelli di svecchiare una tradizione polverosa, il suo stile registico qui, più che altrove, non rende merito all’opera. Il Mefistofele di Boito è frutto di una visione estetica che non ci appartiene più e bene aveva fatto Robert Carsen a leggere con ironia questo lavoro in cui il sublime è indissolubilmente legato al kitsch, qui entrambi assenti nella lettura fredda e analitica di Stone, realizzata per di più senza grazia. Non si spiega altrimenti la costruzione di un mondo asettico e gelido, perennemente immerso nel bianco di impianti scenografici, disegnati da Mel Page, di rara bruttezza: dal parcheggio multipiano del prologo, alla giostrina del primo atto alla vasca con le palline di plastica colorata, dalle pareti con le radiografie (ma Faust non era un filosofo?) alla rozza gradinata, dai colonnati di gesso alle poltrone-botola della casa di riposo del finale. Di Page sono anche gli incongrui costumi: vada per Mefistofele vestito da clown di Stephen King o in completo Domopak, ma perché Margherita, «fanciulla del villaggio» dalla «ruvida man», è vestita di lamé dorato? E perché Faust, cavaliere «splendidamente vestito», in mimetica?

Negli spazi senza profondità di questa triste scenografia il coro istruito dal Maestro Ciro Visco offre una prova eccellente per intonazione e precisione. Il regista lo tiene schierato sempre immobile – la cosa gli riesce particolarmente bene… – mentre i personaggi vagano senza una qualche indicazione registica: Faust va su e giù come un orso in gabbia, le seduttrici non seducono, anzi sono imbarazzanti, solo Mefistofele si muove con un minimo di disinvoltura.

La produzione prevede due cast per gli interpreti principali e alla prima è John Relyea (si pronuncia relièi) a vestire i panni dell’istrionico protagonista. Il timbro un po’ morchioso non è particolarmente gradevole e ne soffre anche la gamma di colori esprimibili, ma il volume è potente e il fraseggio incisivo, sono suoi gli interventi più caustici dell’opera, da «Son lo spirito che nega» dell’atto primo a «Ecco il mondo» del secondo. Ne esce fuori un personaggio sardonico più che demoniaco, in linea con le intenzioni del compositore, ma certo non memorabile. Faust è, come s’è detto, un tenore in questa versione e Joshua Guerrero investe il suo non travolgente carisma in questo ruolo che non ha particolari difficoltà – con Boito siamo ben lontani dal belcanto italiano – essendo in parte declamato, ma con momenti in cui la componente lirica predomina, ed è il caso di «Dai campi, dai prati» del primo atto o «Giunto sul passo estremo» dell’epilogo. Guerrero rivela una certa povertà di colori e fragili mezze voci, è più a suo agio nei momenti passionali con Margherita, ma qui Maria Agresta mette tutti a tacere per la sua maiuscola interpretazione e intensità espressiva. Sarebbe da brividi la sua livida «L’altra notte in fondo al mare» se non fosse disturbata dalle immagini di Faust che si accoppia a una donzella e altre amenità che si vedono attraverso un’apertura dietro a lei. Nelle parti minori si sono distinti Sofia Koberidze (Marta), Marco Miglietta (Wagner) e Leonardo Trinciarelli (Nereo).

Un pubblico particolarmente poco educato – lo spettacolo è iniziato con un quarto d’ora di ritardo ma molti spettatori sono stati ammessi in sala ancora per lungo tempo durante il prologo e alla fine di ogni intervallo si è ripetuta la scena di chi riprendeva il proprio posto o lo trovava occupato con conseguente trambusto, per non dire dei telefonini perennemente accesi – ha applaudito con moderato entusiasmo gli artefici della parte musicale, solo il direttore Mariotti ha ottenuto qualche applauso in più, e buato il regista. Lo spettacolo si potrà rivedere a Madrid essendo una coproduzione del Costanzi e del Real.