Arrigo Boito

Mefistofele


foto © Michele Crosera

Arrigo Boito, Mefistofele

Venezia, Teatro La Fenice, 12 aprile 2024

★★★

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Mefistofele a Venezia: «Riddiamo, riddiamo»!

Tempi fortunati per Arrigo Boito: il suo Mefistofele ha inaugurato pochi mesi fa la stagione dell’Opera di Roma e a Cagliari ha fatto scalpore il suo Nerone. Ora Mefistofele è in scena a Venezia e si conferma opera di interesse soprattutto oggi per il suo carattere eccessivo, estremamente moderno per il taglio delle scene ben distinte e con un carattere e uno stile musicale proprio. «Opera del presente» l’aveva definita Boito, «suprema incarnazione del dramma […] completa obliterazione della forma», quella tradizionale del melodramma ovviamente, con una concezione totalmente innovativa. Un lavoro anomalo questo e uno dei pochi casi, assieme alla Gioconda – su libretto dello stesso Boito ma la musica di Ponchielli stilisticamente sembra più vecchia di cinquant’anni – è l’unica opera non di Verdi di questo periodo ad essere rimasta in repertorio. Lavoro fortemente provocatorio nei confronti della critica del tempo e del pubblico a cui l’autore dirige preventivamente i fischi, anticipando di mezzo secolo le intemperanze dei futuristi.

Tre le versioni: quella originale del 1868, estremamente ambiziosa, in due prologhi, un intermezzo sinfonico e otto quadri in cinque atti, dopo il solenne fiasco milanese venne in parte distrutta dall’autore; una seconda versione a Bologna nel 1875 e una terza definitiva dopo le riprese a Venezia (1879) e nuovamente alla Scala (1881) in un prologo, quattro atti e un epilogo. L’orchestra è wagneriana nelle dimensioni: 2 flauti, ottavino, 2 oboi, 6 clarinetti, clarinetto piccolo, 2 fagotti, 8 corni, 8 trombe, 8 tromboni, oficleide, basso tuba, timpani, percussioni, organo e archi. La forma rifugge il modello classico del melodramma all’italiana e si configura come manifesto dei nuovi ideali estetici di ispirazione wagneriana. Opera faro della scapigliatura milanese, voleva realizzare l’ambizioso progetto di rinnovare il melodramma italiano anche se nel Mefistofele sono presenti i “famigerati” numeri chiusi, ma qui stiamo parlando della terza versione, della prima non sappiamo nulla.

Questa problematica è ben presente nella lettura di Nicola Luisotti, che a capo dell’orchestra del teatro in serata di grazia affronta un titolo che ha già eseguito, ma questa volta utilizza una versione depurata delle correzioni strumentali apportate da Toscanini nel 1919, la versione che è stata sempre utilizzata. Quella di Luisotti è quanto ascoltarono i Veneziani del Teatro Rossini nel 1876 nella direzione di Franco Faccio, con la fuga della ridda infernale e l’aria di Margherita «Spunta l’aurora pallida». Pur evidenziando la diversità dei quadri, Luisotti riesce a dare unità al lavoro esaltandone l’aspetto beffardo e sarcastico con tempi sostenuti, una forza teatrale trascinante  e volumi sonori adeguati – le voci disponibili, lo vedremo, lo permettono – assieme ad abbandoni lirici o di angoscioso dolore come la scena di Margherita nel carcere. Una prova che il pubblico ha dimostrato di apprezzare per la sua eccellenza.

Era già stato il Mefistofele di Berlioz (La damnation de Faust a Roma nel 2017) e di Gounod (Faust qui a Venezia nel 2021 e nuovamente nel 2022), per non dire del Lindorf /Coppelius/Miracle/Dapertutto di Offenbach (Contes d’Hoffmann ancora a Venezia per l’apertura di questa stagione): Alex Esposito sembra avere una disposizione per i personaggi  diabolici che ricrea con la sua ineguagliabile presenza scenica e una voce che ogni volta stupisce per proiezione e che supera agevolmente qualunque fortissimo orchestrale. E poi per l’estensione nella gamma di  baritono-basso, per la bellezza del timbro, l’espressività, la cura della parola, la tenuta dei fiati e la resistenza alla fatica, queste ultime due doti essenziali in una parte quasi sempre presente sulla scena e alla quale l’autore non fa sconti in termini di richieste vocali. Esposito non sembra accusare la minima stanchezza e la standing ovation che gli tributa il pubblico – cosa che raramente accade nel teatro veneziano – è il giusto merito per una performance che non è esagerato definire storica.

In un’opera in cui Mefistofele ha rubato il titolo a Faust, passato da baritono nella prima versione a tenore, il ruolo diventa “secondario” ma non certo per le difficoltà vocali richieste. Piero Pretti debutta nella parte e conferma luci e ombre del suo stile: una voce potente e sonora ma con un declamato stentoreo e un’espressività piatta. L’emozione del debutto deve essere poi stata la causa per qualche intonazione non ineccepibile. Problemi più evidenti invece per Maria Agresta, ammirata Margherita nel Mefistofele romano, ma qui in cattiva serata probabilmente per una non perfetta forma fisica: i suoni nel quartetto del secondo atto sono decisamente brutti e nell’aria «L’altra notte in fondo al mare» una nota presa male non ha confermato una situazione che ci auguriamo di cuore migliori nelle prossime repliche.

Efficacemente connotata risulta la Marta di Kamelia Kader, anche Pantalis, mentre Maria Teresa Leva offre la sua sontuosa presenza e vocalità al personaggio di Elena. Enrico Casari completa il cast come Wagner e Nereo. Ottimi i cori: da quello del teatro guidato da Alfonso Caiani a quello di voci bianche dei Piccoli Cantonri Veneziani istruiti da Diana d’Alessio.

Una coppia di francesi ha allestito l’attuale Sonnambula di Roma, un’altra coppia francese ha messo in scena questo spettacolo veneziano, ma con risultati nettamente diversi: se al Costanzi la regia è stata accolta da rumorosi dissensi, qui alla Fenice i creatori della parte visiva sono stati accomunati nelle ovazioni a quelli della parte musicale. Patrice Caurier e Moshe Leiser, quest’ultimo anche per le scene, con i bellissimi costumi di Agostino Cavalca, il geniale light design di Christophe Forey, il sobrio ma efficace video design di Etienne Guiol e la gustosa coreografia di Beate Vollack hanno concepito uno spettacolo che si è rivelato gioiosamente godibile, molto ben costruito e soprattutto perfettamente in linea con lo spirito dissacratore e iconoclasta dell’opera. Ambientato nel presente, dell’attualità ha denunciato i problemi senza però deviare dalla linea del racconto che è stato rispettato alla lettera così come è stato fatto con la musica.

Il prologo non si svolge in cielo, ma nel salotto di Mefistofele il quale, dopo aver consegnato la sua partitura al direttore d’orchestra, si toglie le corna, si sveste e fa la doccia. Poi si rimette la felpa e si sprofonda in poltrona dove invece delle falange celesti e dei cori mistici segue una trasmissione col Papa: il telecomando che non funziona costringe il diavolo a seguire CattoTv! La scena è quella vuota del teatro dietro le quinte, ma dall’alto scende la scatola/stanza di Faust e se non fosse per un violoncello appoggiato a una sedia, lo si scambierebbe per un grigio impiegato del catasto dalla mesta figura, l’uomo giusto da adescare e a cui promettere i servigi per le sue voglie in questa vita. Infatti, dopo la scena della festa di Pasqua magnificamente realizzata (una vivacissima partita di calcio con la squadra del Francoforte…), il misterioso frate grigio propone il contratto e inizia il viaggio – un trip provocato da un’iniezione di eroina – verso «l’orgie ghiotte».

