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Arrigo Boito, Mefistofele
Venezia, Teatro La Fenice, 12 aprile 2024
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Mefistofele a Venezia: «Riddiamo, riddiamo»!
Tempi fortunati per Arrigo Boito: il suo Mefistofele ha inaugurato pochi mesi fa la stagione dell’Opera di Roma e a Cagliari ha fatto scalpore il suo Nerone. Ora Mefistofele è in scena a Venezia e si conferma opera di interesse soprattutto oggi per il suo carattere eccessivo, estremamente moderno per il taglio delle scene ben distinte e con un carattere e uno stile musicale proprio. «Opera del presente» l’aveva definita Boito, «suprema incarnazione del dramma […] completa obliterazione della forma», quella tradizionale del melodramma ovviamente, con una concezione totalmente innovativa. Un lavoro anomalo questo e uno dei pochi casi, assieme alla Gioconda – su libretto dello stesso Boito ma la musica di Ponchielli stilisticamente sembra più vecchia di cinquant’anni – è l’unica opera non di Verdi di questo periodo ad essere rimasta in repertorio. Lavoro fortemente provocatorio nei confronti della critica del tempo e del pubblico a cui l’autore dirige preventivamente i fischi, anticipando di mezzo secolo le intemperanze dei futuristi.
Tre le versioni: quella originale del 1868, estremamente ambiziosa, in due prologhi, un intermezzo sinfonico e otto quadri in cinque atti, dopo il solenne fiasco milanese venne in parte distrutta dall’autore; una seconda versione a Bologna nel 1875 e una terza definitiva dopo le riprese a Venezia (1879) e nuovamente alla Scala (1881) in un prologo, quattro atti e un epilogo. L’orchestra è wagneriana nelle dimensioni: 2 flauti, ottavino, 2 oboi, 6 clarinetti, clarinetto piccolo, 2 fagotti, 8 corni, 8 trombe, 8 tromboni, oficleide, basso tuba, timpani, percussioni, organo e archi. La forma rifugge il modello classico del melodramma all’italiana e si configura come manifesto dei nuovi ideali estetici di ispirazione wagneriana. Opera faro della scapigliatura milanese, voleva realizzare l’ambizioso progetto di rinnovare il melodramma italiano anche se nel Mefistofele sono presenti i “famigerati” numeri chiusi, ma qui stiamo parlando della terza versione, della prima non sappiamo nulla.
Questa problematica è ben presente nella lettura di Nicola Luisotti, che a capo dell’orchestra del teatro in serata di grazia affronta un titolo che ha già eseguito, ma questa volta utilizza una versione depurata delle correzioni strumentali apportate da Toscanini nel 1919, la versione che è stata sempre utilizzata. Quella di Luisotti è quanto ascoltarono i Veneziani del Teatro Rossini nel 1876 nella direzione di Franco Faccio, con la fuga della ridda infernale e l’aria di Margherita «Spunta l’aurora pallida». Pur evidenziando la diversità dei quadri, Luisotti riesce a dare unità al lavoro esaltandone l’aspetto beffardo e sarcastico con tempi sostenuti, una forza teatrale trascinante e volumi sonori adeguati – le voci disponibili, lo vedremo, lo permettono – assieme ad abbandoni lirici o di angoscioso dolore come la scena di Margherita nel carcere. Una prova che il pubblico ha dimostrato di apprezzare per la sua eccellenza.
Era già stato il Mefistofele di Berlioz (La damnation de Faust a Roma nel 2017) e di Gounod (Faust qui a Venezia nel 2021 e nuovamente nel 2022), per non dire del Lindorf /Coppelius/Miracle/Dapertutto di Offenbach (Contes d’Hoffmann ancora a Venezia per l’apertura di questa stagione): Alex Esposito sembra avere una disposizione per i personaggi diabolici che ricrea con la sua ineguagliabile presenza scenica e una voce che ogni volta stupisce per proiezione e che supera agevolmente qualunque fortissimo orchestrale. E poi per l’estensione nella gamma di baritono-basso, per la bellezza del timbro, l’espressività, la cura della parola, la tenuta dei fiati e la resistenza alla fatica, queste ultime due doti essenziali in una parte quasi sempre presente sulla scena e alla quale l’autore non fa sconti in termini di richieste vocali. Esposito non sembra accusare la minima stanchezza e la standing ovation che gli tributa il pubblico – cosa che raramente accade nel teatro veneziano – è il giusto merito per una performance che non è esagerato definire storica.
In un’opera in cui Mefistofele ha rubato il titolo a Faust, passato da baritono nella prima versione a tenore, il ruolo diventa “secondario” ma non certo per le difficoltà vocali richieste. Piero Pretti debutta nella parte e conferma luci e ombre del suo stile: una voce potente e sonora ma con un declamato stentoreo e un’espressività piatta. L’emozione del debutto deve essere poi stata la causa per qualche intonazione non ineccepibile. Problemi più evidenti invece per Maria Agresta, ammirata Margherita nel Mefistofele romano, ma qui in cattiva serata probabilmente per una non perfetta forma fisica: i suoni nel quartetto del secondo atto sono decisamente brutti e nell’aria «L’altra notte in fondo al mare» una nota presa male non ha confermato una situazione che ci auguriamo di cuore migliori nelle prossime repliche.
Efficacemente connotata risulta la Marta di Kamelia Kader, anche Pantalis, mentre Maria Teresa Leva offre la sua sontuosa presenza e vocalità al personaggio di Elena. Enrico Casari completa il cast come Wagner e Nereo. Ottimi i cori: da quello del teatro guidato da Alfonso Caiani a quello di voci bianche dei Piccoli Cantonri Veneziani istruiti da Diana d’Alessio.
Una coppia di francesi ha allestito l’attuale Sonnambula di Roma, un’altra coppia francese ha messo in scena questo spettacolo veneziano, ma con risultati nettamente diversi: se al Costanzi la regia è stata accolta da rumorosi dissensi, qui alla Fenice i creatori della parte visiva sono stati accomunati nelle ovazioni a quelli della parte musicale. Patrice Caurier e Moshe Leiser, quest’ultimo anche per le scene, con i bellissimi costumi di Agostino Cavalca, il geniale light design di Christophe Forey, il sobrio ma efficace video design di Etienne Guiol e la gustosa coreografia di Beate Vollack hanno concepito uno spettacolo che si è rivelato gioiosamente godibile, molto ben costruito e soprattutto perfettamente in linea con lo spirito dissacratore e iconoclasta dell’opera. Ambientato nel presente, dell’attualità ha denunciato i problemi senza però deviare dalla linea del racconto che è stato rispettato alla lettera così come è stato fatto con la musica.
Il prologo non si svolge in cielo, ma nel salotto di Mefistofele il quale, dopo aver consegnato la sua partitura al direttore d’orchestra, si toglie le corna, si sveste e fa la doccia. Poi si rimette la felpa e si sprofonda in poltrona dove invece delle falange celesti e dei cori mistici segue una trasmissione col Papa: il telecomando che non funziona costringe il diavolo a seguire CattoTv! La scena è quella vuota del teatro dietro le quinte, ma dall’alto scende la scatola/stanza di Faust e se non fosse per un violoncello appoggiato a una sedia, lo si scambierebbe per un grigio impiegato del catasto dalla mesta figura, l’uomo giusto da adescare e a cui promettere i servigi per le sue voglie in questa vita. Infatti, dopo la scena della festa di Pasqua magnificamente realizzata (una vivacissima partita di calcio con la squadra del Francoforte…), il misterioso frate grigio propone il contratto e inizia il viaggio – un trip provocato da un’iniezione di eroina – verso «l’orgie ghiotte».
Si inizia dal giardino di Martha, il triste dehors di una Bier Stube con tanto di porcello da cavalcare. Il sabba infernale è invece un rave con personaggi dark che non si curano dell’incendio che divampa nella foresta e poi nel teatro. E, inutile dirlo, vedere le fiamme nella sala della Fenice, anche se sono soltanto immagini proiettate, fa una certa impressione.
Il sabba classico è una soirée musicale con un’Elena primadonna accanto a un pianoforte senza pianista e con momenti coreografici di un ironico ballet blanc. Tutto in nero invece il finale dove ritroviamo Faust nella sua stanzetta mentre strimpella il violoncello e il diavolo questa volta contro il pubblico non rivolge il suo fischio, bensì un’arma, ma inutilmente, mentre le falangi celesti intonano gloriosamente «qui eterna è l’ora; a misurar | non vale ègro tempo mortale | l’inno ideale che si canta in ciel».
Il Mefistofele mancava da Venezia dal 1969. Questa produzione fa perdonare la colpa di così lunga assenza e ha definitivamente consacrato questo anomalo lavoro quale titolo degno di una maggiore frequentazione nel repertorio.
⸪