Si inizia dal giardino di Martha, il triste dehors di una Bier Stube con tanto di porcello da cavalcare. Il sabba infernale è invece un rave con personaggi dark che non si curano dell’incendio che divampa nella foresta e poi nel teatro. E, inutile dirlo, vedere le fiamme nella sala della Fenice, anche se sono soltanto immagini proiettate,  fa una certa impressione. 

Il sabba classico è una soirée musicale con un’Elena primadonna accanto a un pianoforte senza pianista e con momenti coreografici di un ironico ballet blanc. Tutto in nero invece il finale dove ritroviamo Faust nella sua stanzetta mentre strimpella il violoncello e il diavolo questa volta contro il pubblico non rivolge il suo fischio, bensì un’arma, ma inutilmente, mentre le falangi celesti intonano gloriosamente «qui eterna è l’ora; a misurar | non vale ègro tempo mortale | l’inno ideale che si canta in ciel». 

Il Mefistofele mancava da Venezia dal 1969. Questa produzione fa perdonare la colpa di così lunga assenza e ha definitivamente consacrato questo anomalo lavoro quale titolo degno di una maggiore frequentazione nel repertorio.

Mefistofele


foto © Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma

Arrigo Boito, Mefistofele

Roma, Teatro dell’Opera, 27 novembre 2023

★★★

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Mefistofele a Roma salvato da Mariotti

Il Mefistofele è uno di quei guilty pleasure che pochi ammettono di amare. Un raffinato intenditore di musica mai confesserebbe che gli piace l’operona di Boito, la quale ha invece molti ammiratori nel pubblico melomane.

Quando nel 1868, diretta dallo stesso autore, il lavoro va in scena alla Scala è un fiasco clamoroso, tanto che Boito ne appronta una seconda versione presentata sette anni dopo a Bologna, la città che aveva ascoltato per prima il Lohengrin nel 1871 e che sarebbe diventata la città più wagneriana d’Italia. I cinque atti incorniciati da un Prologo e un Epilogo vengono ridotti a quattro accorciando e soprattutto sopprimendo alcune parti (che l’autore ha distrutto) che portavano avanti un fumoso programma estetico/politico fortemente materialistico e anticlericale. Sono limate le arditezze metriche di certe pagine, Faust da baritono dotto filosofo e pensatore diventa un tenore amoroso e carico di ideali e aumenta la presenza del personaggio di Margherita. Solo il personaggio di Mefistofele rimane intatto.

Così normalizzato, il Mefistofele a Bologna è un grande successo, grazie anche a una migliore compagnia di canto. Bene andrà anche la ripresa veneziana del 1876, in una terza versione. Titolo frequentatissimo a fine Ottocento, da allora, pur con alterne fortune, è abbastanza presente nei cartelloni dei teatri sia in Italia sia all’estero. In questa stagione è in programma a Cagliari, Venezia e ora a Roma dove nel tempo, tra Costanzi e Caracalla, ha avuto più di trenta produzioni diverse, l’ultima nel 2010.

Ennesima riproposta del mito faustiano in musica dopo Spohr (1812), Lortzing (1829), Mendelssohn (1823), Berlioz (1846), Liszt (1857), Gounod (1859) e Schumann (1862), il fatto che Boito metta il diavolo nel titolo la dice lunga sulla sua scelta. Se la versione di Gounod era, secondo Paolo Isotta, una «raccolta di gradevoli e lenificanti melodie [che hanno] ridotto la complessità metafisica e filosofica del poema [di Goethe] all’aneddoto della storia d’amore di Faust e Margherita, a uso di platee borghesi», quella del miscredente Boito è più fedele all’originale goethiano e ha una sua profondità, trattando del bene e del male, del sublime e del grottesco, della debolezza umana e del desiderio dell’uomo di trascendere la finitudine dell’essere. Scritto pochi anni prima di Nietzsche e in un’epoca in cui, se non ancora morto, Dio veniva messo comunque in discussione, il Faust di Boito cerca di dare significato al concetto di vita in sé.

Il libretto, dello stesso compositore, è scritto nello stile erudito e artificioso della scapigliatura, mentre la musica volge lo sguardo lontano da Wagner di cui Boito ammira sì «la suprema incarnazione del dramma», ma non il linguaggio musicale: il suo tende a una semplificazione nell’armonia e nelle forme, forse conscio della limitatezza delle sue capacità compositive (Boito è essenzialmente un letterato) e dei gusti del pubblico, che di lì a poco sarà conquistato dal Verismo. Ma il suo stile ipertrofico, magniloquente e irrimediabilmente kitsch affascina invece noi cinici ascoltatori moderni.

Ed è quello che è successo all’inaugurazione della stagione dell’Opera di Roma dove è stata la musica nella concertazione di Michele Mariotti a salvare uno spettacolo che si è rivelato non memorabile per gli interpreti e discutibile per la parte visiva. Il suo direttore musicale, per la prima volta alle prese con questo titolo dopo essere stato ammirato per lo più nel repertorio belcantistico, ha saputo trarre il meglio da una partitura a suo modo sperimentale per la discontinuità e la varietà di ambientazioni in cui è calata la vicenda – il cielo del prologo; Francoforte il giorno di Pasqua; lo studio di Faust; un giardino «di rustica apparenza»; il monte delle streghe del primo sabba; la prigione di Margherita; il paesaggio classico del secondo sabba – ognuna connotata da un suo colore e stile musicale. Mariotti dà unità a questo variegato disegno musicale, riesce a preservare la distinzione fra i diversi quadri ma li inserisce in una narrazione fluida dove le invenzioni melodiche si inseriscono con naturalezza. Peccato che la fluidità del discorso musicale venga interrotta dagli interminabili cambi di scena imposti dalla messa in scena di Simon Stone che è alla sua prima regia lirica in Italia – di lui s’era visto Tre sorelle di Čechov al Carignano di Torino – ma ha già affiancato Mariotti nella famosa Traviata di Parigi. 

Il regista tedesco-australiano ha concepito molti spettacoli di grande impatto, l’ultimo è stato il bellissimo The Greek Passion di Salisburgo la scorsa estate, ma questo non sembra convincente: seppure basato su presupposti validi quali quelli di svecchiare una tradizione polverosa, il suo stile registico qui, più che altrove, non rende merito all’opera. Il Mefistofele di Boito è frutto di una visione estetica che non ci appartiene più e bene aveva fatto Robert Carsen a leggere con ironia questo lavoro in cui il sublime è indissolubilmente legato al kitsch, qui entrambi assenti nella lettura fredda e analitica di Stone, realizzata per di più senza grazia. Non si spiega altrimenti la costruzione di un mondo asettico e gelido, perennemente immerso nel bianco di impianti scenografici, disegnati da Mel Page, di rara bruttezza: dal parcheggio multipiano del prologo, alla giostrina del primo atto alla vasca con le palline di plastica colorata, dalle pareti con le radiografie (ma Faust non era un filosofo?) alla rozza gradinata, dai colonnati di gesso alle poltrone-botola della casa di riposo del finale. Di Page sono anche gli incongrui costumi: vada per Mefistofele vestito da clown di Stephen King o in completo Domopak, ma perché Margherita, «fanciulla del villaggio» dalla «ruvida man», è vestita di lamé dorato? E perché Faust, cavaliere «splendidamente vestito», in mimetica?

Negli spazi senza profondità di questa triste scenografia il coro istruito dal Maestro Ciro Visco offre una prova eccellente per intonazione e precisione. Il regista lo tiene schierato sempre immobile – la cosa gli riesce particolarmente bene… – mentre i personaggi vagano senza una qualche indicazione registica: Faust va su e giù come un orso in gabbia, le seduttrici non seducono, anzi sono imbarazzanti, solo Mefistofele si muove con un minimo di disinvoltura.

La produzione prevede due cast per gli interpreti principali e alla prima è John Relyea (si pronuncia relièi) a vestire i panni dell’istrionico protagonista. Il timbro un po’ morchioso non è particolarmente gradevole e ne soffre anche la gamma di colori esprimibili, ma il volume è potente e il fraseggio incisivo, sono suoi gli interventi più caustici dell’opera, da «Son lo spirito che nega» dell’atto primo a «Ecco il mondo» del secondo. Ne esce fuori un personaggio sardonico più che demoniaco, in linea con le intenzioni del compositore, ma certo non memorabile. Faust è, come s’è detto, un tenore in questa versione e Joshua Guerrero investe il suo non travolgente carisma in questo ruolo che non ha particolari difficoltà – con Boito siamo ben lontani dal belcanto italiano – essendo in parte declamato, ma con momenti in cui la componente lirica predomina, ed è il caso di «Dai campi, dai prati» del primo atto o «Giunto sul passo estremo» dell’epilogo. Guerrero rivela una certa povertà di colori e fragili mezze voci, è più a suo agio nei momenti passionali con Margherita, ma qui Maria Agresta mette tutti a tacere per la sua maiuscola interpretazione e intensità espressiva. Sarebbe da brividi la sua livida «L’altra notte in fondo al mare» se non fosse disturbata dalle immagini di Faust che si accoppia a una donzella e altre amenità che si vedono attraverso un’apertura dietro a lei. Nelle parti minori si sono distinti Sofia Koberidze (Marta), Marco Miglietta (Wagner) e Leonardo Trinciarelli (Nereo).

Un pubblico particolarmente poco educato – lo spettacolo è iniziato con un quarto d’ora di ritardo ma molti spettatori sono stati ammessi in sala ancora per lungo tempo durante il prologo e alla fine di ogni intervallo si è ripetuta la scena di chi riprendeva il proprio posto o lo trovava occupato con conseguente trambusto, per non dire dei telefonini perennemente accesi – ha applaudito con moderato entusiasmo gli artefici della parte musicale, solo il direttore Mariotti ha ottenuto qualche applauso in più, e buato il regista. Lo spettacolo si potrà rivedere a Madrid essendo una coproduzione del Costanzi e del Real.

Amleto

© Ennevi Foto

Franco Faccio, Amleto

Verona, Teatro Filarmonico, 22 ottobre 2023

★★★

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«Essere o non essere! codesta la tesi ell’è»

Tra un mese il Mefistofele di Arrigo Boito aprirà la stagione lirica romana, ma intanto al Filarmonico di Verona è possibile scoprire un altro lavoro di quegli anni, ispirato questa volta non a Goethe ma a Shakespeare, «la grande attualità del melodramma» come scrive Boito nel 1865 pensando al Macbeth di Verdi andato in scena a Parigi ad aprile e al suo libretto dell’Amleto con musica di Franco Faccio presentato a Genova il 30 maggio. Boito ha 23 anni, Faccio 25, entrambi sono veneti e appartengono al movimento della Scapigliatura, sono giovani, irruenti e si arruoleranno entrambi nel corpo dei volontari di Garibaldi in occasione della Terza Guerra d’Indipendenza. Il frutto del loro lavoro non ha però il successo sperato e sei anni dopo viene presentato in una versione piuttosto rimaneggiata alla Scala di Milano il 9 febbraio 1871. Ma è un fiasco ancora maggiore e l’indisposizione dell’interprete titolare, il tenore Mario Tiberini, è la scusa per ritirare il lavoro, che non verrà mai più rappresentato. Per Faccio è anche la decisione di abbandonare per sempre la composizione e dedicarsi solo alla direzione d’orchestra. 

L’Amleto è stato ripreso ad Albuquerque nel 2014 nell’edizione critica di Anthony Barrese e poi a Bregenz nel 2016 in una produzione disponibile in video. Ora ritorna nella città natale del compositore come prima esecuzione italiana in tempi moderni preceduta da un’interessante tavola rotonda ospitata a Palazzo Maffei in Piazza delle Erbe, dove esperti hanno discusso delle peculiarità di un lavoro che rappresenta un unicum nella storia dell’opera italiana nella sua traduzione della drammaturgia scespiriana e nella restituzione teatrale delle teorie della Scapigliatura. Non ultima è la sua difficoltà di esecuzione legata alla parte vocale estremamente impegnativa del personaggio principale per di più quasi sempre presente in scena. 

L’Amleto è opera ambiziosa, velleitaria ma piena di un’energia giovanile che cerca ispirazioni ad ampio raggio – Verdi, Wagner, la grandiloquenza del grand-opéra, ma anche il lirismo di Gounod – con risultati inediti e a loro modo personali. Chi ha voluto l’opera ha dovuto affrontare un primo problema: della versione scaligera si è perso il quarto atto, manca dagli archivi Ricordi. Quella qui proposta è una versione spuria: i primi tre atti sono del 1871 e il quarto del 1865. Il secondo problema era quella del reperimento dell’interprete titolare, ma la scelta del tenore Angelo Villari per la prima e per l’ultima recita (si alterna con Samuele Simoncini nelle altre due recite) ha giustificato questa attesa ripresa grazie alle qualità vocali dell’interprete. Il suo ruolo anticipa quelli della Giovane Scuola (soprattutto Giordano) e il cantante, che ha in repertorio Ponchielli, Mascagni, Cilea, Respighi, affronta con agio una tessitura che si può definire sadicamente impervia. Villari esibisce una voce sonora, un timbro squillante e di grande proiezione, uno scavo della parola e un fraseggio efficace, ma diversamente dall’Amleto introverso e straniato di Pavel Černoch dell’edizione di Bregenz, il suo è virile e deciso, anche troppo, la figura quasi mussoliniana e il turbamento del personaggio di Shakespeare, la sua cinica ironia qui sono assenti. Per contrasto, ancora più intensa, trepidante ed emozionante è l’Ofelia di Gilda Fiume che domina perfettamente la lunga scena della pazzia. Anche lei si alterna nelle recite con un altro soprano, Eleonora Bellocci. 

La regina Geltrude nel libretto di Faccio ha un momento di pentimento assente in Shakespeare, «Ah! Che dissi? Io rea, che il padre | spensi al figlio e tolsi il trono, | non son madre, ah non son madre!…», che Marta Torbidoni intona con grande intensità e voce ricca di risonanze gravi. Dei molti altri interpreti alcuni sono più convincenti di altri, ma tutti dipanano con efficacia teatrale la lingua artificiosissima di Boito, qui più scapigliato che nelle successive opere di Verdi. Nel suo Amleto tocca le vette dello sperimentazione e della ricercatezza linguistica: «Con impaziente foja abbandonava la sposa del magnanimo defunto nell’adre braccia di quel drudo! […] All’arsiccio gorgozzule bramoso una felice innaffïata […] Eccovi tutto grullo e incamuffito!». Fortunatamente il cast è interamente italiano è una sbirciata al vocabolario risolve il problema di comprensione.

L’orchestra della Fondazione Arena di Verona dà ottima prova sotto la guida di Giuseppe Grazioli che ha sostituito il previsto Alessandro Bonato. Senza nulla togliere dell’esuberanza a tratti ingenua della partitura, ne fornisce una lettura antiretorica che ha i momenti migliori nelle pagine puramente strumentali dei preludi e della marcia funebre di Ofelia, un lungo solenne brano che ha preso la strada dei concerti sinfonici ed è la pagina più conosciuta dell’opera. Anche il coro, istruito da Roberto Gabbiani, si è dimostrato all’altezza della prova.

Alla sua prima regia lirica Paolo Valerio non delude ma neanche esalta: il suo è un impianto minimalistico che fonde elementi tradizionali, quinte, tende, frange, con le proiezioni di Ezio Antonelli in modo sobrio. Se i movimenti del coro sono impacciati, meglio vanno i personaggi principali e gli attori della pantomima trasformati in marionette. Efficaci le luci di Claudio Schmidt mentre poco caratterizzati si rivelano i costumi di Silvia Bonetti, che rimandano agli anni tra le due guerre in cui il regista sembra voler ambientare la storia. Ma lo spettro del padre di Amleto si presenta in un’incongrua armatura!

Un pubblico molto partecipe e generoso di applausi a scena aperta ha decretato col suo entusiasmo che l’Amleto di Faccio può entrare nel repertorio. E si sa, il pubblico ha quasi sempre ragione…

   

Falstaff

Giuseppe Verdi, Falstaff

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 20 agosto 2023

★★☆☆☆

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Falstaff a Salisburgo: tutti gabbati, soprattutto il pubblico

Sono due i titoli verdiani in programmazione al Festival di Salisburgo quest’anno ed entrambi tratti da Shakespeare: del Macbeth si è scritto, il Falstaff è affidato a una coppia di collaudata scuola tedesca: Ingo Metzmacher e Christoph Marthaler. Il primo non è propriamente un direttore verdiano, il secondo un regista apprezzato in passato in alcune produzioni. Ma non in questa.

Nei recenti allestimenti dell’ultimo ineffabile capolavoro di Verdi, le letture hanno oscillato tra la comicità e la malinconia. Un esempio della prima è stata la produzione di Barrie Kosky con la sua irresistibile comicità teatrale, della seconda la messa in scena di Damiano Michieletto ambientata nella casa di riposo per artisti di Milano. Marthaler sceglie una strada diversa, quella della decostruzione cara al Regietheater con una drammaturgia del tutto aliena all’opera e criptiche citazioni, qui cinematografiche, che solo le note di regia possono rivelare. Il programma di sala dunque come libretto d’istruzioni per decrittare una regia? Grazie, no.

Dopo che il sipario si è aperto – e impiega quasi mezzo minuto sullo sterminato palcoscenico della Großes Festspielhaus – si vedono i tre distinti ambienti della scenografa Anna Viebrock che ha disegnato anche i costumi. A sinistra le poltrone di una sala di proiezione, al centro uno stanzone/set cinematografico con pareti mobili, a destra un esterno di motel con sedie a sdraio e una piscina, senz’acqua ma con prevedibili materassi sul fondo per attutire le continue e ripetute cadute di personaggi. Nella piscina/Tamigi non cadrà però Falstaff, bensì il regista del film, un tipo che la pancia ce l’ha – il vero Falstaff invece si rifiuta di portare l’orrenda protesi – e che ha le sembianze di Orson Welles. Infatti di questo si tratta: il regista americano nel 1965 gira il suo Falstaff e lo interpreta rivestito di un’armatura con cui appare alla fine dell’opera. Un esercizio intellettualistico che non porta però da nessuna parte. Che cosa c’entra con Verdi e la sua musica? Per di più la realizzazione è tutt’altro che ben fatta, con i personaggi che si muovono a caso – quando si muovono e non stanno impalati con le mani in tasca. In modo alieno all’umorismo della vicenda si accumulano gag inutili e distraenti: oltre a quelle delle cadute, davvero troppe, ci sono quelle delle ceste; quella della acrobata che si avviluppa nel cavo elettrico; della coppia Cajus e Bardolfo i quali dopo il matrimonio che li ha uniti non la smettono di abbracciarsi e sbaciucchiarsi felici. Se non è umorismo di bassa lega questo…

Dopo un prologo muto, vediamo i personaggi leggere le loro battute ai leggii ma una telecamera li riprende (?) senza costumi (?) in un ambiente anonimo mentre il regista dalla sua sedia dà ordini. Presto però le macchine da presa spariscono ma gli interpreti agiscono come se stessero continuando a provare, anche se con sempre minor convinzione. Se all’inizio l’idea poteva avere uno spunto di qualche interesse, poi però il giochino si sfalda, diventa noioso e il finale, inconcludente, totalmente privo di magia fiabesca e ironia, è tra le cose peggiori.

Non tanto meglio va la parte musicale, con un direttore corretto ma lontano dallo spirito del lavoro, i concertati non hanno rilievo, i passaggi polifonici sono torbidi, le voci sono spesso coperte: Falstaff nel primo atto quasi non si sente travolto dal volume orchestrale. Dov’è la leggerezza della partitura? Persa è la trasparenza del gioco strumentale che accompagna gli arguti dialoghi di Boito. Qui è tutto greve, piatto, senza ironia. Regista e direttore riescono a distruggere l’impalcatura con cui si regge la mirabile costruzione dell’ultima opera di Verdi.

Sulla carta c’era un cast di prim’ordine, con due tra i più intelligenti interpreti di oggi: Gerald Finley, nella parte eponima, e Simon Keenlyside, due artisti di area anglosassone a loro agio nel teatro di Shakespeare. Il primo però sembra spaesato in tutto questo bailamme e per di più ha accusato dei problemi alla gola che non sembrano del tutto risolti, e infatti la voce sparisce dietro il muro di suono innalzatogli contro dall’orchestra. Il secondo è più a suo agio e riesce a dominare meglio la scena, ma non è un Ford memorabile, manca il gusto della parola tagliente nel monologo «È sogno o realtà?». Meglio le donne che a un certo punto cercano di prendere in mano la situazione con Alice (una bravissima Elena Stikhina) che si installa sulla sedia del regista. Assieme a Tanja Ariane Baumgartner (Quickly) e Cecilia Molinari (Meg) si forma un terzetto ben affiatato vocalmente. I due giovani, Nannetta e Fenton, trovano nella fresca voce di Giulia Semenzato e Bogdan Volkov due interpreti efficaci. Così come lo sono il Bardolfo di Michael Colvin e il Pistola di Jens Larsen. 

Nota finale: la political correctness è arrivata, inesorabilmente anche qui: le parole del libretto «Affiderei | la mia birra a un tedesco, | tutto il mio desco | a un olandese lurco, | la mia bottiglia d’acquavite a un turco» nelle traduzioni tedesca e inglese dei sopratitoli sono totalmente ignorate per non urtare le rispettive  sensibilità nazionali!

Delle reazioni finali del pubblico allo spettacolo non so dire: mi sono alzato e me ne sono andato appena è stato possibile. Uscendo ho sentito applausi frammisti ad alcuni buu.

Falstaff

foto © Michele Monasta

Giuseppe Verdi, Falstaff

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 23 giugno 2023

★★★☆☆

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Falstaff a Firenze, uno spettacolo d’emergenza

A Firenze, non previsto inizialmente, va in scena Falstaff di Verdi. Le recenti vicissitudini del Maggio Fiorentino – dimissioni del sovrintendente Alexander Pereira e commissariamento a causa dei debiti accumulati dal teatro – non hanno potuto non avere una conseguenza sulla programmazione e il titolo previsto a chiusura della stagione, il wagneriano Die Meistersinger von Nürnberg,  è stato cancellato per i costi della produzione ed è stato ripescato un allestimento della passata stagione mettendo insieme in tutta fretta un cast dignitoso ma non memorabile, sostenuto per fortuna dalla concertazione sopraffina del direttore musicale del Maggio, Daniele Gatti.

Ecco quindi che Michael Volle lascia i previsti e consueti abiti di Hans Sachs e Markus Werba quelli di Beckmesser per indossare quelli di Falstaff e Ford rispettivamente nella ripresa dell’allestimento di Sven-Eric Bechtolf visto qui a Firenze  nell’autunno 2021. Un allestimento che era stato giudicato “inoffensivo” in cui la regia non propone nulla di nuovo se non le solite vecchie gag, realizzate comunque con ritmo appropriato nella ripresa di Stefania Grazioli. Piacevole l’impianto scenico di Julian Crouch, un’ambientazione tutta in legno che vuole riprendere il teatro elisabettiano, con quinte scorrevoli, silhouette di alberi di legno che scendono dall’alto, onde del Tamigi mosse a mano “come una volta”, piccoli vascelli illuminati in balia dei flutti (del fiume?). E un panorama realizzato in video da Josh Higgason che segue il trascorrere del tempo: dai camini fumanti, al trascolorare del cielo al tramonto, allo sfavillio delle stelle notturne. Mooolto carino. 

Ineccepibili i costumi d’epoca di Kevin Pollard, compreso quello giustamente flamboyant di Falstaff che si prepara all’incontro galante con Alice, e quelli deliziosamente fantasiosi del finale nella foresta. Giustamente appropriato il gioco luci di Alex Brok ripreso da Valerio Tiberi.

Il cantante tedesco Michael Volle dopo tanti drammi straussiani e wagneriani sembra per una volta divertirsi in un personaggio comico, ma al suo Falstaff manca quel pizzico di malinconia che rende il personaggio così grande. Verdi scrive che «si potrebbe cantare tutta a mezza voce» a proposito della parte di Jago,  ma si potrebbe riferire anche a Falstaff, ruolo che scrisse per Victor Maurel – lo stesso interprete dell’anima nera dell’Otello –, un baritono francese che detestava «fare la voce grossa». Da lui, come dagli altri cantanti delle sua ultima opera, Verdi richiedeva «elasticità di voce, sillabazione chiara e facile, accento e fiato». Volle è interprete indiscutibilmente autorevole ma quando si tratta di usare appunto la mezza voce, il timbro si sbianca, ricade nel falsetto, il legato diventa parlato. Meglio il Ford di Markus Werba, vocalmente a suo agio, anche se non del tutto sottilmente caratterizzato. Meno bene invece la parte femminile con l’Alice corretta ma niente più di Irina Lungu e la Mrs Page di Claudia Huckle e la Mrs Quickly di Adriana di Paola, entrambe abbastanza anonime. I servi di Falstaff, Bardolfo e Pistola, trovano in Oronzo d’Urso e Tigran Martirossian interpreti adeguati. La sorpresa è però quella di Rosalia Cid, giovane soprano spagnolo che ha debuttato quattro anni fa qui a Firenze come Lauretta nel Gianni Schicchi e nel suo percorso all’Accademia del Maggio si è poi fatta notare come Gilda (Rigoletto) e Liù (Turandot) e ora come Nannetta incanta il pubblico con il suo timbro delizioso e la grande sensibilità espresse nelle struggenti pagine scritte per il suo personaggio dal vecchio compositore. La affianca il Fenton di Matthew Swensen (l’unico presente della passata produzione), tenore di non grande proiezione ma di bello ed elegante stile. Un’accoppiata perfetta questa dei due giovani innamorati.

Ma, come si diceva, il bonus della serata è dato dalla direzione di Daniele Gatti. Falstaff è opera complessa e leggibile da multi punti diversi: chi la considera l’ultima della grande tradizione comica italiana, chi il punto di partenza della musica italiana del secolo nuovo che sarebbe iniziato sette anni dopo, un lavoro quindi oltre la tradizione del melodramma. Verdi sembra infatti divertirsi qui a parodiare o citare quella gloriosa tradizione, autocitandosi magari nel «Povera donna!» de La traviata o nell’«Immenso Falstaff!» che fa il verso all’«Immenso Fthà!» dell’Aida. L’unico momento in cui si percepisce la presenza di un vero e proprio “numero chiuso” è il monologo di Ford, che qui è la parodia dell’aria del baritono geloso, topos ineludibile dell’opera buffa italiana. Diverso è poi il rapporto tra canto e orchestra: il primo non è più predominante, la seconda raggiunge complessità sinfoniche. Daniele Gatti sembra propendere per la modernità profetica della partitura: gli interventi ironici degli strumenti che commentano le comiche vicissitudini del panzone sembrano preludere agli sberleffi musicali del Petruška stravinskiano e certe trasparenti e impalpabili atmosfere addirittura Debussy. Nessun’altra opera, comunque, sarà se non simile nemmeno riferibile all’ultimo capolavoro di Verdi, che rimane un unicum insuperabile. 

Il pubblico ha tributato le sue maggiori ovazioni proprio al Maestro Gatti, forse anche per confortarlo dell’incerto futuro che attende il massimo ente lirico della Toscana di cui è il Direttore Principale. 

Simon Boccanegra


Giuseppe Verdi, Simon Boccanegra

★★★☆☆

Parma, Teatro Regio, 14 ottobre 2022

(live streaming)

L’ur-Boccanegra e i suoi difetti a Parma

È dovere dei festival fare conoscere le versioni alternative dei capolavori dei compositori che intendono celebrare e bene ha fatto dunque il Festival Verdi, finalmente in versione completa dopo la sospensione del 2020 e la forma ridotta del 2021, a presentare la versione originale del 1857 del Simon Boccanegra, quella che a Venezia aveva replicato il fiasco de La traviata di quattro anni prima. Un’edizione che per la prima volta integra documenti autografi ritrovati nella villa di Sant’Agata del Maestro in una nuova produzione assegnata alla regista Valentina Carrasco, debuttante a Parma.

 

Le principali differenze di questo ur-Boccanegra, oltre alla miriade di piccoli aggiustamenti sia al testo che alla musica approntati da Verdi e Boito per l’edizione del 1881, stanno nella presenza di un breve preludio costruito su temi che verranno esposti nel corso dell’opera, una virtuosistica cabaletta a conclusione dell’aria di sortita di Maria/Amelia e una scena di festa alla fine del primo atto che nella seconda versione verrà sostituita dalla ben più incisiva scena del Gran Consiglio. Manca quindi il monologo di Paolo «Me stesso ho maledetto» e il personaggio non ha il peso che avrà nella futura versione. Simone Boccanegra qui non è ancora quella grande opera dove la riflessione politica e il disinganno del potere coinvolgono anche gli affetti privati come sarà con Boito, in questa versione abbiamo una storia privata immersa in uno scontro politico.

Nella lettura della Carrasco è la lotta di classe la protagonista: la plebe è sostituita dagli operai, lavoratori dal coltello facile, i patrizi dai capitalisti. La ferocia del potere è rappresentata dalle carcasse di bue appesi in un macello, la congiura una resa di conti tra mafiosi. La registra illustra in maniera molto realistica l’espressione “carne da macello” e la violenza espressa nel libretto – sangue, pugnale, morte sono i termini più frequenti – e ambiente la vicenda nella Genova degli anni ’60, come si evince dai costumi di Mauro Tinti, dai video in bianco e nero e dalle scene di Martina Segna. Questo realismo si trasforma però in un quadro simbolico di riappacificazione nel finale quando Genova diventa inopinatamente un campo di grano e i camalli del porto candidi pastori da presepe con scialletto di pelle di agnello. Il corrusco Quarto stato di Pellizza da Volpedo si trasforma così in un romantico quadro di mietitori dove viene portato in scena anche un agnellino vivo e il sole al tramonto è reso con sei riflettori puntati sul pubblico, ma tutto questo ottimismo non sembra confermato dalla musica, pessimistica quanto mai. Che poi le carcasse da macello avrebbero urtato la sensibilità di molti spettatori era prevedibile ed è avvenuto, ma non è questo il punto. La regista dimostra di possedere molte idee, anche troppe, ma spesso sono espresse in maniera pesante e poco coerente e la recitazione non rende più plausibili i personaggi. Qui la morte di Simone è tra le più imbarazzanti viste finora e  la fanciullaggine di Amelia eccessiva.

 

Senza riserve è invece la realizzazione musicale affidata alla conduzione esperta di Riccardo Frizza che rende il meglio di questa partitura ancora un po’ grezza, ma che lascia intravedere i tesori futuri. I tempi scelti sono convincenti, il colore scuro e gli sprazzi di luce sono ben resi, giusto è l’equilibrio tra orchestra e cantanti, precisi gli interventi del coro, qui impegnato anche in passi coreografici e movimenti complessi, peraltro ben controllati dalla Carrasco.

Nobile e introverso è il Simone di Vladimir Stoyanov: più che la fierezza dell’ex corsaro qui predomina l’amore per la figlia ritrovata negli affetti privati e la delusione in quelli pubblici. Nel finale condividerà il pianto con l’altro padre, Fiesco, un autorevole Riccardo Zanellato. David Cecconi, privato della sua pagina più importante, non riesce a dare tridimensionalità al suo Paolo Albiani mentre la coppia dei giovani può contare sul sicuro mestiere di Piero Pretti, un Gabriele Adorno se non attorialmente, vocalmente convincente, e una freschissima Roberta Mantegna che affronta senza esitazione e con ottimi risultati la cabaletta «Il palpito deh frena» quando Amelia è in attesa dell’arrivo del suo amato.

Il video streaming dello spettacolo è disponibile sul portale operastreaming.com, il palcoscenico virtuale dell’Emilia-Romagna.

La Gioconda

 

Amilcare Ponchielli, La Gioconda

★★★☆☆

Milan, Teatro alla Scala, 11 juin 2022

 Qui la versione italiana

La Gioconda, retour à la Scala après 25 ans d’absence

Il avait disparu de la Scala depuis 25 ans, pourtant l’opéra de Ponchielli n’est pas une rareté dans le temple de l’opéra milanais. Si l’on regarde les dates des représentations, après la première du 8 avril 1876, La Gioconda a été reprise 15 fois jusqu’en 1952 (la fameuse production avec Callas) ; on note ensuite une absence de 45 ans jusqu’en 1996, avec Abbado : il est donc clair que la fortune de l’œuvre appartient à une période très spécifique qui ne s’est pas prolongée jusqu’à nos jours, même si cet  « opéra mélodramatique  » a encore de nombreux admirateurs…

la suite sur premiereloge-opera.com

La Gioconda

 

Amilcare Ponchielli, La Gioconda

★★★☆☆

Milano, Teatro alla Scala, 11 giugno 2022

bandiera francese.jpg  Ici la version française

La Gioconda, melodramma melodrammatico

Mancava da 25 anni dalla Scala, ma non si può dire che l’opera di Ponchielli sia una rarità nel teatro milanese: se si guardano le date delle rappresentazioni però – dopo la prima dell’8 aprile 1876, La Gioconda fu ripresa altre 15 volte fino al 1952, quella con la Callas, poi un’assenza di 45 anni fino al 1996 con Abbado – è evidente che le fortune del lavoro appartengono a un periodo ben preciso, che non arriva ai giorni nostri nonostante questo «melodramma melodrammatico» abbia ancora molti estimatori.

I motivi perché La Gioconda, ispirata dal drammone Angelo, tyran de Padoue di Victor Hugo trasportato da Boito a Venezia, fosse tanto apprezzata allora ci sono tutti: vicende da feuilleton a tinte forti, quasi sadiche («bieca enormità dell’intrigo» la definiva Massimo Mila), coups de théâtre improbabili e personaggi scolpiti con la fiamma ossidrica. E poi una musica ben costruita, che sembra guardare al futuro – leggi il Verismo – ma è invece rivolta a un passato che in un certo qual modo rifaceva il grand opéra rivisto con le lenti del post-wagnerismo: le dimensioni in quattro atti, la presenza dei ballabili, i numerosi concertati e interventi corali richiamavano proprio quella stagione della musica francese dell’Ottocento i cui momenti d’oro si erano estinti negli anni ’50 con le ultime opere di Auber. Ma negli ultimi decenni del XIX secolo una nuova generazione di compositori francesi continuava a produrre opere in quel solco, parliamo di Massenet, Gounod, Saint-Saëns, Thomas, D’Indy, mentre in Italia musicisti come Gomes, Marchetti e appunto Ponchielli si collocavano anch’essi sull’evoluzione del grand opéra per arrivare a Verdi con quel sublime ossimoro con cui si può definire l’Aida: una grandiosa opera intimista.

Il gusto moderno fa fatica ad appassionarsi alle vicende narrate nei datati versi del giovane Arrigo Boito, che qui si firma per prudenza con l’anagramma Tobia Gorro, e ci vorrebbe un regista che volgesse quella assurda drammaturgia in parodia, o almeno ne facesse una lettura critica, come ha cercato di fare Olivier Py a Bruxelles tre anni fa. Ma ciò non succede con Davide Livermore, che alla Scala riserva sempre le sue letture più “moderate”.

Il regista torinese ricrea una Venezia lugubre e onirica, tra la Venise Céleste di Mœbius e il Casanova di Fellini, con i ponti, le scalette, i palazzi trasparenti disegnati da Giò Forma – anche se fin troppo realistico è invece il brigantino del secondo atto. La scena è infestata dai crudeli Pulcinelli del Tiepolo di Ca’ Rezzonico qui scherani del capo dell’inquisizione, dagli angeli della morte e dai genii del male calati dall’alto. Lugubri gondole, capitelli sospesi, bifore e colonnine in garza connotano la città lagunare. L’impianto ipertecnologico a cui ci aveva abituato Livermore è limitato alle proiezioni della D-Wok, qui poco più che decorative, con i profili delle chiese nella nebbia che sale dal mare, i soffitti a cassettone di palazzi grandiosi e una figura femminile che fluttua nell’acqua e che vuole forse accennare alla Cieca affogata nel canale. Meno curata del solito è anche apparsa la cura attoriale dei cantanti. Saioa Hernández è ritornata nella parte del titolo con cui aveva debuttato nei teatri emiliani quattro anni fa. Volume enorme, grande temperamento e tecnica impeccabile si alleano a un timbro particolarissimo che in questo repertorio è manna dal cielo per delineare il carattere del personaggio, tanto che il pubblico l’ha compensata con un diluvio di applausi al termine di «Suicidio!» e nei saluti finali. Anna Maria Chiuri, che in quella produzione era Laura Adorno, qui veste i panni della Cieca con efficace vocalità e buona presenza scenica, mentre Laura qui è Daniela Barcellona, interprete belcantista che in questo repertorio truculento ha fornito la bellezza del suono e la cura del fraseggio che le riconosciamo. Straordinariamente inciso è stato l’Alvise Badoèro di Erwin Schrott, che ha rinunciato a ogni gigioneria per concentrarsi sulla qualità della sua voce rendendo memorabile la sua scena e aria all’inizio del terzo atto. Altrettanto perfido ma non caricaturale il Barnaba di Roberto Frontali, risolto con grande mestiere dal baritono romano. L’indisposto Fabio Sartori è stato sostituito all’ultimo momento da Stefano La Colla le cui incertezze di intonazione, giustificate alla prima, sono continuate anche nella recita dell’11, ma il pubblico ha reagito pavlovianamente al suo acuto finale “col rinforzo” di «Cielo e mar» applaudendo una modesta prestazione caratterizzata da un volume ragguardevole ma pochezza di colori e di intenzioni. Fabrizio Beggi (Zuàne) e Francesco Pittari (Isèpo, Boito ama mettere gli accenti anche là dove non servono…) sono tra gli altri convincenti comprimari. Come sempre ottimo il coro istruito da Alberto Melazzi. Nella Danza delle Ore, prosaicamente coreografata da Frédéric Olivieri, si sono distinti gli allievi della scuola di ballo dell’Accademia del teatro.

Anche il pubblico, seppure formato in gran parte dai visitatori della Settimana del Design, ha compreso la scarsa qualità della direzione di Frédéric Chaslin: la sua è una concertazione senza nerbo con dinamiche improvvisate e assenza di colori strumentali. Eppure il fascino di una partitura come questa sta proprio nell’iridescenza dei toni orchestrali più che negli improvvisi slanci melodici che si estinguono prima di essere sviluppati. Purtroppo il direttore francese non sembra che l’abbia compreso.

 

Nerone

 

Arrigo Boito, Nerone

Bregenz, Festspielhaus, 2 agosto 2021

★★★☆☆

(registrazione video)

No, non si sente la mancanza del quinto atto

Opera postuma di Arrigo Boito, Nerone è la sua seconda di cui abbia scritto sia il libretto sia la musica, la prima essendo il Mefistofele. Nel 1884 il compositore scriveva: «Per mia disgrazia ho studiato troppo la mia epoca (cioè l’epoca del mio argomento). […] Terminerò il Nerone o non lo terminerò, è certo che non lo abbandonerò mai per un altro lavoro e se non avrò la forza di finirlo non mi lagnerò per questo e passerò la mia vita, né triste né lieta, con quel sogno nel pensiero».

Tra il primo segnale del progetto, una lettera di Camillo Boito al fratello del febbraio 1862, e la morte del suo autore, giugno 1918, che lasciò l’opera incompleta nell’orchestrazione del quarto atto, trascorsero cinquantasei anni. «Un enorme arco di tempo, che probabilmente non ha eguali nella storia dell’opera e che la dice lunga sui problemi e sulle incertezze che caratterizzarono il Boito post-Mefistofele. In questi cinquantasei anni Boito mise a punto un’impressionante mole di materiale preparatorio (abbozzi musicali, appunti e iconografia su scene e costumi, schede su personaggi e situazioni drammatiche, taccuini di lessico e metrica e persino un intero trattato di armonia concepito ad hoc), utilizzando fra l’altro, in maniera capillare, un’amplissima bibliografia, che va dai più importanti storici latini (Tacito, Svetonio) fino agli studiosi del suo tempo (Renan, Mommsen). L’opera, progettata originariamente in cinque atti, fu ridotta a quattro negli anni Dieci, dopo la pubblicazione della tragedia in versi (1901), nella quale è presente anche il quinto atto. Al completamento dell’orchestrazione lavorarono Tommasini e Smareglia, sotto la supervisione di Toscanini, che fu anche il direttore della prima rappresentazione [1 maggio 1924]. Lo sfarzosissimo allestimento del Nerone, con le scene e i costumi disegnati da Lodovico Pogliaghi seguendo le minuziose indicazioni lasciate da Boito stesso, fu uno dei massimi esiti della scenotecnica scaligera del primo Novecento» (Susanna Franchi) e un enorme successo di critica e pubblico.

Atto primo. La via Appia. La vicenda vive soprattutto della contrapposizione tra il mondo pagano in disfacimento e il nascente mondo cristiano. Nerone, allontanatosi da Roma dopo il suo matricidio, cerca conforto nei riti di Simon Mago, ma viene atterrito e messo in fuga dall’apparizione dello spettro di Asteria. Simon Mago pensa di usare Asteria, che è follemente attratta da Nerone, contro lo stesso imperatore. Poco lontano, la preghiera della giovane Rubria viene interrotta dall’apostolo cristiano Fanuèl, che la esorta a confessare il peccato che la opprime. Il dialogo viene interrotto da Simone, che offre dell’oro a Fanuèl in cambio dei suoi miracoli, ricevendone invece una maledizione. Nerone ritorna e Tigellino gli annuncia che tutto il popolo romano sta sopraggiungendo per riportarlo in trionfo nell’Urbe.
Atto secondo. Nel tempio di Simon Mago. Per piegare Nerone alle sue ambizioni, dopo esser ricorso a vari stratagemmi Simon Mago gli fa comparire dinanzi Asteria in veste di dea; ma quando la giovane si china sull’imperatore per baciarlo, questi si accorge di avere fra le braccia una donna: nella sua furia inarrestabile devasta allora il tempio, scoprendo i trucchi di Simon Mago, che viene arrestato dai pretoriani e condannato a morire nel circo.
Atto terzo. I cristiani sono riuniti in preghiera sotto la guida di Fanuèl che riporta il discorso delle beatitudini, quando giunge Asteria, fuggita dalla fossa delle serpi in cui era stata fatta gettare da Nerone, per avvertirli che anch’essi sono stati condannati dall’imperatore. Simon Mago guida i soldati romani fino a loro; Fanuèl, arrestato, chiede ai confratelli di pregare mentre viene condotto via.
Atto quarto. Quadro primo: l’oppidum. Nel circo Massimo. Simon Mago viene avvertito dell’imminente incendio della città, appiccato per favorire la sua fuga; anche Nerone ne è a conoscenza, e anzi se ne allieta con Tigellino. Quando i cristiani vengono condotti a forza nell’arena, una vestale velata chiede pietà per loro, ma Nerone, fattole strappare il velo da Simone, riconosce Rubria, segnando così la sua condanna. Simon Mago, forzato a volare da Nerone, si schianta al suolo proprio mentre l’annuncio dell’incendio provoca un fuggi fuggi generale. Quadro secondo: nello spoliarium del Circo Massimo. Nel sotterraneo del circo, dove si depongono i morti, Fanuèl e Asteria cercano Rubria. La giovane, ormai in fin di vita, confessa finalmente a Fanuèl il suo peccato, quello di aver servito un falso dio come vestale e contemporaneamente gli svela il suo amore. Fanuèl le dà il perdono cristiano e la dichiara sua sposa; Rubria muore e Fanuèl fugge con Asteria dallo spoliarium in fiamme.

Prima di diventare un libretto d’opera, il Nerone fu un testo poetico che Boito diede alle stampe nel 1901, dopo la scomparsa di Verdi, con l’autorizzazione di Ricordi che ne aveva acquistato i diritti per la versione operistica. Ricordi aveva imposto però che la copertina e il formato della pubblicazione fossero diversi da quelli del libretto dell’opera. Nel testo pubblicato dai Fratelli Treves c’era un quinto atto – in cui Nerone subisce un crollo psichico mentre recita l’Oreste, con conseguente apparizione dello spettro di Agrippina, ritornando tematicamente alla scena iniziale del dramma in cui cerca di placare i mani e le furie della madre – che fu espunto nella versione musicale.

Si era presentata anche un’ipotesi, su idea di Giulio Ricordi all’indomani dell’Aida, che a musicare il libretto di Boito fosse Verdi, ma in una lettera del 1871 aveva già scritto: «Non posso oggi rispondervi sull’affare Nerone! Non ho un minuto da perdere. Gran progetto! voi dite! verissimo, ma è realizzabile? Vedremo!». In seguito Verdi scriverà di aver molto apprezzato il libretto: «Boito tornando da Parma si è fermato quì per circa 48 ore e m’ha letto il libretto del Nerone !! Non so se faccio bene a dirvelo, ma Egli non m’ha raccomandato il segreto e così ve ne parlo nella certezza che vi fara piacere il sentire che il Libretto è splendido. L’epoca è scolpita magistralmente e profondamente: cinque caratteri l’uno più bello dell’altro, Nerone malgrado le sue crudeltà non è odioso: un quarto atto commoventissimo; ed il tutto chiaro, netto, teatrale malgrado il massimo trambusto e movimento scenico. Non parlo dei versi che sapete come li sa far Boito; pure questi mi sembrano più belli di tutti quelli che ha fatto finora». (Lettera di Giuseppe Verdi a Giulio Ricordi, 25 maggio 1891). Non se ne farà nulla. Un Nerone, su libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti tratto dal dramma omonimo di Pietro Cossa, lo scriverà Mascagni nel 1935.

Se nella seconda metà del secolo passato si contano importanti incisioni italiane del Nerone (Toscanini 1948, Capuana 1957, Gavazzeni 1975), più recentemente sono gli stranieri ad essersi interessate all’opera, come Eve Queler con l’Orchestra di Stato Ungherese (1983) per una registrazione Hungaroton, o Nikša Bareza per una esecuzione del 14 luglio 1989 nel Palazzo di Diocleziano di Spalato il cui video è disponibile su youtube. Ora c’è questa produzione dei Bregenzer Festspiele nel teatro al coperto di fianco alla Seebühne. Nella sua smodatezza e stravaganza, quest’opera è ideale per i festival che non devono conformarsi alle esigenze del repertorio quotidiano: arte per l’arte, per il piacere, per lo stupore che una cosa del genere sia possibile.

Quest’opera non vuole chiarezza: Boito con il suo libretto e con la sua musica fa una corsa sfrenata attraverso il simbolismo italiano, che vive di allusioni, misticismo e accenni enigmatici e il regista Olivier Tambosi fa di tutto per aumentare la confusione con la sua lettura da peplo horror. L’inizio sembra quello di un dramma passionale in cui le cose sono andate male e tutti, proprio tutti, hanno lo stesso abito per la costumista Gesine Völlm, ossia una vestaglia lorda di sangue, la stessa parrucca e un martello in mano, mentre Fanuèl porta una corona di spine e ha la figura del Nazareno, compreso il cuore ricamato sul petto. Nerone ha letto Freud e dopo aver portato a spasso per la scena il cadavere della madre da lui assassinata ne indossa il vestito verde. Anche il coro si esibisce in questo costume, forse un incubo dell’imperatore. Simon Mago indossa ali nere, i cristiani tuniche bianche, le cristiane sono monache. Lo scenografo Frank Philipp Schlössmann risolve il problema dei numerosi cambi di scena con una piattaforma rotante comprendente un triplice labirinto a incastro con colonne luminose che muovendosi rivelano nuovi scorci o fanno scomparire l’azione in una misteriosa oscurità grazie al gioco luci di Davy Cunnigham.

A capo dei Wiener Symphoniker Dirk Kaftan dipana la reboante partitura con fermezza e qualche taglio e ne mette in luce gli aspetti da colonna sonora hollywoodiana piena di reminiscenze verdiane, pucciniane e wagneriane. Le voci si adeguano al massiccio volume sonoro: qualcuno ci riesce meglio, come il tenore Rafael Rojas (Nerone) in gara con le esigenze della parte che nacque con Aureliano Pertile, altri hanno più difficoltà, come Svetlana Aksenova (Asteria) che ha timbro metallico e negli acuti tende a gridare. Qui comunque non si tratta di sfumature. Più sensibile è la Rubria di Alessandra Volpe mentre Lucio Gallo gigioneggia come Simon Mago e Brett Polegato è il rigoroso Fanuèl. I tanti interventi corali mettono in evidenza la versatilità del Coro Filarmonico di Praga. Comunque, dopo quattro atti non si sente la mancanza dell’incompiuto quinto.

La Gioconda

Amilcare Ponchielli, La Gioconda

★★★☆☆

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

Modena, Teatro Comunale Luciano Pavarotti, 25 March 2018

La Gioconda in Modena: a popularly acclaimed, small-town grand opera

For no other opera is the gap between scholars and public opinion so wide. Since 1876, when Amilcare Ponchielli’s La Gioconda debuted at La Scala in Milan with a success of unheard-of proportions, every time this drama is set up in some Italian theatre, its popular fortune is renewed.

Yet also the diffidence of the musicography in this colourful work, taken from Angelo, tyran de Padoue that Victor Hugo had written forty years before, remains unchanged. Nevertheless, audiences are subjugated by the opulence of the music of this small-town grand opera, which is not devoid of sections of undoubted effect and a wise musical construction. The problem is that in La Gioconda the characters have minimal psychological depth, being more like the representation of extreme feelings rather than credible dramatic characters…

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